Scrittore apprezzato dalla critica e dal pubblico, legato da dodici anni a Sellerio; bibliotecario di professione come Borges o Alberto Manguel, Fabio Stassi, classe 1962, una vita letteralmente vissuta tra i libri, con “Bebelplatz” non solo racconta uno dei momenti più bui della Storia del Novecento (il titolo fa riferimento alla piazza di Berlino in cui il 10 maggio 1933 vennero dati alle fiamme migliaia di libri), ma anche il dolore personale per il rogo di migliaia di volumi di autori cari, considerati “degenerati” dai nazisti. Bebelplatz è un libro composito e stimolante che si interroga sul senso della Letteratura, dei Libri e della Cultura; un libro necessario che è piaciuto tantissimo a noi del Randagio e alla nostra Rita Mele che ha avuto la fortuna di poter fare qualche domanda all’autore.

‘Bebelplatz’ è un romanzo che ci riporta a un capitolo oscuro della storia, la notte in cui i nazisti bruciarono i libri. Cosa l’ha spinta a rievocare questo evento, e perché proprio ora?
Grazie per questa domanda e grazie anche per l’uso della parola “romanzo”. Io credo che sia anche questo Bebelplatz. E’ un romanzo ed è anche altre cose per me. È un “libro ornitorinco”, fatto di parti diverse. È un libro di viaggio, un reportage, è un saggio storico, è una resa dei conti, è un romanzo, appunto, è un memoir. Per scriverlo ho usato tutto quello che potevo e che negli anni ho cercato di imparare a fare. Nasce da una crisi di identità. Durante la pandemia, come molti, come forse tutti noi, ero caduto in uno stato di smarrimento. Per la prima volta mi sono sentito, forse più che mai, ho capito di essere un orfano del ‘900, di un altro secolo, di altri valori anche, di un’altra letteratura. La pandemia aveva squarciato il fondale, aveva squarciato il teatro. La realtà era tornata con tutta la sua drammatica pressione. E le conseguenze le vediamo ancora oggi: il ritorno della guerra in Europa, l’instabilità politica, il ritorno dei populismi, certe parole d’ordine, i fantasmi del passato. Ecco, per uscire da questa crisi d’identità, mi sono chiesto: “A quale letteratura appartengo? A quale letteratura marchiata da un marchio d’infamia come dicevano i nazisti? A quale idea di mondo?” E così ho cominciato questo che è stato un vero e proprio viaggio reale in molte città della Germania, ma anche un viaggio interiore.
Quali differenze ha trovato tra le città italiane e quelle tedesche? E come si inserisce il tema della memoria in questo contesto?
Io vivo in una città, Viterbo, a cento chilometri da Roma, che durante la guerra è stata in gran parte bombardata. Le città italiane hanno memoria di quello che è successo anche nel loro tessuto urbano, nei monumenti, nella ricomposizione di certi quartieri. Ma sono state soprattutto le città tedesche che ho visitato a impressionarmi. Conoscevo un po’ la Germania, ma in questo viaggio l’ho guardata con occhi diversi e mi sono reso conto che sono città vicarie, sostituite ad altre città. A Colonia ho visitato un museo che nelle fondamenta riporta la distruzione che quel luogo aveva subito e ti danno delle foto su come era quel quartiere. Poi esci per strada e provi a fare un confronto e non c’è più niente, è impossibile orientarsi. C’è un sito in cui alcune persone sono andate a fotografare le piazze in cui sono stati bruciati i libri e, se confronti le vecchie foto con quelle di adesso, i luoghi sono irriconoscibili, sono stati completamente ricostruiti. La domanda è forse sulla memoria, anche sulla memoria urbana. Viviamo un momento delicato perché la memoria umana, ossia la memoria diretta dei testimoni, è praticamente sparita. Qualche anno fa uscì un libro di storia, si intitolava “L’era del testimone” ed era un libro importante. Noi viviamo nell’epoca in cui sono ormai scomparsi i testimoni diretti della guerra e di tutte le tragedie di quel periodo storico, ma ne resta memoria nei luoghi. Ed è una memoria che va interrogata, che va indagata. E anche per questo ho intrapreso il mio viaggio.
Nel romanzo, lei dà voce a scrittori e intellettuali che hanno subito la censura e la persecuzione. Qual è il ruolo della letteratura in tempi di crisi, e come può aiutarci a preservare la memoria?
Io credo che il lettore sia il vero detective. In fondo il romanzo moderno nasce raccontando le avventure di un lettore che è Don Chisciotte. Tra l’altro questo è il primo libro in cui uso la prima persona, non avevo mai detto “io”. Per questo, forse, è anche un romanzo. Io sono un lettore che segue le tracce, che segue la pista, che va alla ricerca dei segni che hanno lasciato questi scrittori perseguitati dal fascismo. E cerco di riassumere e di unire i fili che li legano. E c’è una coerenza, c’è un comune discorso sulla libertà, da Pietro Aretino a Maria Volpi; c’è in Giuseppe Antonio Borgese un discorso sull’utopia, sul fatto che l’umanità è a un bivio: o si dà una Costituzione mondiale o non sopravvive; c’è un discorso sull’antimperialismo, sull’anticolonialismo portato avanti soprattutto da Salgari; c’è un antifascismo radicale in Ignazio Silone; e c’è una denuncia del patriarcato, un’affermazione della libertà della donna in Maria Volpi. Ecco, questi cinque scrittori hanno composto per me un’idea di mondo che è quella a cui appartengo. Oggi vedo che, come dicevo prima, le stesse parole d’ordine risuonano, con i medesimi vocaboli tali e quali. Quando Goebbels diceva degli intellettuali che sono infestanti parassiti che occupano le strade della città, sembra di risentire certe interviste. Il ruolo della letteratura è di preservare la memoria e di usare la memoria per criticare il presente. Un Cancelliere cinese di 2000 anni fa aveva detto: “chiunque usi la memoria per criticare il presente sarà giustiziato insieme alla sua famiglia”. Ecco, la letteratura usa la memoria, l’immaginazione, la fantasia, la ragione, soprattutto per criticare il presente e per impedire, come diceva Elsa Morante, la disintegrazione della coscienza umana.

‘Bebelplatz’ è un romanzo storico, ma anche una riflessione sul potere delle parole e sulla loro capacità di sopravvivere al tempo. Qual è il messaggio che vuole trasmettere ai lettori di oggi, in un’epoca in cui la disinformazione e la manipolazione sono all’ordine del giorno?
C’è un proverbio spagnolo che dice: “la ribellione si impara leggendo”. Ecco, io penso che leggere è sempre un atto d’amore ed è anche sempre un atto di disagio e d’imbarazzo per il presente, per il mondo in cui viviamo e per le tante ingiustizie a cui spesso in maniera impotente assistiamo. Credo che sia un modo per ragionare con la propria testa, per cercare di essere liberi e di educare, magari anche sbagliando, il proprio spirito critico di fronte a questa invasione di informazioni spesso manipolate. Di fronte a questa imposizione da parte di un potere di un pensiero unico, la letteratura sarà sempre dalla parte del pensiero divergente e impura. Ed è dal lato della devianza.
Nei prossimi giorni lei sarà a Bolzano, la città in cui vivo, che, come tutto il Sudtirolo, ha vissuto periodi storici complessi, segnati da cambiamenti politici e culturali. Che cosa rappresenta questa terra per lei e quali legami ha con la sua cultura e la sua storia?
Sono venuto diverse volte a Bolzano, sempre per incontri letterari. Attraverso mia moglie ho conosciuto la montagna. E ricordo ancora la prima volta che andai in Trentino-Alto Adige, la grande, stupefacente impressione che ne ricavai. E da allora cerco di ritornarci quasi ogni estate. E ogni volta che vengo da quelle parti mi sento bene. Il paesaggio, la vicinanza delle montagne, le montagne mi hanno sempre comunicato un enorme senso di dignità. E un’idea di relazione tra le persone corretta, misurata, rispettosa. Ecco, pur essendo siciliano (ma venendo da un sud… ma anche il Sud Tirolo porta questa piccola parola nel nome, che per me più che un’indicazione geografica, è un’idea di mondo)… pur essendo siciliano, dicevo, preferisco la montagna al mare. E quindi ogni volta torno molto volentieri dalle vostre parti, che oltretutto sono luoghi carichi di storia che mi piace indagare.
Qual è secondo lei, oggi, l’obiettivo politico culturale delle biblioteche? E quale il mandato professionale del bibliotecario?
A stilare le liste nere durante il nazionalsocialismo dei libri che sarebbero dovuti andare al rogo fu proprio un bibliotecario. E questa cosa naturalmente mi ha colpito e mi ha coinvolto perché questo è il mio mestiere. E il Bibliotecario nazista aveva tradito il mandato del nostro mestiere, che è appunto quello di difendere la memoria, di esserne custodi e, in qualche modo, ambasciatori. Ricordo un racconto di Gesualdo Bufalino che si intitola “Le visioni di Basilio ovvero la battaglia dei tarli e degli eroi” in cui si racconta la storia di un bibliotecario messo a salvaguardia degli ultimi libri sopravvissuti al cataclisma atomico dell’umanità in cima al Monte Athos. I libri vengono attaccati da una specie di tarli che si erano sviluppati dopo le ultime guerre. E direi che, in ogni epoca dell’umanità, c’è sempre un re dei tarli che vuole incenerire le biblioteche. I bibliotecari sono, appunto, i soldati semplici che cercano di difendere il patrimonio della nostra memoria. In questo caso Basilio è un monaco e quando i tarli arrivano sino in cima al Monte Athos, attaccano i libri e lui si rende conto che non avrebbe potuto più difenderli in alcun modo. Studiando però aveva scoperto che questi tarli sono golosi di miele. Allora si denuda, si cosparge il corpo di miele, aspetta che tutti i tarli entrati nella fortezza si depositino sul suo corpo e si getta da una rupe sul mare Egeo. Ecco, non dico che i bibliotecari devono arrivare a questi estremi, ma sicuramente la loro funzione è fondamentale. In più devono cercare di favorire la creazione di una comunità intorno alle biblioteche, che, per me, sono luoghi vivi come dei porti, luoghi pieni di voci, che sono anche le voci dei libri, le voci dei lettori, le voci dei bibliotecari.
Quale sarà il suo prossimo viaggio letterario?
Il mio prossimo viaggio letterario sarà un altro viaggio nella memoria, ma questa volta nella memoria personale. Avevo detto prima che in Bebelplatz ho usato per la prima volta nei miei libri l’ “io” ed è stato un processo di avvicinamento alla realtà e un togliersi le maschere, e un provare a dire le cose in prima persona, a chiamarle col loro nome. Ecco, mantengo molto pudore, ma il mio prossimo viaggio letterario sarà un viaggio nella mia infanzia, nei miei primi dieci anni, nella memoria di una famiglia di migranti da cui provengo, nelle sue lingue, nel suo destino ramingo per il mondo. E non sarà in prima, ma in seconda persona, in quanto penso che forse solo alla fine riuscirò a tornare alla prima persona, perché davvero credo che ci voglia tutta una vita prima di poter dire, di poter balbettare sottovoce un “io”.
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Rita Mele

Rita Mele: barese, ma da molti anni vive a Bolzano. Giornalista, giurista, formatrice, psicologa, insegnante di yoga. Progetti per il futuro: ballare


















