Andrea Bajani: “L’anniversario” (Feltrinelli), di Valeria Jacobacci

 La  famiglia è una prigione? Un carcere di massima sicurezza? E’ così che la immaginiamo nel racconto di Andrea Bajani, che affida alla lama affilata del “romanzo” la salvezza che è liberazione ma anche strappo e vergogna, paura e senso di colpa. Da questo cocktail velenoso è difficile salvarsi, anche se si frappongono migliaia di chilometri e si cancellano accuratamente le tracce che conducono all’autonomia finalmente raggiunta. Il fuggitivo però resta un transfuga, un traditore e un disertore della guerra sempre in agguato fra un armistizio e l’altro. Il nido senza il quale nessun essere vivente può sopravvivere è anche trappola e tagliola. L’anniversario da festeggiare è il giorno in cui si imboccano le scale di casa e non si fa più ritorno.

Vengono in mente le parole di una canzone del primo Novecento, dove la giornata dell’addio è una magnifica giornata: “Oggi che bellissima giornata, che giornata di felicità, la mia bella donna mi ha lasciato…” il disco un po’ gracchiante attesta un indiscutibile sollievo. Succede quando un rapporto malato ha finalmente fine e il legame miracolosamente si scioglie. Nel caso della famiglia la situazione è diversa, il groviglio è inestricabile, più di un nodo di Gordio, e come tale ha bisogno di una spada e di un eroe per essere tagliato, più che di un semplice paio di forbici.

Perché? Perché si tratta davvero di un gesto eroico, del quale non tutti sono capaci, e anche quelli che ci riescono hanno bisogno di molto tempo per arrivarci. Lasciare la famiglia è facile quando il rapporto con essa è sano, allora non si tratta di abbandono, è un semplice e naturale allontanamento, senza traumi, solo la schiavitù rende complicata e pericolosa l’evasione.

Bajani parla di un rapporto familiare malato, sicuramente non raro, alla base del quale c’è la completa sottomissione della madre al padre. L’anomalia della situazione grava sui figli, un maschio, il protagonista, e una femmina, sua sorella. I due reagiscono in forma diversa agli scoppi d’ira del tiranno, consistenti in volo di oggetti, mobili rotti e botte sul corpo della madre, raramente su quello del figlio. Lui, il figlio, non ha la forza per ribellarsi, inizialmente perché è solo un bambino, poi perché, per l’appunto, non è un eroe, durante la crescita i numerosi episodi gli hanno provocato una nevrosi, con disturbi psicofisici che vanno dalle crisi di panico ai crampi violenti nel profondo delle viscere. La sorella si chiude, non trova complicità in lui, che suscita così il suo disprezzo, aspetta tranquilla di crescere per sposarsi e mettersi in salvo, se davvero si metterà in salvo.

L’incomunicabilità è il danno maggiore rappresentato dalla via di fuga scelta dalla madre, che è quella di rifugiarsi in un altro pianeta, dove non le arriva il dolore dell’umiliazione e non la spaventa la violenza, semplicemente lei non c’è, anzi, non “è”.   E’ questa la psicanalisi operata dal figlio, che osserva la madre con stupore crescente. Ad ogni crisi di violenza domestica segue un periodo neutro, durante il quale nessuno dice o fa niente, in attesa che tutto torni normale, di solito è il figlio a rompere il ghiaccio, raccontando un episodio qualunque o azzardando una battuta di spirito, allora il tiranno si degna di rispondere e la famiglia può tornare a respirare. La madre si prodiga in attenzioni e riguardi, come se dovesse farsi perdonare una colpa e non fosse invece il contrario.

I nonni hanno uno spazio in questa famiglia. Quelli materni restano ancorati a uno sterile perbenismo che impedisce loro di correre in difesa della propria figlia, assistono inermi e abulici alla sua rovina. Gli altri nonni non sono sposati, anzi, la nonna ha avuto figli da uomini diversi, il figlio bullo soffre di complessi d’inferiorità perché i fratelli di primo letto appartengono a una classe sociale più ricca. Ecco svelato il mistero: il senso d’impotenza e il rancore si scaricano sulla donna inerme che ha accettato di essere sua moglie.

Con simili genitori e nonni che può fare il nostro protagonista? Solo fuggire. Ed è quello che farà superando il più forte sentimento di colpa che è quello di lasciare la madre nelle mani del suo aguzzino. Ma la vittima non rischia niente perché è già morta molti anni prima. E nemmeno se n’è accorta. Che succede in terza generazione? Quello che succede a molti giovani laureati senza beni di fortuna e famiglie forti alle spalle: il figlio cerca e trova lavoro un po’ ovunque all’estero. Dopo il distacco per frequentare l’università questo è per lui un ottimo pretesto per mettere quanti più chilometri possibili fra sé e i suoi disgraziati parenti. Tuttavia le radici si tagliano dopo molto tempo e solo quando la maturazione psicologica e sentimentale è raggiunta, dopo una lunga psicoanalisi, una profonda sofferenza e un faticoso riguadagnare la riva dopo il più rovinoso dei naufragi.

Ma la vera protagonista resta la donna: perché non ha mai reagito?  Eppure lei non ha paura, profondamente anestetizzata, non è in grado di salvare né se stessa né i propri figli. Oppure pensa di farlo proprio in questo modo? E il padre? Può avere una qualche scusante? La sua è un’assurda richiesta d’amore. E’ così che il figlio decodifica il comportamento del debole, del fallito, dell’incapace. Forse non sa che le colpe vengono da più parti, per questo la sua risulta una denuncia: della società e dei suoi vizi, dei falsi valori e degli atavici pregiudizi.
 

Valeria Jacobacci

Valeria Jacobacci, scrittrice e pubblicista, è appassionata conoscitrice di storia partenopea e di biografie, spesso femminili, di donne che hanno caratterizzato i loro tempi. Si è interessata alla Rivoluzione Napoletana, al passaggio dal Regno borbonico all’Unità, al secolo “breve”, racchiuso fra due guerre. Ha pubblicato numerosi articoli, saggi e romanzi.