Intervista a Gian Arturo Ferrari autore di “La storia se ne frega dell’onore” (Marsilio Lucciole), di Cristina Marra e Gigi Agnano

Per oltre mezzo secolo Gian Arturo Ferrari, classe 1944, si è occupato di editoria, lavorando in ruoli apicali nelle più importanti case editrici italiane, da Boringhieri a Rizzoli a Mondadori. Dalla conclusione della sua lunga carriera di editore ha scritto tre libri, due romanzi e un saggio.

L’ultimo suo lavoro è un giallo, dal titolo “La storia se ne frega dell’onore”, edito da Marsilio nella collana Lucciole. E’ una storia dedicata all’editoria degli anni del fascismo, in cui un direttore editoriale si trova tra le mani un manoscritto scottante che ne segnerà il destino.

Gian Arturo Ferrari, benvenuto e grazie di essere su Il Randagio. Docente universitario, direttore dei Libri Mondadori, editorialista e scrittore, possiamo considerarla un randagio doc?

Nonostante la mia ragguardevole età, io sono nella scrittura un neofita, ho cominciato
molto tardi e mi sono aggirato tra vari generi: il romanzo memoir, il saggio, l’esposizione
para accademica e adesso il giallo. Quindi sì in questo senso sono un randagio.

Come mai per questo libro ha scelto il genere giallo e l’ambientazione in un periodo
storico così complesso per l’editoria come il Ventennio fascista?

Perché il genere giallo è una struttura narrativa semplice e agli occhi del pubblico
garantita. Nel senso che il giallo ha sempre una soluzione. Quanto al 1936, anno in cui è
ambientato il mio libro, a me è sempre piaciuto perché è l’anno sull’orlo del precipizio. Il
fascismo nel 1936 ha raggiunto il suo culmine, con la vittoria in Etiopia e la prossima
vittoria in Spagna, ma è alla vigilia del redde rationem e della disfatta.

Quanto si è divertito e quanto sotto certi aspetti è stato difficile uccidere nella finzione un direttore editoriale?

Il mio direttore editoriale Luigi Bassetti è una figura senza ombre, a differenza di tutti gli
altri. Forse anche un po’ troppo. Non è stato particolarmente difficile fargli fare la fine che
fa ma bisogna dire che, nella realtà del romanzo, è una figura di supporto alla vera
protagonista Donatella Modiano che proprio per essere la protagonista è molto più
articolata. Io sono stato un direttore editoriale molto più complicato del Bassetti.

Nella Storia i libri hanno sempre avuto un ruolo importante e a volte determinante.
Hanno fatto paura, sono stati necessari e ne hanno anche cambiato le sorti. In “La
storia se ne frega dell’onore” sono i libri a giocare il triplo ruolo di vittima, carnefice
e detective?

Il libro deLa storia se ne frega dell’onore non è propriamente parlando un libro. E’ un
manoscritto o per essere più precisi un dattiloscritto. Ed è proprio intorno al fatto che
debba o non debba, possa o non possa diventare un libro che si gioca tutta la trama.

Tradimento e onore, senso di colpa e sospetti, una doppia indagine, l’uomo di Roma
e Donatella. Il doppio ricorre in tutto il romanzo. Ognuno dei suoi personaggi ha un segreto, un doppio volto? 

La figura doppia per eccellenza è la protagonista, Donatella Modiano. E insieme con lei quello che solo alla fine si scopre essere una sorta di coprotagonista e cioè l’assistente del commissario che indaga. E’ vero che nel corso del romanzo i ruoli cambiano: vittima e carnefice sono ruoli, funzioni e non personaggi fissi.

Che ruolo giocano i sentimenti?

Un ruolo centrale, come è nella vita reale. Lo sviluppo dell’azione è tutto determinato da
moventi sentimentali.

Parliamo di Strega? Anche quest’anno la polemica sui giurati che non leggono i libri
in concorso. Ammesso che è umanamente impossibile leggerli tutti, può un addetto
ai lavori giudicare correttamente un libro dopo averne letto poche pagine, o,
diciamo così, “a naso”? Secondo me sì. Lei cosa ne pensa?

Per quanto mi riguarda io sono stato abituato per anni e anni a valutare i libri leggendone
una ventina di pagine. E mantengo questa abitudine e questo metodo anche ora che non
devo più decidere se pubblicarli o meno. E’ una questione di esperienza. Più se ne ha più
rapidamente si decide. Nella selezione per il Premio Strega non ho mai avuto difficoltà a
formarmi una chiara opinione su tutti i libri in concorso.

Un autore che vorrebbe si leggesse di più e uno irrinunciabile da suggerire ai lettori
del Randagio?

L’irrinunciabile è Vita e Destino di Vasilij Grossman uno dei libri più importanti dei nostri tempi. Quelli che vorrei fossero letti molto di più sono più o meno tutti dai classici greci fino ai gialli migliori.

Letteratura colta e business. Qualcuno dice che il mercato abbia preso il sopravvento sulla qualità. Vige ancora la regola per cui se un libro è buono avrà successo? Non pensa che in Italia ci sia troppa letteratura d’intrattenimento e che troppi autori scrivano già pensando al film o alla serie tv?

L’editoria ha sempre avuto a che fare con il mercato cioè con gli acquirenti che sono poi i lettori. Senza acquirenti non c’è editoria, dato che i libri non sono né scritti né letti da puri spiriti ma da uomini in carne ed ossa. La lagna sul fatto che ahimè sta prevalendo il mercato è completamente senza senso. Non è mai esistita una regola secondo la quale i libri buoni hanno comunque successo. Almeno nel senso più comune di successo, cioè nel breve periodo, sono
centinaia i libri misconosciuti alla loro uscita. Il successo vero e proprio è la durata nel
tempo, un processo lungo che si può apprezzare con il metro dei decenni se non dei
secoli.

Anni fa ebbe a scrivere parole molto dure sul declino dell’editoria italiana. Intravede un’inversione di tendenza o la situazione è addirittura peggiorata?

L’editoria italiana è un’industria come tutte le altre. Più piccola certamente ma simile a tutte le altre. Da questo punto di vista non ci sono oscillazioni violente perché coloro i quali leggono in Italia si approvvigionano sempre del loro cibo preferito. Dal punto di vista invece della peculiarità del suo prodotto, il libro, vi sono delle consistenti variazioni. I libri che prevalgono oggi sono libri esperienziali e giovanilisti. Il livello reale di qualità lo stabilirà la storia. 

Tra i tanti incontri della sua vita c’è stato quello con Philip Roth. Come giudica il colpo dí Adelphi di averne acquisito i diritti?

Adelphi ha fatto benissimo. Philip Roth è stato un grandissimo scrittore. Coraggioso,
testardo, veramente spregiudicato. E’ stato il primo a parlare e scrivere di molte cose di cui
non si era mai parlato né scritto. I suoi due grandi temi, il sesso e la morte non erano mai
stati affrontati così spietatamente. Ecco, Roth è un autore che sicuramente supererà la
prova del tempo.

Cristina Marra e Gigi Agnano

Intervista a Doreen Cunningham per “Il canto del mare – I miei viaggi in compagnia delle balene” (Einaudi, trad. Duccio Sacchi), di Cristina Marra

 “siete creature uniche, straordinarie,

sentinelle del mare, ingegneri dell’ecosistema,

araldi del cambiamento climatico che si ripercuoterà su tutti noi”.

Il canto del mare è il primo libro di Doreen Cunningham, giornalista e reporter gallese. Finalista all’Eccles Centre & Hay Festival Writers’s Award e vincitore del Giles St Aubyn Award della Royal Society of Literature, il libro è un nature writing ma anche un memoir, un diario di viaggio compiuto insieme al figlio Max, di soli due anni, lungo la rotta della migrazione delle balene grigie dal Messico all’Artico.   

Ciao Doreen e complimenti per “Il canto del mare”. Quando hai deciso di scrivere del tuo rapporto con le balene?

Non avevo intenzione di scrivere un libro, ma ho deciso di farlo dopo aver realizzato che la storia della mia vita aveva connessioni con la storia del clima: la scienza, la politica, la negazione del riscaldamento globale finanziata dall’industria dei combustibili fossili, quello che sta accadendo nell’Artico e l’importanza della giustizia climatica e come la violenza coloniale sia il cuore oscuro della crisi climatica.

Il mio rapporto con le balene è iniziato quando ero bambina  e il viaggio che io e mio figlio abbiamo fatto dal Messico all’Artico è stata la spina dorsale perfetta per il libro.

Volevo fare qualcosa, qualsiasi cosa. Una volta che ho realizzato che scrivere tutto avrebbe potuto aiutare le persone a comprendere cosa è successo, come ci hanno mentito e quali sono le risposte, ho capito che dovevo farlo.

Il libro può essere considerato “educativo”?

Spero che tutti possano trovare qualcosa per sé nel libro, ma odio davvero ricevere lezioni e inoltre non mi piace leggere libri con troppi dati. Volevo scrivere un libro per condividere le mie esperienze, attraverso il quale le persone potessero incontrare le balene e sperimentare com’è vivere con una famiglia indigena nell’Artico. Non volevo convincere i lettori a pensarla in un determinato modo, ma li ho semplicemente invitati a venire in viaggio con me, ho mostrato loro quello che io ho visto e gli ho permesso di incontrare le persone che io ho incontrato e di ascoltare quello che mi hanno detto.

Ho iniziato come scienziata/ingegnere e adoro il modo in cui il mondo naturale può essere descritto dalla matematica. Sono una nerd delle balene e anche una nerd della fluidodinamica computazionale (CFD). Quindi condivido la gioia che provo nello studio di queste materie, ma il mio scopo non è insegnarle!

Condivido anche la gioia che ho provato nell’essere mamma, così come l’enorme difficoltà che ho riscontrato nel modo in cui il mondo tratta le madri. Condivido l’amore e il dolore che ho sperimentato nella mia vita, nelle relazioni e nel constatare le sofferenze del pianeta a causa del cambiamento climatico.

Voglio soprattutto che le persone quando leggono il libro si sentano accompagnate. Quindi sì, le persone possono leggere ciò che ho avuto la fortuna di sperimentare e imparare, ma ciò che voglio davvero che i lettori portino con sé è l’amore che mi è stato dato e il senso della comunità di cui ho fatto parte, perché mi hanno dato forza e noi abbiamo bisogno di comunità e di forza per affrontare le sfide future.

Quanto sono simili le madri balene e le madri umane?

Siamo tutti mammiferi, partoriamo e allattiamo i piccoli allo stesso modo e condividiamo gli stessi istinti di sopravvivenza. In realtà eravamo lo stesso animale ad un certo punto della storia e, se la guardi in questo modo, puoi vedere che siamo sorelle. 

Abbiamo moltissimo da imparare dalle balene, la loro comunità è fantastica e hanno delle leader donne incredibilmente forti.

Quando ho una giornata dura penso spesso alle balene, che si muovono respiro dopo respiro attraverso l’oceano. E una specifica balena che è stata avvistata al largo delle coste dello Stato di Washington è stata per me come una fonte di ispirazione. È una femmina grigia, chiamata Earhart dai ricercatori. Earhart è la “pilota” di un gruppo che ha scoperto una nuova fonte di cibo, che però mette a rischio la vita delle balene stesse. 

Il biologo marino John Calambokidis ha avvistato Earhart per la prima volta a Puget Sound nel 1990 e da allora ha visto altre balene seguirla. Si fermano qui durante la migrazione per trascorrere mesi succhiando sabbia per filtrare dei “gamberetti fantasma” in una zona poco profonda vicina alla costa. Le balene potrebbero facilmente arenarsi durante una marea se valutano male la direzione o i tempi. Vicino alla riva c’è anche il pericolo di impigliarsi nelle reti o di essere colpiti dalle barche. Ma l’area funziona come una sorta di banca alimentare di emergenza quando le altre fonti scarseggiano.

Le balene grigie sono guru nella gestione dell’ignoto. Sono sopravvissute alle ere glaciali grazie a una dieta flessibile e sembrano gestire bene lo stress, forse grazie ai vantaggi genetici, tra cui il mantenimento e la riparazione del DNA e le risposte immunitarie. La speranza è che tutto ciò possa aiutarle a sopravvivere in un oceano che si riscalda e cambia. 

Nel 2019 è iniziata la moria di massa delle balene grigie. Centinaia sono morte, la maggior parte delle quali per denutrizione. E, negli ultimi due anni, un numero crescente di balene denutrite si è unito al gruppo di Earhart.

Quando mi sento giù di morale o mi preoccupo per il futuro, trovo ispirazione e forza pensando a Earhart. Mi chiedo come abbia trovato per la prima volta i “gamberetti fantasma”. Un giorno, per caso, ha perso la strada? Se vogliamo essere pionieri nel trovare nuove strade, forse, come lei, dobbiamo correre dei rischi.

Perché hai deciso di portare tuo figlio con te in questo viaggio con le balene? 

Ero senza casa, vivevo in un ostello per madri single nell’isola di Jersey dove sono cresciuta dopo una brutta separazione e una causa in tribunale con il padre di mio figlio. Avevo un lavoro meraviglioso e di alto profilo come giornalista della BBC, ma quando sono diventata madre single non potevo permettermi di andare a lavorare perché il mio stipendio non copriva la custodia dei bambini, quindi ero completamente al verde. Vivevo così da un anno e stavo cercando di fare un lavoro di editing mentre mio figlio dormiva. Ero esausta e non riuscivo a vedere una via d’uscita e di miglioramento. Una sera di pausa dal lavoro mi è capitato di imbattermi in un articolo sulle balene grigie. Le madri e i piccoli migrano dalle lagune del Messico fino alla cima del mondo, l’Oceano Artico. La loro resistenza è incredibile e ne sono rimasto affascinata. Avevo anche altri motivi per voler tornare nell’Artico: da giovane giornalista avevo viaggiato lì per fare ricerche sui cambiamenti climatici e mi ero innamorato di un cacciatore di balene indigeno. Praticamente ho deciso di scappare. Ho ottenuto un prestito bancario fingendo di essere ancora impiegata, ho organizzato visti, prenotato voli e non mi sono guardata indietro.

Cosa significa per te il mondo artico?

L’Artico è un luogo di incredibile bellezza e con una incredibile comunità. Gli indigeni Iñupiaq hanno una cultura e una società sofisticate e una vita spirituale, tutte costruite sul legame con la balena della Groenlandia. Il loro rapporto con la balena e con la terra in generale è impressionante. L’Artico è anche il luogo di terribili violenze coloniali. Vivere con la famiglia Kaleak è stata un’esperienza che mi ha cambiato la vita e sarò sempre grata per la loro generosità, l’amore e l’accettazione nei miei confronti e per ciò che mi hanno insegnato. 

Per cosa in particolare sei grata alle balene?

Gli sono grata per il fatto di esserci. Tutto quello che dobbiamo fare è ricordare che condividiamo questo pianeta con esseri giganti e intelligenti che comunicano cantando tra loro attraverso i bacini oceanici. Questo è tutto ciò di cui ho bisogno per dare un senso alla vita. La nostra Terra è incredibile e ogni secondo che trascorriamo su di essa è un privilegio.

Dopo il viaggio, come è cambiato il rapporto con tuo figlio?

Il viaggio ci ha dato la possibilità di stare insieme e ignorare il resto del mondo. Max ha sperimentato una mamma felice, non una mamma esausta, senza sostegno e sempre preoccupata per i soldi. Questo è stato molto importante per il nostro legame e ha dato un nuovo inizio molto forte al nostro rapporto. Alle balene non importava che non avessi una casa, un lavoro o un partner. La madre e il cucciolo di balena grigia stavano facendo tutto da soli, e anche noi! Mi hanno insegnato che il mio lavoro più importante era semplicemente amare mio figlio.

Raccontami il momento più emozionante.

Non posso dirtelo perché rovinerebbe il finale del libro! Ma ce ne sono così tanti! Un momento accaduto all’inizio è stato quando eravamo nelle lagune di parto in Baja California. Mio figlio ha cantato e un cucciolo di balena si è avvicinato alla barca e ha alzato la testa. Max è riuscito ad accarezzarlo. La guida disse che mio figlio stava diventando un “whale-caller”, cioè con la capacità di chiamare le balene. Questo ha un doppio significato per me, perché molti anni prima ero sul ghiaccio marino nell’Artico e, mentre stavo cantando, arrivarono le balene e anche allora mi chiamarono “whale caller”. Ora io non lo so se è vero, ma per me è sufficiente che il nostro canto abbia oltrepassato la barriera delle specie, che le balene ci abbiano ascoltato e che quel canto le abbia avvicinate. 

Cristina Marra

Intervista a Charlie Gnocchi ideatore e autore di O tutto o niente! Manifesto degli artisti scriteriati (CN Oligo editore), di Cristina Marra

Gli Scriteriati sono O tutto o niente! Con un manifesto che scuote la staticità artistica, Charlie Gnocchi, conduttore radiofonico, scrittore, inviato televisivo e tanto altro ancora, avvia un percorso di cambiamento, che comprenderà tour e eventi in giro per l’Italia. Il libro raggruppa interventi e contributi narrativi e artistici di chi come Tasso sognava mondi lontani e Cervantes creava eroi assurdi, Sancho Panza, Jacovitti, Bunuel, noi, fuori dal corso ordinario della storia, diventiamo narratori di mondi dimenticati, cercando la bellezza nella nostra esclusione.

Charlie sei su Il Randagio, una rivista letteraria che ha sposato come motto la frase di Donne sul vagabondaggio e libertà della mente. Sei un creativo randagio che si occupa di radio, TV, libri. Cosa significa essere Randagio per te?

Randagio e’ un termine fantastico che approvo in pieno, ma la linguistica lo squalifica in quanto e’ sempre stato utilizzato in modo ambiguo, randagio e’ libero e vagante curioso avventuroso umile sociale buono e timido, il termine runaway e’ piu’ affascinante ma io sono d’accordo che Randagio abbia bisogno di essere nobilitato, anche se poi tutti vogliono una cuccia calda una zuppa e coccole amichevoli, randagio e’ una vita per spiriti superiori.

Il libro nasce dal tuo manifesto degli artisti scriteriati. Il manifesto è un’esigenza, una volontà di dare spazio al tumulto interiore di molti. Anche io ho aderito con convinzione e entusiasmo alla tua chiamata e mi sento parte di questo progetto.  Quando hai deciso che fosse il momento di scriverlo?

Mi piacciono i Dada e i Surrealisti nei racconti e nelle Opere poi sono stato Punk Demenziale con un occhio al Folk al Pop ai Dialetti dei Cantastorie dei racconti da Bar dalle Balere piene di erotismo e di musica di zone d’ombra di un divertimento senza etichette, la creme de la creme Artistica non conosce la Strada soprattutto i critici i mercanti i borghesi sfaccendati, io rivendico l’Arte Artigianale di chi ci prova, anche a dare un Bacio, l’arte dell’imprevisto del Pubblico superiore e migliore degli Artisti. Soffiamo nei Tromboni per scacciare il Trombonismo Tronfio di palloni gonfiati dall’Aria Fritta!! Gli scriteriati hanno gli spilloni per poterlo fare… ma sono raccolti in un Movimento sotto la mia Guida Spirituale Morale e Umorale… spesso Orale.

“O tutto o niente!” è un raduno di Scriteriati, scrittori e artisti. Il testo del Manifesto è seguito da un’antologia di opere di narrativa poesia e arte. Da Pino Quartullo a Paolo di Giannantonio a Fausto Vitaliano da Luca Gualtieri a Max Greggio, da Marisa Laurito a Isabella Salamida. Come li hai coinvolti?

Ci sono milioni di Artisti Scriteriati che non vedevano l’ora di un Movimento Nuovo di Un manifesto che fosse qualcosa di gia’ sentito pero’ energico, di una guida cioe’ io destabilizzante e anarchica, ignorante rozza ma realmente Indecisa!!!

L’immagine di copertina è un tuo dipinto, un’auto futurista e retrò insieme. Artisticamente ti senti scriteriato, oggi esserlo fa la differenza?

Disegno le cose che disegnavo alle scuole medie quando a 14 anni sognavo il primo Amplesso con le ragazze piu’ sognabili. Ma poi buttavo tempo e denari sui Motori!

In questa epoca digitale, virtuale, effimera che valore ha ancora un libro e quanto è importante?

Sono molto Scriteriato e Randagio perche’ sono diffidente contro tutto cio’ che mi viene imposto anche se mi piego e sopporto tutto. Non ho trovato mai una strada ma tante, tanti sentieri e spesso molto spesso sono rimasto a piedi e senza benzina… pero’ sono qua e non mi fermo.

Oltre a scriverli, che libri legge Charlie Gnocchi?

l libro e’ un feticcio romantico un segno un oggetto prezioso o insulso e’ sempre un libro… la pagina stampata come la parola detta e parlata de visu ha una grande magia. Mi piace scrivere di getto ma sono un lettore troppo disordinato!!!! Sto leggendo Gillo Dorfes… Adorno… la vita di Garibaldi… e Silvia Morghen, una scrittrice scriteriata che ho conosciuto a Più liberi più libri di Roma e inoltre il Minotauro di Varufakis ( economista greco) ma e’ molto noioso. Leggere mi piace ma mi addormento subito!!!

Cristina Marra

Intervista a Orso Tosco per “L’ultimo pinguino delle Langhe” (Nero Rizzoli), di Cristina Marra

Orso benvenuto su Il Randagio. La prima domanda ti tocca e ti cade anche a pennello. Sei un randagio della scrittura, spazi dalla sceneggiatura, alla poesia, ai romanzi fino a questo tuo primo giallo per Nero Rizzoli. Essere randagio cosa significa per te?

Cara Cristina per prima cosa lasciati ringraziare per l’attenzione e la cura che hai scelto di dedicare al mio libro, e grazie a Il Randagio per la preziosa ospitalità. Essere randagio per me rappresenta l’unica condizione grazie alla quale io non finisca per sentirmi un ipocrita. Nascere nell’estremo ponente ligure significa innanzitutto confrontarsi da subito con l’idea artificiale di confine, con la pretesa odiosa di tracciare e imporre dei limiti utili soltanto a pochi, pochissimi, e ingiusti e stancanti per il resto della popolazione. Da questi ragionamenti nasce la mia predilezione per tutti quei personaggi che nelle loro esistenze si sono preoccupati di allargare i confini, arrivando a distruggerli se necessario, pur di scrollarsi di dosso il peso asfissiante e paludoso del potere costituito. Questo tipo di approccio, tanto nella vita quanto nella scrittura, o nella lettura, non può che farti diventare un randagio. 

Da “quel ponente ligure aspro e ripido in cui è nato alla morbidezza delle Langhe. Un trasferimento inaspettato che riporta alla mente un celebre detective, eppure il tuo  Gualtiero Bova, detto il Pinguino, è originale, unico. E’ un personaggio-corale ed è soprattutto il frutto di due territori che solo appaiono esteriormente diversi ma che hanno origine comune. E’ questo il Pinguino? E’ l’espressione di un’appartenenza comune?

Hai perfettamente ragione, ho sempre immaginato il Pinguino come il portatore, magari involontario e persino scocciato, di alcune delle caratteristiche che legano questi due territori, da sempre così diversi e così uniti. C’è in lui una propensione al lirismo, un lirismo che spesso lo conduce alla malinconia o al silenzio più ostinato, ma che per via di un pudore atavico, il pinguino non può che tradurre in una strana forma di sarcasmo. Un sarcasmo che lui rivolge per prima cosa verso se stesso, e che dunque non è un modo per sentirsi migliore o superiore, ma al contrario, è una forma molto pudica e maldestra di affetto. Più passa il tempo e più mi convinco che questo tipo di sarcasmo altro non sia che la forma di empatia concessa ai più timidi.

Il Pinguino è dipendente dalle “gocce” che provocano dentro la sua testa un lavoro sulle parole “raggruppandole di quattro in quattro senza un legame logico tra loro, giusto un po’ di rima”. Sono quelle parole che diventano quartetti il “segreto” delle sue indagini?

Volevo fortemente che il Pinguino avesse un legame viscerale con le parole, ma al tempo stesso volevo che fosse un legame sbilenco, poco ortodosso, lontano dal rigore accademico e dall’aridità del linguaggio giuridico. Le gocce, il loro effetto, rappresentano in questo senso un legame bizzarro e viscerale, il genere di medicina che potrebbe essere al tempo stesso la migliore medicina possibile e un semplice regalo del più comunque effetto placebo. Il Pinguino si affida a loro come altri si affidano ai santi.

Dislessico, ascolta musica hub, fuma la pipa, è uno scrittore mancato, non è un lettore veloce ma ammette di leggere i libri per riempirsi “la testa di un impasto di parole, un po’ come si fa col compost, è un modo per mettere tutto assieme e vedere se ne esce del nutrimento”. Nel romanzo ci sono tanti libri citati in modo più o meno evidente, credo siano tuoi omaggi. Perché un uomo come il Pinguino sceglie di fare il poliziotto?

Paradossalmente per ribellione. Mi divertiva l’idea che qualcuno scegliesse la professione più di tutte legata all’ordine per opporsi ad un ordine giunto dai propri familiari. Infatti il padre del Pinguino, mosso da ideali romantici e anarchici, quando lui era giovane gli disse, nella vita fai quello che vuoi, ma non fare lo sbirro. E lui, proprio per poter contare sull’unico divieto, e dunque su di una libertà quasi assoluta di cui non sa che farsene, sceglie proprio quell’unica strada proibita e la fa sua. Scavando più in profondità credo sia un modo, contorto, elaborato e un po’ assurdo, di non lasciarsi privare di suo padre, ormai morto. Un modo per tenerlo vicino, seppur all’interno di un buffo e taciuto senso di colpa.

Gilda gildina, la bassotta è la sua spalla, la sua compagna di vita, ma anche un bassethound e un capriolo insieme a altri animali compaiono nella storia. Che importanza hanno i personaggi animali nella tua scrittura e in questo romanzo?

Sai, quando nella vita ti capita di chiamarti Orso, credo che ci siano solo due strade percorribili: o degli animali ti disinteressi del tutto, oppure non puoi che accettare l’idea che questo sia un viaggio animalesco condiviso con altri animali. Io ho chiaramente scelto la seconda strada, e devo dire che mi sembra la più ricca e la più credibile. Penso che privarsi di un rapporto il più possibile profondo con gli animali ci renda mutilati e semi analfabeti. 

“E’ sempre vicino alla luce più intensa che le ombre scavano il loro regno profondo”, che rapporto ha Il Pinguino con il dolore e con l’amore?

Temo che abbia deciso di ricevere l’amore e il dolore come si trattasse della stessa sostanza. Io penso che nella vita sia meglio accogliere l’amore e il dolore con due bocche diverse e distinte, pur nella consapevolezza che poi lo stomaco dove finiranno è uno soltanto e lo stesso. Perché questa distinzione, seppur arbitraria e illusoria, ci permette di frapporre un qualcosa tra questi due sentimenti così importanti e lancinanti. Il Pinguino invece, per coraggio o amarezza, difficile dirlo, ha imparato a ricevere i pochi baci e i tanti calci con lo stesso paio di labbra. 

Le indagini scoperchiano un mondo di apparenze e opportunismo. Il Pinguino è “abituato a osservare la vita più che a viverla” e nel romanzo eccentrici, sognatori, sprovveduti, esaltati, ricchi e poveracci scorrono come nei gironi danteschi. Il passato oscuro alle spalle è l’elemento che li accomuna?

Credo che ogni passato, anche il più apparentemente privo di nota, sia in verità un’amalgama incredibile di zone d’ombra e squarci di luce, è il vero legame che ci rende simili e incompleti, è il motivo per cui ci rivolgiamo agli altri con la speranza di comprenderci, o quando la stanchezza o il dolore prendono il sopravvento, di dimenticarci di noi stessi.

 Che rapporto hai tu con i libri, quale il libro o i libri che ti hanno incantato e formato e che consigli ai lettori randagi?

Con la lettura ho un rapporto viscerale e disordinato, procedo per periodi, per innamoramenti che poi vengono sostituiti da nuovi innamoramenti ma che non scompaiono mai del tutto. Grazie al Pinguino e alle Langhe ho riletto Beppe Fenoglio, un gigante, un maestro, l’esempio di una forza e di una sensibilità fuori dal comune e totalmente riversate nella propria opera, senza pose, senza troppa attenzione verso se stesso. Sempre per via del Pinguino e quindi come conseguenza della sua natura “provinciale” ho letto il primo romanzo di Piero Chiara, “Il piatto piange”: meraviglioso. Tornando ai nostri anni, mi sentirei di consigliare alle amiche e agli amici che ci leggono l’ultimo romanzo di Pier Franco Brandimarte, “La vampa”: sono in pochi gli scrittori e le scrittrici in grado di compiere una operazione così ambiziosa e stimolante. E poi sicuramente “Arsenale di Roma distrutta” di Aurelio Picca. Più in generale, qualsiasi libro di Aurelio è un regalo che il lettore si offre. 

Cristina Marra

Intervista all’inarrendevole Luciana Castellina, di Amedeo Borzillo

Luciana Castellina, giornalista, scrittrice, più volte Parlamentare in Italia ed in Europa, è una storica figura della sinistra italiana. 

In pochi giorni si è avuta l’opportunità di incontrarla in occasione di due eventi e di porle domande relative ai diversi aspetti della sua intensa attività: scrittrice, politica, e storica testimone del comunismo italiano nel documentario “16 millimetri alla Rivoluzione”.

  • Il libro “Amori Comunisti”

Un marxista non è un uomo meccanico 

un robot, ma un concreto socio-storico essere umano 

in carne e sangue, nervi testa e cuore.

(Nazim Hikmet)

Per una sorta di pudore politico o di autocensura, raramente i comunisti hanno parlato, nel secolo scorso, delle loro storie private e dei loro amori. 

Luciana Castellina ci racconta, con partecipazione emotiva e ricchezza interiore, in un libro molto particolare, la storia degli amori di tre coppie (il poeta turco Nazim Hikmet e la traduttrice Münevver Andaç, i greci Argyrò Polikronaki e Nikos Kokulis, e gli americani  Sylvia e Robert Thompson) e delle peripezie legate alle vicissitudini del loro essere comunisti in Paesi molto differenti tra loro sia politicamente sia culturalmente: Turchia, Grecia e Stati Uniti. 

Castellina vuole che la loro narrazione diventi testimonianza di vite vissute con coraggio e determinazione perché hanno da insegnare qualcosa a chi oggi sembra vivere senza passioni, in una sorta di tempo sospeso, come in attesa che altri decidano per noi.

D: 

Come scrittrice ti conosciamo per “La scoperta del mondo”, “Guardati dalla mia fame”, “Siberiana”, “il cammino dei Movimenti” e tanti altri saggi.

Come mai questo libro sugli amori ?

R:

“Questo libro l’ho scritto perché stufa di sentire sempre parlare degli “errori” o degli “orrori” del comunismo, ed io invece ho voluto parlare degli “amori” dei comunisti e di quanto per alcuni sia stato difficile viverli per le battaglie che conducevano nel proprio Paese..

Persone da me conosciute ed incontrate, ricordi di amori incredibili che hanno percorso la seconda metà del secolo scorso e che sono vissuti in un clima di grande difficoltà e pericolo, coppie controllate se non addirittura perseguitate in quanto militanti di Partito, legate a ciò che succedeva nella società e nel clima repressivo di quegli anni.  Arresti, esili patiti tra repressione in Turchia, guerra civile e dittatura in Grecia e maccartismo negli USA. 

D:

Amori “politici”, difficili, rocamboleschi e a volte dolorosi, tra persone che in quegli anni vissero un destino comune. Nessuna delle storie però  riguarda personaggi italiani. Come mai?

R:

Quando uscì questo libro mi chiesero se parlasse dei miei amori. Risposi di no e che non dovevano aspettarsi storie relative a comunisti italiani o comunque a personaggi del nostro Paese. Non pettegolezzi ma vite che mi hanno colpito, di personaggi storici che mi hanno turbata in quanto drammatiche.

Persone che hanno legato la propria vita, per le vicende in cui erano coinvolte, alle sorti del proprio Paese. Sono storie di sofferenza per la durezza delle carceri o per la lontananza forzata, ma anche di coerenza e fermezza negli ideali. 

  • Il documentario “16 millimetri alla rivoluzione” 

Dopo il documentario di Daniele Segre girato circa dieci anni fa sulla tua vita, ecco un documentario con una tua intervista, girato dal regista e a sua volta scrittore Giovanni Piperno e destinato alle scuole. 

Un affresco di immagini tratte da film e documentari di grandi registi nell’arco di tempo 1949- 1989.

D: 

“16 mm alla Rivoluzione” : Perché questo titolo e cosa vogliono raccontare queste immagini? 

R: 

Il titolo un po’ bizzarro è stato controverso e frutto alla fine di una mediazione. 

Avrei voluto scrivere “la rivoluzione è obbligatoria” perché credo che una rivoluzione, anche piccola vada fatta. In passato ci siamo arrivati vicini e, giocando sul formato delle pellicole, abbiamo deciso per 16 millimetri di “distanza” dalla rivoluzione. 

Oggi è ancor più difficile pensarla perché non sappiamo più dove è il potere: non è più nel Governo, non è nel Parlamento Europeo. La Bayer con l’acquisto della Monsanto controlla il mercato mondiale delle sementi: ecco dove è il potere, ecco chi davvero può incidere.

Del resto  Berlinguer fu il primo a parlare di ecologia, a denunciare il consumismo e la produzione del superfluo, ad allarmarsi per la crisi della democrazia. 

Le immagini del documentario non vogliono raccontare solo la storia del PCI ma la storia di un popolo, di un pezzo della Società italiana: bastano per questo le scene girate a Primavalle, con le donne protagoniste. Poche scene di massa ma molti dialoghi con lavoratori e donne girati negli anni ’70 e ’80 per evitare retorica o disillusione: io ho ancora speranza.

Nel documentario, alla domanda  “Luciana ti senti ancora comunista? Cosa significa essere comunisti oggi?  tu rispondi

Non ci siamo ancora riusciti a fare un posto in cui ci sia sia libertà che uguaglianza e mi pare che rinunciarci sarebbe grave, per cui ci provo ancora. Essere comunisti vuol dire questo, provarci ancora.”

D:

Sei quindi ancora ottimista ? 

R:

E’ necessario crederci. Non è più possibile seguire il modello socialdemocratico che ha consentito la crescita degli scorsi decenni. Il capitalismo ha perso perché non riesce più a garantire stabilità. Ci vuole un pensiero lungo che solo i giovani possono avere. Smettere di produrre merci inutili e virare verso servizi utili, ad esempio. Come diceva Gramsci, arriva il tempo della crisi di legittimità della democrazia rappresentativa ed è necessario ricercare la soggettività e la capacità di reinventare il mondo.

Amedeo Borzillo