Un po’ più a Sud – Racconti africani di Pietro del Re (IOD) di Amedeo Borzillo

“Pietro sa raccontare senza giudicare. La sua è una rara capacità di sviluppare empatia tra chi guarda e chi è guardato. Il suo punto di vista è sempre dalla parte della qualità e della quantità umana. Le sue fotografie sono il risultato di un incontro necessario, la sintesi di un dialogo armonico. Scatti che offrono la possibilità di toccare con mano pensieri condivisi con i quali sottolineare l’irrinunciabile solidarietà, per arrivare poi alla piena condivisione”

Denis Curti

Pietro del Re, inviato speciale di “Repubblica”, ha visitato nella sua lunga carriera una trentina di Paesi africani, intervistato capi di Stato e seguito i terribili conflitti in Somalia, Sud Sudan, Libia, Congo, Mali e Nigeria.

Con la IOD di Pasquale Testa ha realizzato un libro foto/giornalistico sull’Africa, il continente “vero” che spesso immaginiamo oleograficamente senza conoscerlo nella sua complessità.

Quaranta foto (scattate con la sua “vecchia Leica”) e quaranta racconti per parlarci di un continente devastato da carestie e guerre tribali, deprivato delle risorse naturali e dei paradisi naturalistici. Nessuna immagine o testi shockanti (che creano, come diceva Oliviero Beha, indignazione per 24 ore) ma mostrando occhi e paesaggi che nonostante tutto ci parlano di “incontri con gli ultimi che ci rendono migliori”.

La prefazione di Lucio Caracciolo e l’introduzione di Denis Curti ci guidano alla lettura di un libro “struggente” che ci inchioda alla realtà parlante della fotografia e ci obbliga a riflettere su cosa ci fosse prima e cosa ci sarà dopo.

Amedeo Borzillo

Perché leggere André Gide di Angela Valente

Gide scrisse una volta che le più opposte tendenze non erano mai riuscite a far di lui un essere tormentato, ma un essere perplesso: poiché il tormento accompagna uno stato da cui si desidera uscire, mentre egli diceva di non desiderare di sfuggire a ciò che metteva in vigore tutte le possibilità del suo essere. Quel che per gli altri nuoceva alla creazione era per lui un invito.1

È un peccato che André Gide sia spesso ricordato come “quello che non ha voluto pubblicare Proust” nonostante abbia riconosciuto il suo errore. È un anche peccato che faccia parte di quegli autori che “prima o poi leggerò”, procrastinazione legittima e comprensibile perché André Gide non è un autore dallo stile leggero e dalle trame
avvincenti.
Allora viene naturale chiedersi quale può essere il valore di questo uomo di cultura che nel 1947 ha vinto il Premio Nobel per la Letteratura con la seguente motivazione: «Per la sua opera artisticamente significativa, nella quale i problemi e le condizioni umane sono stati presentati con un coraggioso amore per la verità e con una appassionata
penetrazione psicologica.»
Gide infatti, per amore della verità, non ha paura degli abissi, delle zone d’ombra e delle contraddizioni umane. Debitore nei confronti di Dostoevskij come ha più volte ammesso, scava e mostra al lettore quello che trova senza mai pronunciarsi e senza mai giudicare. Un suo passo indietro equivale a un passo in avanti del lettore, che può sentirsi messo a nudo o cominciare a interrogarsi.
Ne L’immoralista sarebbe facile condannare il comportamento di Michel e la passione omosessuale per dei ragazzini. Ne La porta stretta l’amore costantemente rimandato e l’angelismo dei cugini Alissa e Jérôme. Ne I sotterranei del Vaticano tutti gli imbrogli e le macchinazioni di Protos. E ne I falsari la combriccola segreta di Georges, il conte di Passavant e la storia accennata tra Édouard, Olivier e Bernard.
Le occasioni sono tante, ma l’afasia del narratore regna sovrana.
Afasia che significa lasciare la questione aperta e senza risposta. Tra la liberazione sensuale e sessuale di Michel e l’astensione di Alissa e Jérôme cosa scegliere? Il primo ritrova sé stesso ma perde la moglie Marceline; i secondi si perdono per paura di trovarsi. E tra il movimento costante che provoca vertigini e la staticità? Sarebbe meglio il
movimento apparente de I sotterranei del Vaticano in cui tutti i personaggi si spostano nello spazio ma poi tutto ritorna al punto di partenza? O ancora, cosa è meglio tra l’impegno politico forsennato e la visione apartitica messi a confronto ne I falsari?
Anche qui nessuna strada indicata dal narratore.
Il segreto di uno spirito di osservazione così penetrante è che, come scrive Giovanni Macchia nelle parole poste in apertura, lo stesso Gide si riconosce come essere scisso e perennemente in questione. È lo stesso Gide a vivere su di sé la contraddizione tra una castigata educazione protestante e l’omosessualità scoperta a fatica nel tempo (tematica a cui consacra Corydon); tra la voglia di muoversi, scoprire e viaggiare e la voglia di mettere radici; tra la volontà di dare finalmente alla luce un romanzo d’avventura pieno di futilità, come pensava con il suo amico Jacques Rivière, e lo stile classico della scrittura.
Tutto ciò rende André Gide un essere inquieto che riesce a parlare alle inquietudini dell’uomo. Non è un caso se la citazione di Macchia è presa da Gide e l’inquietudine della ragione.
Allora una delle possibili risposte alla domanda “perché leggere André Gide” potrebbe essere la capacità di interrogare quel senso di insoddisfazione che prima o poi coglie chiunque nella vita, di mettere in luce le nostre contraddizioni e a farne “delle possibilità dell’essere” a patto che vengano riconosciute, affrontate con sincerità e con la consapevolezza che assecondare sempre e solo una delle alternative potrebbe essere pericoloso.

Angela Valente

  1. G. Macchia, Gide e l’inquietudine della ragione in Il paradiso della ragione. L’ordine e l’avventura nella tradizione letteraria francese, Bologna, Piccola Biblioteca Einaudi, 1972, p. 347. ↩︎

Grande Meraviglia di Viola Ardone (Einaudi) di Vincenzo Vacca

Ho finito di leggere Grande Meraviglia di Viola Ardone. Un libro che accompagna il lettore nell’inferno dei manicomi prima della legge Basaglia. I “matti” non solo confinati in luoghi lontani e chiusi dal mondo dei “normali”, ma sottoposti a violenze indegne di un Paese civile. Il libro, non perdendo la sua peculiare caratteristica di un romanzo, affronta brillantemente il rapporto con la follia, in considerazione che la follia è costitutiva di ogni essere umano e ognuno ci fa i conti a partire dall’infanzia. Lo stile letterario di Ardone rende il racconto avvincente e restituisce al lettore una sorta di bilancio, con i risultati conseguiti ma anche con le delusioni, di quella che è stata la stagione basagliana, parte integrante di una entusiasmante stagione politica e sociale di un forte rinnovamento del Paese, di aperture di una serie di Istituzioni. Grande Meraviglia costituisce una prova evidente di come la letteratura può diventare il termometro della storia, avvicinando accadimenti degli anni ’70 con le persone che stanno vivendo i primi vent’anni di questo ultimo secolo e trasmette l’importanza delle libere scelte, ma anche la paura di essere veramente liberi. Non a caso gli esseri umani, anche solo inconsciamente, chiedono di essere liberati dalla loro libertà per affidarsi al Messia del momento. Conseguenzialmente, Grande Meraviglia ci racconta che, per essere veramente liberi, bisogna liberarsi anche da chi ci ha indicato il percorso della libertà. In questo libro c’è tanto altro con diversi protagonisti che esprimono esplicitamente e/o implicitamente le loro svariate, intime, contraddittorie sfaccettature. Un libro da leggere, controcorrente in questa fase storica, fatta di banalizzazione, di rifiuto della complessità.

Vincenzo Vacca

Intervista a Lorenzo Marone di Bianca Miraglia del Giudice

Il libro è dedicato al piccolo Sergio De Simone, il piccolo bambino vomerese sottoposto, in un lager nazista, a sperimentazione chimica e poi barbaramente ucciso a soli otto anni. Cosa rispondi a chi obbietta che ormai è tutto affidato alla Storia, che è ultroneo continuare a testimoniare le atrocità dei campi di concentramento?
Rispondo che non c’è male peggiore di non continuare a raccontare la Storia, di perdere la memoria. La generazione che ha vissuto quelle atrocità, la cosiddetta Generazione Silenziosa, sta finendo ormai, ma questo non significa che, con loro, debba finire quella che è stata la loro storia. L’uomo senza memoria, senza conoscenza del passato, non ha la possibilità di interpretare il presente e quindi è una grande fesseria!

Due anni fa, hai raccontato di Matteuccia, staffetta partigiana, ne Il bosco di là, Aboca edizioni: è stato, in qualche modo, un prodromo di Cono e Serenella?
Ma no, all’epoca del Bosco di là non avevo ancora idea di scrivere questa storia; è sicuramente un periodo storico che mi affascina e che sento mio, da qualche parte, nel senso che sono i ricordi e i racconti dei miei nonni. Sulla storia di Matteuccia ho il piccolo rimpianto di non averla allargata facendola diventare un romanzo. È un bellissimo racconto lungo al quale sono molto legato, dal tema bello e poco raccontato.

Cono è un ragazzo passionale dominato da forti sentimenti: l’amore innanzitutto, la gelosia, l’intolleranza verso le ingiustizie sociali ed i soprusi messi in essere dal fascismo. Quanto c’è di te in lui? Quanto ti ha coinvolto emotivamente scrivere questo romanzo?
In Cono c’è poco di me, lui è un personaggio costruito perché doveva essere funzionale a quella che è la parte reale storica del romanzo e cioè i ragazzi costretti a boxare nei campi di concentramento, scelti tra quelli più in salute e più prestanti fisicamente. Lui nasce come un personaggio che non si interessa di politica, come anche la sua famiglia, cerca di non farsi notare dal regime, è un contadino figlio di mezzadri, che ama la sua terra, ama Serenella, è un ruspante e per questo viene soprannominato Galletta, non si tiene i soprusi e sa menare le mani; dovevo costruire un personaggio forte capace di resistere in quell’inferno, andando a boxare con le SS. In questo romanzo, io non sono nei personaggi ma nella terra perché è un romanzo sull’amore e sulle radici.

Una storia d’amore, bella come poche, cui fa da contraltare il vissuto terribile nel campo di concentramento; hai scritto tutto di getto oppure hai avuto bisogno di più scritture per trovare la dimensione perfetta di questo romanzo?
Io volevo scrivere una storia d’amore, ma non avrei scritto una storia romantica, non scritta al presente ma al passato; la storia d’amore dei nostri nonni, una storia incentrata su quell’energia intorno alla quale tutto gira, per dirla con Battiato, tutto obbedisce all’amore.
Nel romanzo c’è l’amore di Cono e Serenella, ma anche l’amore di Cono per la sua terra, il suo podere, suo padre, sua madre, sua sorella; ci sono due grandi amicizie, per Briscola e per Palermo. L’amore che tiene in vita e permette di resistere e che si contrappone al grande male. Io non volevo raccontare una storia partigiana, io volevo raccontare la storia di tanti ragazzi di umili origini, anche un po’ ignoranti, costretti a combattere né per la gloria né per la patria, ma, come dice Cono, “per poter tornare a dormire nel fienile con la mia Serenella”.

Nei “Ringraziamenti” posti alla fine del libro, affermi che la memoria serve a dare significato ai valori e, per chi sa custodirla, è essa stessa radici perché restituisce la vita a ciò che non c’è più, a chi non c’è più. Quanto vissuto, sereno o doloroso, occorre per comprendere appieno il significato profondo del ricordare?
La memoria per me è sempre stata un valore fondamentale, sia per il lavoro che faccio, sia perché nei miei romanzi ci sono i miei ricordi camuffati e travestiti, c’è il mio vissuto, ci sono aneddoti della mia vita. Qui l’aggancio con il mio vissuto e la mia infanzia è la terra dove ho deciso di ambientare il romanzo, perché Monte Rianu è un paese immaginario che nasce dalla combinazione di Teggiano e Monte S. Giacomo: sono due paesi a cui sono molto legato perché lì è nata mia nonna, lì d’estate andavano i miei zii e mio padre, perché lì fino ad una certa età mi recavo a trovare nonna Erminia, perché lì sono sepolti due miei zii; è una terra che amo molto che mi riporta al concetto di radici che io ho sempre cercato di rigettare e rifiutare per il vissuto che ho, che non sto qui a dire. Forse, con questo romanzo, sono tornato a far pace con le mie radici.

Bianca Miraglia Del Giudice

Sono tornato per te di Lorenzo Marone (Einaudi) di Vincenzo Vacca

A Cono era stato insegnato a non lasciare la fame al povero, e solo ora capiva che nessuna umiliazione nella vita è grande quanto quella di stare affamato dinanzi a chi affamato non è.

È un significativo passaggio che traggo dall’ultimo libro di Lorenzo Marone, Sono tornato per te. Un romanzo che parla di un ragazzo vivace, non a caso soprannominato “Galletta”, che vive nella zona del Vallo di Diano, tra la Campania e la Basilicata. Si chiama Cono Trezza. Aiuta molto volentieri i genitori a lavorare nei campi assorbendo l’amore per quel luogo e per i suoi abitanti, a eccezione dei fascisti arroganti e violenti. Il ragazzo osserva nei lavori agricoli, oltre il proprio padre, anche il compare Gerardo, detto “Cucozza” per via della testa pelata. Una sorta di secondo padre. A un certo punto della sua giovane vita, Cono si innamora perdutamente di Serenella, figlia di un uomo con idee socialiste. Siamo negli anni Trenta del Novecento, e tutti sappiamo l’orrore verso cui corre l’Italia e il mondo a causa del nazifascismo. Il bel romanzo di Lorenzo Marone narra come si dipanerà la storia d’amore tra Serenella e Cono che dovrà inevitabilmente impattare con gli effetti della seconda guerra mondiale, ma inizialmente con la violenza del regime fascista. Quello che è assolutamente da sottolineare è il fatto che lo scrittore evidenzia un aspetto non molto conosciuto nei lager nazisti, infatti per una serie di vicissitudini il protagonista del romanzo si ritroverà rinchiuso in un campo di concentramento tedesco come prigioniero politico. Dato che Hitler aveva una passione per la boxe, nei lager spesso si organizzavano tornei di pugilato con annesse scommesse ai quali partecipavano sia i tedeschi che i prigionieri internati nei campi. Cono viene scelto come pugile e anche ciò gli darà la forza morale di affrontare la vita abominevole del lager.
Ancora una volta, con questa sua nuova fatica, Marone conferma il suo stile letterario avvincente, arguto, capace di creare una forte, immediata e continua empatia tra i protagonisti del romanzo con i/le lettori/rici. Un libro che parla di sentimenti d’amore, di dignità, di comprensione, di insofferenza per le ingiustizie, ma anche di come l’uomo può essere capace di produrre il male. Marone ci parla degli orrori del “secolo breve”, ma anche della capacità di resistere in nome della bellezza della vita fatta soprattutto delle nostre radici.

Vincenzo Vacca