Mirella Armiero: “Un pensiero ribelle. Maria Bakunin la Signora di Napoli” (Solferino), di Bernardina Moriconi

    “La Signora” così semplicemente era nominata, forse per quella soggezione che ispirava, mista ai modi spicci e a un piglio risoluto non poco in contrasto col suo fisico minuto. Ma l’appellativo derivava anche e soprattutto dall’ammirazione che Maria Bakunin, illustre chimica napoletana, ché di lei parliamo, ispirava, grazie a quella conoscenza delle misteriose e complesse concatenazioni capaci di tenere assieme sostanze ed elementi diversi e distanti. E lei, Marussia per i familiari, di distanze se ne intendeva visto che dalla lontana Siberia,  dove era nata nel 1873, era approdata  a Napoli. E qui sarebbe vissuta – fino alla fine dei suoi giorni, nel 1960 – assieme alla madre e ai fratelli, compiendovi quegli studi che l’avrebbero portata a essere la prima donna in Italia a laurearsi in chimica e anche la prima a conseguire una cattedra universitaria. E se Maria visse lontana da quel padre fisicamente e ideologicamente ingombrante e da molti temuto, Michail Bakunin, il grande teorico del pensiero anarchico, la giovane ebbe modo di crescere e maturare la sua formazione di donna e di studiosa  all’ombra di quel monte altrettanto ingombrante e temuto: lo Sterminator Vesevo. 

   

Proprio dall’ eruzione del Vesuvio  del 1906 prende le mosse Mirella Armiero per raccontarci nel suo volume Un pensiero ribelle. Maria Bakunin la Signora di Napoli (Solferino) i momenti salienti della vita familiare e professionale della Bakunin.

   E lo fa, la Armiero, mettendo le sue comprovate doti di giornalista – attenta alla verifica e alla documentazione – a servizio di una accattivante vena narrativa e di una scrittura fluida e agevole  pur nel trattare situazioni complesse ed  eterogenee (storiche, scientifiche, politiche…). Ciò appare evidente fin dalle succitate prime pagine, grazie al racconto dettagliato e ad ampio raggio di quella terribile eruzione. Mentre la Napoli che contava era infatti in fermento per l’attesa prima assoluta al San Carlo della Tess di Frédéric Alfred d’Erlanger, che da un mese soggiornava in città per allestire l’evento, il Vesuvio iniziava a ruggire e ribollire. E quando il 9 aprile lo spettacolo va finalmente in scena dopo un rinvio sempre dovuto alle intemperanze vulcaniche, i luccichìi degli abiti da sera delle dame verranno offuscati dai più sostanziosi e tristi bagliori della Montagna che erutta costringendo gli abitanti di interi paesi a fuggire lontano.

    A osservare la situazione, quasi a monitorarla, tra i tanti, italiani e stranieri, scienziati e  semplici curiosi accorsi, da segnalare anche la presenza di due donne, entrambe poderose nel proprio campo e che seguono la situazione con occhi e interessi diversi. Una è la Signora del giornalismo, Matilde Serao, all’epoca direttrice del <<Giorno>>, interessata ai risvolti sociali e cronachistici dell’evento, l’altra è la Signora della Chimica, che si muove per curiosità preminentemente scientifiche. 

   Ma certo la Bakunin non si interessò mai solo ed esclusivamente di scienze, vivendo in ambienti ideologicamente e culturalmente impegnati; inoltre, anche se il padre Michail, col quale aveva condiviso solo i primissimi anni dell’infanzia, morì distante dalla famiglia quando Maria era ancora molto piccola, lei coltiverà sempre un affetto che si farà quasi venerazione per quell’uomo dal forte appetito e dalle forti passioni, che continuò a considerare suo padre sebbene fosse figlia naturale  (lei e gli altri tre fratelli) dell’avvocato Carlo Gambuzzi, con cui la moglie di Bakunin ebbe una storia lunga e complicata che si concluderà con le nozze celebrate sempre a Napoli tre anni dopo la scomparsa di Michail: il quale a sua volta era a conoscenza del legame fra il Gambuzzi e la sua giovane moglie Antonia, ma  applicò anche alla sua vita privata quei principi di massima libertà che predicava in politica, lasciando alla consorte piena autonomia di decisione e quindi di azione in campo sentimentale. E per comprendere meglio lo spirito e gli ideali che informarono il grande filosofo dell’anarchismo  – l’ “idealista sentimentale”,  lo aveva definito Marx – la Armiero offre un’ampia  e illuminante digressione, trasportando il lettore in altri luoghi e in altri anni: precisamente nella Russia della prima metà dell’800, dove Michail trascorse un’infanzia serena e agiata in una ampia casa circondata da giardini e riscaldata dall’affetto di ben undici tra fratelli e sorelle. Ma presto il suo spirito irrequieto e l’ardore rivoluzionario, spiega la Armiero, lo spingeranno in altri luoghi e all’elaborazione di un pensiero rivoluzionario. E’ l’inizio della storia dell’ideologia  anarchica. Ma non fu certo solo un teorico, Bakunin: lo spirito irrequieto e l’ardore che l’animavano lo videro impegnato in prima linea in diversi moti e rivolte che infiammavano gli anni Quaranta del Diciannovesimo secolo e che gli costarono  prima alcuni anni di carcere duro a San Pietroburgo e poi un esilio in Siberia. Qui conobbe la giovanissima Antonia, appena diciassettenne ma ragazzina di carattere, tanto da decidere di sposarlo, malgrado il parere contrario della famiglia, e di seguirlo nella sua turbolenta e disordinata esistenza, che li condusse anche a Napoli una prima volta nel 1865: i due trascorsero un periodo sereno nella città che da pochi anni aveva perso il titolo di capitale di un regno e che  Michail ebbe modo di amare, anche perché gli appariva come la più anarchica fra le città europee – e forse non si sbagliava, se si pensa che il primo attentato a opera di un anarchico (il terzo gli sarebbe stato fatale), re Umberto lo subì proprio nella città campana nel 1878. Proprio negli anni napoletani, Bakunin cominciò ad approfondire ed elaborare il suo pensiero, distaccandosi progressivamente dal marxismo e valutando il fallimento del Risorgimento italiano che non aveva saputo colmare il divario economico e sociale del Paese. Ed è sempre  qui che Antonia conobbe Carlo Gambuzzi, sodale di Bakunin e  suo compagno di molte battaglie; dalla lunga, discontinua relazione fra Carlo e Antonia nasceranno ben quattro figli che continueranno a mantenere il cognome del rivoluzionario russo anche dopo la morte di Michail e le nozze dei genitori:  Gambuzzi si ritagliò un ruolo di padre presente e affettuoso ma defilato, rispettando e incoraggiando le scelte di vita e di studi dei ragazzi:  Maria si dedicherà alla chimica, mentre la sorella Sofia si iscrisse alla facoltà di Medicina che in Italia solo da poco era diventata accessibile alle donne.

  Ma Marussia  non vanta solo illustri ascendenti: non è da dimenticare che, grazie alle nozze della sorella Sofia col noto medico Giuseppe Caccioppoli, diverrà zia del grande matematico  Renato, al quale il regista Mario Martone nel ’92 ha dedicato il film Morte di un  matematico napoletano, alla cui sceneggiatura  fornì un fondamentale contributo la scrittrice Fabrizia Ramondino:  alla quale – a riprova che non solo nella Fisica tutto si tiene – la stessa Mirella Armiero ha dedicato un recentissimo volume , Bagaglio leggero. Viaggio nei luoghi di Fabrizia Ramondino (Nutrimenti) realizzato assieme a Francesco Paolo Busco.

   

Ovviamente, il grosso del volume è incentrato sulla Signora della chimica, sulle sue scelte professionali e anche sentimentali sempre libere e coraggiose, frutto di quel pensiero ribelle che contraddistingue lei e altri membri della famiglia: “La vita di Maria, all’apparenza cristallina e rettilinea, è stata piena di contraddizioni, probabilmente di dubbi,  – spiega Armiero – che la rendono molto più autentica di quanto non appaia attraverso il mito di scienziata integerrima e severa, pioniera  nel cammino di affermazione delle donne”. La scienziata coltivò molti interessi, oltre a quelli connessi alle sue discipline, anche grazie ai sodalizi che dal campo scientifico si allargavano a quello sentimentale: così accadde col suo professore e mentore Agostino Oglialoro Todaro che divenne suo marito, e poi col chimico Francesco Giordani, di ben ventitré anni più giovane di lei.

    La curiosità d’altronde non le manca e ne fa una studiosa non sedentaria: numerosi sono i viaggi di lavoro che intraprende, come quelli che nel 1913 la portano, su incarico del ministro Nitti, a osservare le metodologie  didattiche degli istituti tecnici industriali e commerciali del Belgio e della Svizzera;  e poi gli Stati Uniti, in lungo e in largo, assieme a quel Francesco Giordani, che forse ha il potere di rallegrarla col suo entusiasmo e quella fiducia nelle magnifiche sorti e progressive del mondo e dell’Italia. Una fiducia che lo avrebbe portato negli anni ad aderire al regime fascista e ad assumervi incarichi di prestigio, pur serbando la convinzione che gli studi scientifici si sarebbero mantenuti scevri da condizionamenti politici e che anzi proprio il fascismo li avrebbe favoriti e sostenuti in nome di quei principi autarchici che Mussolini voleva vedere applicati anche in ambito chimico e tecnologico. Invece la Signora e ormai sua compagna di vita Maria, non prende posizione  ma certo quel cognome e il suo rifiuto del distintivo e del saluto fascista prima delle lezioni universitarie non la pongono in una situazione ideale: situazione che si complicherà ulteriormente con l’ostentata ostilità al regime e certe azioni provocatorie manifestate dall’amato nipote, il geniale, ironico e dichiaratamente antifascista, Renato Caccioppoli.

   Il libro della Armiero, dalle vicende personali e familiari della Bakunin, si allarga al racconto,  accurato e documentato – e l’ampia bibliografia finale ce lo conferma –  della città e di più di una generazione di  intellettuali, filosofi , scienziati che animavano  Napoli, facendola  centro di dibattiti di fondamentale importanza e di progresso: si pensi alle riunioni all’Accademia Pontaniana, di cui Maria fu inizialmente socia e per poi divenirne presidente, dopo la guerra:  rimanendo prima e unica donna posta alla guida della prestigiosa istituzione. O si pensi, anni prima, alla frequentazioni di quel Circolo Filologico di via San Sebastiano, fondato da  Francesco De Sanctis e poi diretto dall’ancora giovane ma già autorevole Benedetto Croce, dove uomini ma soprattutto numerose donne, con grande meraviglia finanche della Serao che pure lo frequentava, accorrevano ad ascoltare dibattiti accesi e anche audacemente progressisti.

   E in effetti, uno degli aspetti che rendono prezioso questo libro è proprio questa narrazione di una Napoli fuori dagli stereotipi e dai cliché, per nulla provinciale, capace semmai di coniugare tradizioni e riti ancorati al passato con fermenti e idee  che spesso, ma non solo, vengono da fuori, portati da personaggi di gran calibro che a Napoli hanno soggiornato e lavorato. Si pensi ad Anton Dohrn che nel 1873 all’interno della Villa comunale fonda la Stazione zoologica, poi con annesso acquario, destinata a diventare un centro di studi internazionale e all’avanguardia. Ma soprattutto Armiero ci illumina, in molte pagine del volume, circa una attiva, intraprendete, progressista presenza femminile operante nella città partenopea: è il caso della scrittrice svedese Anne Charlotte Leffler, moglie del celebre matematico Pasquale Del Pezzo, con cui  aveva aperto un salotto intellettuale nell’abitazione di via Tasso e alla quale va il merito (oltre che di aver scandalizzato col suo divorzio in terra scandinava i benpensanti del tempo) di aver contribuito a far conoscere il teatro di Ibsen, che proprio in luoghi ameni del nostro territorio, Sorrento e Amalfi, aveva composto due dei capolavori della sua drammaturgia, Gli spettri e Casa di bambola. E ancora Mirella Armiero ci parla di Emily Reeve, figura quasi ignorata, eppure questa intraprendente garibaldina venne qui su incarico della pedagogista Julie Schwabe  per aprirvi una scuola destinata ai bambini poveri, e qui trovò la morte durante l’epidemia di colera del 1865 accudita amorevolmente fino agli ultimi istanti  da Antonia, la moglie di Bakunin che in quegli anni a Napoli soggiornava assieme allo stesso Michail. Ma Antonia era solo una delle tante donne russe presenti in città a cavallo dei due secoli (alcune di loro vi giungeranno in fuga dalla madrepatria dopo la Rivoluzione d’ottobre), che ben si inserivano  in un contesto cittadino saldo e operoso di personalità colte e internazionali.

   È su tale fondale policromo che cresce, si forma e lavora Marussia. E se è vero , come scrive l’autrice, che col trascorrere dei decenni la sua figura è rimpicciolita e sbiadita anche per i nuovi traguardi che si sono raggiunti nell’ambito delle scienze, del progresso sociale e dell’emancipazione femminile, tanto più prezioso appare questo libro proprio perché a tracciare un sentiero verso tali traguardi ha contribuito non poco – con l’impegno coraggioso, con l’intraprendenza professionale e sentimentale, in una parola, col suo pensiero ribelle –  Maria Bakunin, la piccola grande Signora della Chimica.

Bernardina Moriconi

Bernardina Moriconi: Filologa moderna, Dottore di ricerca in Storia della Letteratura e Linguistica Italiana,  giornalista pubblicista e docente di materie letterarie, ha insegnato fino al 2018 Letteratura italiana e Storia a tecniche del giornalismo presso l’Università “Suor Orsola Benincasa”. Ha pubblicato libri sulla letteratura teatrale e svolge attività di critico letterario presso quotidiani e riviste specializzate. E’ direttore artistico della manifestazione “Una Giornata leggend…aria. Libri e lettori per le strade di Napoli”.

“Gaza” di Gad Lerner (Feltrinelli) e “Palestina Israele” di Mario Capanna e Luciano Neri (Mimesis): due libri in una recensione, di Amedeo Borzillo

Recensire due libri insieme non è usuale ma questi due “saggi” sulla questione israelo-palestinese e sulla guerra in atto in Palestina forse lo richiedono.

Un leader sessantottino (Mario Capanna)  mai pentito ed un giornalista (Gad Lerner) “sionista critico” ancora innamorato del suo Paese scrivono – mentre imperversa una guerra che ha assunto aspetti di rara brutalità, (36.000 morti e 90.000 feriti, paesi rasi al suolo, due milioni di palestinesi in fuga) – due diversi libri per arrivare ad una identica conclusione, condivisa da milioni di persone ma che ancora oggi viene ignorata dal Governo Israeliano e dai principali Governi del mondo occidentale. 

Fughiamo subito ogni dubbio sulla possibilità che siano “instant book” in quanto gli autori Capanna e Lerner sin dagli anni ’70 seguono le vicende della Palestina e di Israele in prima persona. 

I due autori sono stati entrambi partecipi, con ruoli di primo piano, del grande movimento giovanile che fu il ’68  (e gli anni successivi): Capanna da leader e Lerner da giornalista furono tra i primi a recarsi rispettivamente in Palestina ed Israele per portare solidarietà o semplicemente per capire e riferire a noi tutti cause e prospettive dello scontro in atto tra i due popoli.

Il libro di Capanna “Palestina e Israele” ha l’innegabile merito di storicizzare con date, eventi, Dichiarazioni e Risoluzioni ONU, Trattati di Pace stipulati e poi saltati, tutte le tappe che dal dopoguerra ad oggi hanno portato al 7 Ottobre ed alle terribili conseguenze, illustrandoci soprattutto le responsabilità israeliane e come le fazioni in campo palestinese giocassero ruoli e si ponessero obiettivi diversi. 

Il libro di Lerner “Gaza, Odio e amore per Israele” riesce, sia in chiave storico-politica sia in quella socio – antropologica, e  con gli occhi di un ebreo, a spiegarci come si sia arrivati ad un Governo in Israele che massacra un popolo, costruisce muri e semina rancori perenni,  indifferente al discredito ed isolamento internazionale cui le atrocità commesse lo stanno condannando.

Due analisi che viaggiano in parallelo e che in grandissima parte si integrano in una comune visione sia delle cause che delle possibili soluzioni.

I due autori infatti  alla condivisa condanna della Organizzazione politica Hamas e della strage del 7  Ottobre, aggiungono le stesse considerazioni, analizzandone genesi e cause che hanno decretato lo sviluppo e la popolarità fino all’egemonia di questo movimento a Gaza, e individuando dall’altro canto le precise responsabilità anche dirette nei Governi che si sono succeduti in Israele dalla fine degli anni ’80 in funzione anti Fatah.

“La lugubre popolarità di cui gode Hamas dacchè il suo popolo è divenuto oggetto di una vera e propria carneficina non mi ha fatto cambiare idea e resto convinto che Hamas sia una serpe in seno, nata e cresciuta tra i palestinesi , capace di esaltarli mentre li conduce alla rovina” (Gad Lerner).

Sia Lerner che Capanna hanno avuto precisi riferimenti: Alexander Langer il  primo e Yasser Arafat il secondo: un pacifista e ambientalista italiano e l’uomo dell’accordo di Oslo nel 1993. Entrambi perseguirono tenacemente l’obiettivo della Pace in Palestina senza riuscire a vederlo realizzato.

Sia Lerner che Capanna, nello scrivere i due libri,  hanno ripreso in mano i loro vecchi scritti riportandone considerazioni ancora attuali e ricordandoci che da quasi cinquant’anni è stato tutto un susseguirsi di errori e di assenze del mondo occidentale nel prendere decisioni e nel pretenderne il rispetto. Entrambi ritengono che lo svilimento del ruolo dell’ONU di cui Israele ha ignorato le Risoluzioni ha privato il mondo intero dell’autorevolezza di una figura internazionale, cui aderiscono 193 Paesi, e che resta  l’unica voce  riconosciuta a dirimere controversie tra Stati.

“il fatto spaventevole è che oggi non c’è parvenza di legalità internazionale e a dominare è la prepotenza del più forte. E’ questo il motivo per cui la guerra prospera e il mondo sta bruciando tra tensioni crescenti.” (Mario Capanna).

In occasione della presentazione organizzata da “il Randagio” del libro di Mario Capanna e di quella alla libreria Feltrinelli del libro di Gad Lerner,  che si sono susseguite nel giro di pochi giorni a Napoli, Il Randagio ha posto agli autori le stesse due domande: cosa fare nell’immediato e quale può essere la soluzione di questo secolare conflitto.

Ebbene, partendo da presupposti diversi, da storie diverse, entrambi ci hanno risposto allo stesso modo: CESSARE IL FUOCO subito e in prospettiva creare le basi per la costituzione di un vero Stato Palestinese che conviva pacificamente con quello di Israele. 

Per dirla con Bertold Brecht, “è la semplicità che è difficile a farsi”.  Ma è l’unica strada da percorrere.

Amedeo Borzillo

Paolo Di Paolo: Romanzo senza umani (Feltrinelli), di Bernardina Moriconi

Chi conosce un po’ la sua scrittura, lo sa: a Paolo Di Paolo piace  rimestare tra memorie, individuali e collettive, e ricordi  (le fotografie, per esempio: credo si potrebbe scrivere una tesi di laurea sulla funzione delle foto nella narrativa del Di Paolo). Insomma, gli piace rovistare nel passato, quello prossimo dei familiari: i nonni, i genitori – magari prima  che diventassero tali e la funzione genitoriale annullasse, per noi figli, quel tratto di adolescenti inquieti che assimila la loro alla nostra  giovinezza -, e poi noi: come eravamo, come apparivamo agli altri, quale condivisione di ricordi potrebbe aiutare a restituirci o a fornirci un’immagine più onesta se non sorprendente di noi stessi.

Poi c’è il passato remoto, quello, in questo caso, di secoli fa, raggelato dalla distanza temporale e da un lungo inverno che lo aveva avvolto e letargizzato. Ma, alla base di questo scandaglio del passato c’è sempre il desiderio, forse addirittura la necessità di cogliere il senso del fluire dell’esistenza, il tentativo di dare  una forma, una stabilità che sia sinonimo di certezza a cose e persone sempre mutevoli e inafferrabili. Forse per questo  Mauro Barbi, protagonista di Romanzo senza umani  (Feltrinelli), in qualità di storico, ha scelto di occuparsi di un lago ghiacciato e non di un fiume, di qualcosa, cioè, che pur nella mutevolezza climatica rimane fisso, immobile: un tempo gelato e mortifero, oggi navigabile e  vociante di turisti. Una massa di acqua che non scorre, non finisce il suo viaggio lento o vorticoso inghiottito dal mare. Il lago sta lì da secoli e ci sopravvive. È una certezza nella precarietà dell’esistente.

C’è, mi pare ma potrei sbagliarmi, una tendenza dell’autore all’autobiografismo, col quel suo indugiare su esperienze di vita e professionali, ma soprattutto nel tornare costantemente, con una sorta di nostos mentale, a esperienze di viaggi e di amori giovanili con uno struggimento per gli anni adolescenziali e universitari.

Quel titolo, Romanzo senza umani, non tragga in inganno: gli umani ci sono, anzi, tutto il romanzo è la volontà di capire o di riallacciare rapporti interrotti, anche magari rispondendo con anni di ritardo a mail inevase e ignorate. Gli umani di questo romanzo sono anch’essi il prodotto di un congelamento, proprio come il lago tedesco oggetto degli studi dello storico,  solo che a ibernarli in uno stato di fissità non è stato un inverno climatico di proporzioni eccezionali, ma lo stesso Barbi, con una inadeguatezza a rapportarsi di cui finalmente prende coscienza nella fase relativamente tardiva di un disgelo al tempo stesso razionale e affettivo. 

Un libro in cui il Di Paolo narratore è ravvisabile subito nell’eleganza e fluidità dello stile, nella ricchezza e accuratezza lessicale, doti che ormai non sono più appannaggio imprescindibile e ovvio degli scrittori.

Romanzo senza umani è stato presentato da Gianni Amelio nell’ambito dei titoli proposti dagli Amici della domenica al Premio Strega 2024.

Bernardina Moriconi

Bernardina Moriconi: Filologa moderna, Dottore di ricerca in Storia della Letteratura e Linguistica Italiana,  giornalista pubblicista e docente di materie letterarie, ha insegnato fino al 2018 Letteratura italiana e Storia a tecniche del giornalismo presso l’Università “Suor Orsola Benincasa”. Ha pubblicato libri sulla letteratura teatrale e svolge attività di critico letterario presso quotidiani e riviste specializzate. E’ direttore artistico della manifestazione “Una Giornata leggend…aria. Libri e lettori per le strade di Napoli”.

Adania Shibli: Un dettaglio minore (trad. Monica Ruocco, La nave di Teseo), di Gigi Agnano

La scrittrice e saggista palestinese Adania Shibli, che vive tra Berlino e Gerusalemme, avrebbe dovuto ricevere il 20 ottobre scorso, nell’ambito della Fiera del Libro di Francoforte, il LiBeraturpreis 2023, un premio annuale assegnato a scrittrici provenienti da Africa, Asia, America Latina e mondo arabo, con la seguente motivazione: “un’opera d’arte rigorosamente composta che racconta il potere dei confini e ciò che i conflitti violenti causano alle e con le persone“.

Il giorno stesso della premiazione, però, l’associazione LitProm che consegna il premio ha annunciato che avrebbe rinviato la cerimonia “a causa della guerra iniziata da Hamas, di cui soffrono milioni di persone in Israele e Palestina“.

Una lettera aperta – firmata da più di 350 autori, tra cui i premi Nobel per la letteratura Annie Ernaux, Abdulrazak Gurnah e Olga Tokarczuk, i vincitori del Booker Prize Anne Enright, Richard Flanagan e Ian McEwan; il romanziere irlandese Colm Tóibín, il libico Hisham Matar (vincitore del Pulitzer 2017), e la scrittrice britannico-pakistana Kamila Shamsie – ammonisce gli organizzatori della fiera, affermando che “è loro responsabilità creare spazi aperti in cui gli scrittori palestinesi possano condividere pensieri, sentimenti e riflessioni sulla letteratura attraverso questi tempi terribili e crudeli“. 

Questo episodio ha sollevato importanti questioni sul ruolo della letteratura in tempi di conflitto e sulla necessità di mantenere aperti gli spazi culturali come luoghi di dialogo e comprensione reciproca.

Il romanzo in questione è Un dettaglio minore, pubblicato in Italia nel 2021 da La nave di Teseo per la traduzione di Monica Ruocco. Si compone di due storie correlate: la prima – realmente accaduta – è quella dello stupro e dell’omicidio di una ragazza beduina nel 1949 per mano di un’unità dell’esercito israeliano, raccontata da un ufficiale responsabile dell’azione; l’altra, conseguenza della prima, è quella – immaginaria – di una giornalista palestinese di Ramallah che, diversi decenni dopo, per indagare sul crimine, intraprende un viaggio verso il sud del Paese, sfidando i limiti consentiti dalla legge israeliana per la sua carta d’identità. 

Il primo racconto inizia con un plotone israeliano che si accampa nel Negev, al confine desertico con l’Egitto. Siamo tra il 9 e il 13 agosto 1949, un anno dopo la Nakba (700 mila palestinesi espulsi dalle loro case e allontanati dalle proprie terre), e quei soldati hanno il compito di rastrellare la zona e di ripulirla dagli arabi rimasti. Le giornate trascorrono lente e monotone – “Tutto era immobile, tranne i miraggi” -, ma durante un pattugliamento di routine, alcuni militari si imbattono in un gruppo di nomadi che viene immediatamente sterminato. L’unica sopravvissuta è una giovane donna che, presa prigioniera, è portata al campo. Sarà l’ufficiale stesso a violentarla e a ordinarne l’uccisione. Ed è lui a raccontare ai lettori sconcertati gli stupri e le violenze con un linguaggio freddo, giornalistico, concreto, che non denota alcun tipo di emozione. La scelta stilistica è particolarmente significativa: il distacco emotivo del primo narratore amplifica l’orrore degli eventi narrati. La sua prosa burocratica riflette una disumanizzazione che va oltre il singolo episodio, diventando metafora di una violenza generalizzata e “necessaria”.

Il romanzo poi si sposta nello spazio e nel tempo. A Ramallah, una donna palestinese, ossessionata da un articolo di giornale che rievoca quell’omicidio avvenuto anni prima, vuole avviare un’indagine per ricostruire gli avvenimenti assumendo il punto di vista della vittima. Da qui il viaggio verso sud, attraverso villaggi devastati, in direzione di un sito nei dintorni di Rafah. Anche in questa seconda parte la narratrice (come l’ufficiale della prima) resta impassibile di fronte al fallimento della sua ricerca. Emerge però il desiderio e, quindi, l’ostinazione di voler correggere i torti storici attraverso la scrittura. E affiora sempre più incalzante il desiderio di restituire libertà rappresentando la brutalità della vita quotidiana in un Paese occupato. La paralisi della narratrice di fronte all’impossibilità di ricostruire la verità storica diventa essa stessa una potente metafora della condizione palestinese contemporanea: la ricerca di giustizia si scontra continuamente con barriere fisiche e metaforiche, negazioni e cancellazioni.

La strada che, fino a qualche anno fa, mi era familiare era più stretta e con più curve, mentre questa è abbastanza larga e diritta. Su entrambi i lati sono state erette pareti alte cinque metri, oltre le quali ci sono molti edifici nuovi, raggruppati in insediamenti che prima non esistevano oppure non erano facilmente visibili, mentre la maggior parte dei villaggi palestinesi che si trovavano qui è scomparsa. Alzo lo sguardo, spalancando bene gli occhi alla ricerca di una traccia di quei villaggi con le loro case, che ricordo disseminati qua e là come rocce sulle basse colline, collegati tra loro da strade strette e tortuose che si diramavano in molteplici deviazioni, ma è inutile. Non riesco a scorgere nulla. Più guido, meno riesco a capire dove sono! Finché, a sinistra, mi accorgo di un’altra strada secondaria che è stata chiusa. A questo punto mi rendo conto che in passato avevo davvero percorso quella strada decine di volte, e quella che ora è interrotta da un cumulo di terra e da massicci blocchi di cemento era la strada che portava al villaggio di al-Jib.

La prosa di Un dettaglio minore descrive minuziosamente ogni movimento compiuto da entrambi i protagonisti: nella prima parte l’ufficiale si lava, si cambia i vestiti, cerca insetti, si scalda col corpo della giovane beduina; nella seconda parte la donna scende dall’auto, apre il cancello, torna in macchina. Ma, mentre l’ufficiale si muove sicuro, senza particolari ansie, i movimenti della donna sono costantemente dettati dalla paura. Questa attenzione ossessiva al dettaglio fisico ha un duplice scopo narrativo: da un lato accentua il realismo del racconto, dall’altro evidenzia il contrasto tra la libertà dell’oppressore e la precarietà dell’oppresso. La Shibli mostra come il calvario di un popolo possa essere fatto di innumerevoli insostenibili “dettagli minori”. Il titolo del romanzo sottende una penosa ironia: ciò che viene presentato come “dettaglio minore” è in realtà il cuore della tragedia, per cui ogni singolo atto di violenza, apparentemente isolato, si rivela parte di un più ampio, sistematico “memoricidio”. E’ infatti proprio in quello spazio apparentemente marginale della Storia con la “S” maiuscola che la Letteratura trova la sua ragion d’essere più profonda. Mentre gli archivi custodiscono i “grandi eventi”, i documenti ufficiali, le date e i nomi della narrazione dominante, la Letteratura si insinua negli interstizi, recuperando ciò che la Storia ha ritenuto di tralasciare. La violenza sulla giovane beduina – un episodio assente negli archivi militari, che non è stato registrato nelle cronache del tempo – diventa attraverso la scrittura della Shibli non solo un atto di resistenza alla rimozione, ma anche una potente metafora della capacità della Letteratura di lasciare una traccia di ciò che è stato silenziato.

Gigi Agnano