Intervista a Fabio Stassi per “Bebelplatz. La notte dei libri bruciati” (Sellerio), di Rita Mele

Scrittore apprezzato dalla critica e dal pubblico, legato da dodici anni a Sellerio; bibliotecario di professione come Borges o Alberto Manguel, Fabio Stassi, classe 1962, una vita letteralmente vissuta tra i libri, con “Bebelplatz” non solo racconta uno dei momenti più bui della Storia del Novecento (il titolo fa riferimento alla piazza di Berlino in cui il 10 maggio 1933 vennero dati alle fiamme migliaia di libri), ma anche il dolore personale per il rogo di migliaia di volumi di autori cari, considerati “degenerati” dai nazisti. Bebelplatz è un libro composito e stimolante che si interroga sul senso della Letteratura, dei Libri e della Cultura; un libro necessario che è piaciuto tantissimo a noi del Randagio e alla nostra Rita Mele che ha avuto la fortuna di poter fare qualche domanda all’autore.

‘Bebelplatz’ è un romanzo che ci riporta a un capitolo oscuro della storia, la notte in cui i nazisti bruciarono i libri. Cosa l’ha spinta a rievocare questo evento, e perché proprio ora?

Grazie per questa domanda e grazie anche per l’uso della parola “romanzo”. Io credo che sia anche questo Bebelplatz. E’ un romanzo ed è anche altre cose per me. È un “libro ornitorinco”, fatto di parti diverse. È un libro di viaggio, un reportage, è un saggio storico, è una resa dei conti, è un romanzo, appunto, è un memoir. Per scriverlo ho usato tutto quello che potevo e che negli anni ho cercato di imparare a fare. Nasce da una crisi di identità. Durante la pandemia, come molti, come forse tutti noi, ero caduto in uno stato di smarrimento. Per la prima volta mi sono sentito, forse più che mai, ho capito di essere un orfano del ‘900, di un altro secolo, di altri valori anche, di un’altra letteratura. La pandemia aveva squarciato il fondale, aveva squarciato il teatro. La realtà era tornata con tutta la sua drammatica pressione. E le conseguenze le vediamo ancora oggi: il ritorno della guerra in Europa, l’instabilità politica, il ritorno dei populismi, certe parole d’ordine, i fantasmi del passato. Ecco, per uscire da questa crisi d’identità, mi sono chiesto: “A quale letteratura appartengo? A quale letteratura marchiata da un marchio d’infamia come dicevano i nazisti? A quale idea di mondo?” E così ho cominciato questo che è stato un vero e proprio viaggio reale in molte città della Germania, ma anche un viaggio interiore.

Quali differenze ha trovato tra le città italiane e quelle tedesche? E come si inserisce il tema della memoria in questo contesto?

Io vivo in una città, Viterbo, a cento chilometri da Roma, che durante la guerra è stata in gran parte bombardata. Le città italiane hanno memoria di quello che è successo anche nel loro tessuto urbano, nei monumenti, nella ricomposizione di certi quartieri. Ma sono state soprattutto le città tedesche che ho visitato a impressionarmi. Conoscevo un po’ la Germania, ma in questo viaggio l’ho guardata con occhi diversi e mi sono reso conto che sono città vicarie, sostituite ad altre città. A Colonia ho visitato un museo che nelle fondamenta riporta la distruzione che quel luogo aveva subito e ti danno delle foto su come era quel quartiere. Poi esci per strada e provi a fare un confronto e non c’è più niente, è impossibile orientarsi. C’è un sito in cui alcune persone sono andate a fotografare le piazze in cui sono stati bruciati i libri e, se confronti le vecchie foto con quelle di adesso, i luoghi sono irriconoscibili, sono stati completamente ricostruiti. La domanda è forse sulla memoria, anche sulla memoria urbana. Viviamo un momento delicato perché la memoria umana, ossia la memoria diretta dei testimoni, è praticamente sparita. Qualche anno fa uscì un libro di storia, si intitolava “L’era del testimone” ed era un libro importante. Noi viviamo nell’epoca in cui sono ormai scomparsi i testimoni diretti della guerra e di tutte le tragedie di quel periodo storico, ma ne resta memoria nei luoghi. Ed è una memoria che va interrogata, che va indagata. E anche per questo ho intrapreso il mio viaggio.

Nel romanzo, lei dà voce a scrittori e intellettuali che hanno subito la censura e la persecuzione. Qual è il ruolo della letteratura in tempi di crisi, e come può aiutarci a preservare la memoria?

Io credo che il lettore sia il vero detective. In fondo il romanzo moderno nasce raccontando le avventure di un lettore che è Don Chisciotte. Tra l’altro questo è il primo libro in cui uso la prima persona, non avevo mai detto “io”. Per questo, forse, è anche un romanzo. Io sono un lettore che segue le tracce, che segue la pista, che va alla ricerca dei segni che hanno lasciato questi scrittori perseguitati dal fascismo. E cerco di riassumere e di unire i fili che li legano. E c’è una coerenza, c’è un comune discorso sulla libertà, da Pietro Aretino a Maria Volpi; c’è in Giuseppe Antonio Borgese un discorso sull’utopia, sul fatto che l’umanità è a un bivio: o si dà una Costituzione mondiale o non sopravvive; c’è un discorso sull’antimperialismo, sull’anticolonialismo portato avanti soprattutto da Salgari; c’è un antifascismo radicale in Ignazio Silone; e c’è una denuncia del patriarcato, un’affermazione della libertà della donna in Maria Volpi. Ecco, questi cinque scrittori hanno composto per me un’idea di mondo che è quella a cui appartengo. Oggi vedo che, come dicevo prima, le stesse parole d’ordine risuonano, con i medesimi vocaboli tali e quali. Quando Goebbels diceva degli intellettuali che sono infestanti parassiti che occupano le strade della città, sembra di risentire certe interviste. Il ruolo della letteratura è di preservare la memoria e di usare la memoria per criticare il presente. Un Cancelliere cinese di 2000 anni fa aveva detto: “chiunque usi la memoria per criticare il presente sarà giustiziato insieme alla sua famiglia”. Ecco, la letteratura usa la memoria, l’immaginazione, la fantasia, la ragione, soprattutto per criticare il presente e per impedire, come diceva Elsa Morante, la disintegrazione della coscienza umana.

‘Bebelplatz’ è un romanzo storico, ma anche una riflessione sul potere delle parole e sulla loro capacità di sopravvivere al tempo. Qual è il messaggio che vuole trasmettere ai lettori di oggi, in un’epoca in cui la disinformazione e la manipolazione sono all’ordine del giorno?

C’è un proverbio spagnolo che dice: “la ribellione si impara leggendo”. Ecco, io penso che leggere è sempre un atto d’amore ed è anche sempre un atto di disagio e d’imbarazzo per il presente, per il mondo in cui viviamo e per le tante ingiustizie a cui spesso in maniera impotente assistiamo. Credo che sia un modo per ragionare con la propria testa, per cercare di essere liberi e di educare, magari anche sbagliando, il proprio spirito critico di fronte a questa invasione di informazioni spesso manipolate. Di fronte a questa imposizione da parte di un potere di un pensiero unico, la letteratura sarà sempre dalla parte del pensiero divergente e impura. Ed è dal lato della devianza.

Nei prossimi giorni lei sarà a Bolzano, la città in cui vivo, che, come tutto il Sudtirolo, ha vissuto periodi storici complessi, segnati da cambiamenti politici e culturali. Che cosa rappresenta questa terra per lei e quali legami ha con la sua cultura e la sua storia?

Sono venuto diverse volte a Bolzano, sempre per incontri letterari. Attraverso mia moglie ho conosciuto la montagna. E ricordo ancora la prima volta che andai in Trentino-Alto Adige, la grande, stupefacente impressione che ne ricavai. E da allora cerco di ritornarci quasi ogni estate. E ogni volta che vengo da quelle parti mi sento bene. Il paesaggio, la vicinanza delle montagne, le montagne mi hanno sempre comunicato un enorme senso di dignità. E un’idea di relazione tra le persone corretta, misurata, rispettosa. Ecco, pur essendo siciliano (ma venendo da un sud… ma anche il Sud Tirolo porta questa piccola parola nel nome, che per me più che un’indicazione geografica, è un’idea di mondo)… pur essendo siciliano, dicevo, preferisco la montagna al mare. E quindi ogni volta torno molto volentieri dalle vostre parti, che oltretutto sono luoghi carichi di storia che mi piace indagare.

Qual è secondo lei, oggi, l’obiettivo politico culturale delle biblioteche? E quale il mandato professionale del bibliotecario?

A stilare le liste nere durante il nazionalsocialismo dei libri che sarebbero dovuti andare al rogo fu proprio un bibliotecario. E questa cosa naturalmente mi ha colpito e mi ha coinvolto perché questo è il mio mestiere. E il Bibliotecario nazista aveva tradito il mandato del nostro mestiere, che è appunto quello di difendere la memoria, di esserne custodi e, in qualche modo, ambasciatori. Ricordo un racconto di Gesualdo Bufalino che si intitola “Le visioni di Basilio ovvero la battaglia dei tarli e degli eroi” in cui si racconta la storia di un bibliotecario messo a salvaguardia degli ultimi libri sopravvissuti al cataclisma atomico dell’umanità in cima al Monte Athos. I libri vengono attaccati da una specie di tarli che si erano sviluppati dopo le ultime guerre. E direi che, in ogni epoca dell’umanità, c’è sempre un re dei tarli che vuole incenerire le biblioteche. I bibliotecari sono, appunto, i soldati semplici che cercano di difendere il patrimonio della nostra memoria. In questo caso Basilio è un monaco e quando i tarli arrivano sino in cima al Monte Athos, attaccano i libri e lui si rende conto che non avrebbe potuto più difenderli in alcun modo. Studiando però aveva scoperto che questi tarli sono golosi di miele. Allora si denuda, si cosparge il corpo di miele, aspetta che tutti i tarli entrati nella fortezza si depositino sul suo corpo e si getta da una rupe sul mare Egeo. Ecco, non dico che i bibliotecari devono arrivare a questi estremi, ma sicuramente la loro funzione è fondamentale. In più devono cercare di favorire la creazione di una comunità intorno alle biblioteche, che, per me, sono luoghi vivi come dei porti, luoghi pieni di voci, che sono anche le voci dei libri, le voci dei lettori, le voci dei bibliotecari.

Quale sarà il suo prossimo viaggio letterario?

Il mio prossimo viaggio letterario sarà un altro viaggio nella memoria, ma questa volta nella memoria personale. Avevo detto prima che in Bebelplatz ho usato per la prima volta nei miei libri l’ “io” ed è stato un processo di avvicinamento alla realtà e un togliersi le maschere, e un provare a dire le cose in prima persona, a chiamarle col loro nome. Ecco, mantengo molto pudore, ma il mio prossimo viaggio letterario sarà un viaggio nella mia infanzia, nei miei primi dieci anni, nella memoria di una famiglia di migranti da cui provengo, nelle sue lingue, nel suo destino ramingo per il mondo. E non sarà in prima, ma in seconda persona, in quanto penso che forse solo alla fine riuscirò a tornare alla prima persona, perché davvero credo che ci voglia tutta una vita prima di poter dire, di poter balbettare sottovoce un “io”.

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Fabio Stassi sarà a Bolzano martedì 15 aprile ospite della Biblioteca Provinciale Italiana.

Rita Mele

Rita Mele: barese, ma da molti anni vive a Bolzano. Giornalista, giurista, formatrice, psicologa, insegnante di yoga. Progetti per il futuro: ballare

“Dentro il Palazzo” – due domande a Carlo Cottarelli, di Amedeo Borzillo

“Ho superato la mia naturale avversione a fare qualcosa che sapevo sarebbe finito nel nulla”.

Queste parole di Carlo Cottarelli, apparentemente intrise di amarezza, sono la chiave di lettura di un magnifico saggio, “Dentro il Palazzo” che l’economista ha pubblicato per Mondadori.

Cottarelli in questo libro, articolato fondamentalmente in due parti, ci racconta della sua esperienza dentro i palazzi del potere, quando il suo ruolo di tecnico – con grande competenza nel controllo e revisione dei conti pubblici sia per Banca d’Italia che per il Fondo Monetario Internazionale – fu “prestato” alla politica senza però riuscire a raggiungere l’efficacia sperata.

Ne emerge una fotografia disillusa ma a tratti addirittura sorprendente della macchina statale, e soprattutto del ruolo e delle responsabilità evidenti della politica nel malfunzionamento della stessa e del continuo rinvio della pur necessaria riduzione del debito pubblico, “conditio sine qua non” per eliminare la vulnerabilità del nostro Paese.

Cottarelli è un tecnico, e gli va dato il merito di ragionare di numeri e di conti che non quadrano, e cercare soluzioni che evitino l’aggravamento della situazione che non può deragliare. 

In qualità di Commissario alla Spending Review incaricato dal Governo Italiano, gettò la spugna dopo un anno, ricordando:

“il senso di solitudine nel condurre quella lotta allo spreco nelle risorse del contribuente, le trappole tese sin dall’inizio dalla politica e dalla burocrazia romana, il difficile passaggio tra 2 Governi (Letta e Renzi) “.

Chiamato dal Presidente Mattarella nel 2018 per formare un nuovo Governo di carattere tecnico per la difficoltà di formarne uno politico, dopo quattro giorni di consultazioni e dopo avere formato una squadra di Ministri (nessun politico) tutti provenienti dal mondo delle professioni rimise il suo mandato perché nel frattempo la “politica” aveva raggiunto l’accordo. 

Il punto di vista sovrano populista (Salvini – Conte) era semplice: come poteva il Presidente Mattarella opporsi ai desideri di chi aveva appena vinto le elezioni e quindi aveva ricevuto l’investitura popolare? Vox populi vox dei, dopotutto!

Di qui un divertente ma preoccupato spaccato della vita Parlamentare italiana: ai privilegi, vantaggi e prerogative di Deputati e Senatori descritti con stupore e in un caso addirittura con nostalgia (la migliore cioccolata calda del mondo si serve al bar del Senato) seguono allarmi ben inquadrati per le riforme Istituzionali e Costituzionali in corso o in progetto da parte del Governo attuale, a partire dai rischi del Premierato

“con questa riforma il Presidente del Consiglio sarebbe eletto direttamente dal voto popolare, acquisendo, quindi, un rilievo incomparabilmente superiore a quello attuale, anche rispetto al Presidente della Repubblica, con conseguente alterazione del concetto di Democrazia inteso nella nostra Costituzione”.

Un libro attuale che informa, allarma, diverte. 

Eppure noi irriverenti Randagi ci siamo permessi di porre un paio di domande “critiche” proprio per l’eccesso di tecnicismo nelle soluzioni di carattere economico che finiscono col penalizzare proprio i più svantaggiati settori della Società:

  • Nel suo libro quando parla di provvedimenti tesi alla diminuzione del debito pubblico lo fa seguendo principi di egualitarismo e non di equità: perché chiedere a tutti gli strati sociali la stessa contribuzione? Perché essere favorevoli all’aumento delle accise sulla benzina e non propone una tassazione sui grandi patrimoni?

***       Perché servono interventi strutturali, efficaci e soprattutto durevoli. Una patrimoniale una tantum non risolverebbe il problema e comunque se un patrimonio è rappresentato ad esempio da una proprietà immobiliare non è detto che ci sia una disponibilità economica per la sua ulteriore tassazione.

  •  Lei lancia numerosi allarmi ma non affronta la questione dell’emergenza climatica che oltretutto investe per molti aspetti anche l’economia di molti Paesi.

***       E’ molto difficile governare il fenomeno dei cambiamenti climatici che ha una carattere planetario. Se da un lato i Paesi che maggiormente ne sono responsabili stanno attuando anche se in modo carente politiche di contenimento delle emissioni, i Paesi emergenti, che non sono responsabili della situazione attuale, non hanno nessuna intenzione di subire penalizzazioni al loro sviluppo derivanti da limitazioni nelle emissioni. Europa e Occidente in generale ci stanno provando, ma molto difficile sarà intervenire sui Paesi asiatici e questo non facilita neppure in casa nostra soluzioni di contenimento più drastico.

Per finire, un chicca: Cottarelli è un grande tifoso interista, come chi vi scrive. 

Amedeo Borzillo 

IL RANDAGIO RACCOMANDA: COMPRATE IN LIBRERIA!

Intervista a Alberto Ravasio per “La vita sessuale di Guglielmo Sputacchiera” (Quodlibet), di Gigi Agnano

Alla mia veneranda età capita raramente di sentirmi in soggezione con uno scrittore parecchio più giovane. Con Alberto Ravasio è stato un po’ diverso: innanzitutto perché è proprio bello e la bellezza mi pone subito in posizione d’inferiorità. Poi perché ha quest’aria imbronciata di uno sveglio da poco, anzi, più precisamente, di uno che tu hai la responsabilità di aver appena svegliato. In più ha una cultura mostruosa (sicuramente rispetto alla mia…), una lingua tutta sua, un parlato che è già letteratura con un accento nordico che ti fa sentire il più terrone della terra. Infine, perché lo considero l’incarnazione del “bravo scrittore”, essendo l’autore del libro più spiritoso che io abbia letto negli ultimi anni – il Guglielmo Sputacchiera di cui parleremo -, ma non so se dirglielo perché magari è tipo che non sai come reagisce ai complimenti. Insomma, c’ho provato a fargli delle domande – spero – un po’ inconsuete e mi auguro che non si sia annoiato a rispondermi. Di certo le risposte non annoieranno voi lettori, perchè dicono abbastanza dello spessore di questo poco più che trentenne, che è per me uno degli scrittori più interessanti del panorama letterario italiano.

Buongiorno, Alberto, innanzitutto come stai? Puoi dare ai nostri lettori una tua biografia in poche battute, magari alla maniera di Sputacchiera?

In realtà scrivo sempre nella stessa maniera, non adeguo la mia scrittura al contesto ma di solito adeguo la mia vita alle conseguenze della mia scrittura quando il contesto poi si incazza. 

Comunque se dovessi scrivere al volo una nota biografica in terza persona cesarea suonerebbe più o meno così: 

Alberto Ravasio (1990) vive e non lavora a Bergamo. Col suo primo romanzo, La vita sessuale di Guglielmo Sputacchiera, uscito nel 2022 per Quodlibet, non ha vinto il Premio Calvino e nemmeno il Premio Bergamo. Ha scritto e magari scriverà ancora su «il manifesto» e «Domani». 

Io partirei dall’editore di Guglielmo Sputacchiera perché recentemente Quodlibet è stata giudicata casa editrice dell’anno dall’Osservatorio sulla qualità dell’editoria. Tu com’è che sei finito da Quodlibet, come ti sei trovato e cosa ti piace di questa casa editrice?

Pubblicando soprattutto recuperi cioè morti, a Quodlibet non pensano di saperla troppo lunga su cosa può vendere e cosa no in base alla puzza che tira, perciò mi hanno preso un libro editorialmente assurdo fin dal titolo, mentre altrove probabilmente mi sarei preso, come tra l’altro era già successo nei dieci anni precedenti, solo diagnosi di psicosi canina e competentissimi pussavia. 

C’è un rimprovero che muoveresti all’ editoria italiana? E a te stesso come scrittore?

Invece di rimproverare l’editoria, cattiva o meno, rimprovererei gli scrittori di non parlare a sufficienza di editoria nel senso di non parlare apertamente di soldi in letteratura, di quanto prendono a libro, a pezzo, di quanto vendono, materializzando così un discorso che altrimenti è solo felicemente astratto per chi può permetterselo. 

Guglielmo Sputacchiera è un uomo senza qualità, “nato strano e cresciuto peggio”, che un giorno al risveglio si accorge di essere diventato donna. Inutile dire che si pensa subito al povero Gregor Samsa. Perché gli scrittori sono così attratti dal tema della trasformazione?

La trasformazione come espediente letterario mi sembra un buon uso del fantastico perché, tanto per citare Dostoevskij nella prefazione della Mite, una goccia di fantastico spesso potenzia il realismo, lo rende ancora più realistico. Non capisco invece chi, dopo i sei anni e mezzo, scrive di un mondo di elfe e principessi e intanto vive ancora coi suoi nel non magico mondo della disoccupazione. 

A questo proposito, Borges diceva che i suoi primi racconti erano stati “esercizi” in cui aveva provato ad essere Kafka. Buzzati, invece, com’è noto, non amava che i critici lo accostassero a Kafka, al punto da negare mentendo di averlo mai letto. Ti va di azzardare un confronto tra Gregor Samsa e Guglielmo Sputacchiera?

Kafka è così classico da essere diventato un aggettivo e io rispetto a lui sono solo l’ennesimo esordiente degli stracci. Ci vuole un minimo di senso delle proporzioni, mentre al giorno d’oggi, come ripete spesso mio zio cagapolenta, si è perso il rispetto, si dà del tu a tutti, persino ai classici e invece di dire «La penso come Aristotele» si dice «Aristotele la pensa come me e lotta insieme a noi per i diritti dei panda lesbici».

L’edizione greca di “La vita sessuale di Guglielmo Sputacchiera

Perché dovunque si parli del tuo libro si dice di “personaggio fantozziano”? Non è una diminutio? Perché oggi quando uno scrittore costruisce le proprie architetture narrative su eros e porno, su ironia e comicità, si tende a pensare ad una letteratura di serie b? Non è un clamoroso errore?

Secondo Franco Cordelli Paolo Villaggio era il più grande scrittore comico italiano del Novecento e Paolo Villaggio era così confuso e felice che se lo portava in televisione per farglielo ripetere davanti al pubblico di casalinghe di Treviso e braccianti lucani. Di recente Giunta e Simonetti, forse citando Cordelli, hanno definito Alessandro Gori il più grande scrittore comico italiano, anche se prima di lui ci starebbe bene almeno Cavazzoni, giusto per anzianità, dunque direi che Fantozzi va sempre preso sul serio mentre la critica a volte un po’ sfotte. 

Peraltro tu affronti temi estremamente seri come la disoccupazione intellettuale, la condizione giovanile, la rivoluzione digitale – che sottrae tempo alla “vita vera”, che cambia il nostro modo di stare al mondo -, la pornodipendenza, la crisi della mascolinità, i rapporti genitori-figli… quanto è difficile introdurre delle tematiche “da saggio” in un romanzo di fantasia? 

Le digressioni saggistiche mi sembrano ormai le parti più significative dei romanzi più significativi perché la cosiddetta trama se la sono presa il cinema, le serie, e al romanzo resta il colpo d’occhio filosofico, la visione del mondo, esteriore e ovviamente interiore. Il miglior romanzo non è quello con la storia più avvincente, commovente, potente eccetera, ma quello dopo il quale vedi il mondo in un altro modo, è il romanzo che ti dà torto, che ti dà la colpa o anche solo dello stronzo finalmente. 

Sono curioso di sapere come t’immagini Sputacchiera transessualizzato dal punto di vista estetico. Sappiamo che ha un’invidiabile terza di reggiseno, che esce con i pantaloncini corti, che tende a sculettare e gli immigrati le fischiano dietro, ma, per esempio, com’è messa a peli sulle gambe? Deve radersi regolarmente? Diventa brufolosa quando ha il ciclo? A pensarci bene: ha il ciclo, potrebbe anche avere figli? 

Il problema della presenza o meno dell’utero nello Sputacchiera transessualizzato è stato motivo di rissa letteraria tra me e il mio amico Zandomeneghi, per i nemici Lo Zandomeneghi, massimo scrittore capalbiese di tutti i tempi. Zandomeneghi sostiene che lo Sputacchiera transessualizzato non ha l’utero perché non è una donna, è piuttosto l’incarnazione novocarnista dei desideri maschili eterosessuali pornograficamente modificati, mentre io sostengo che lo Sputacchiera transessualizzato è una donna a tutti gli effetti con tanto di utero e il motivo è molto semplice e egoista: volevo provare a scrivere un vero personaggio femminile per illudermi di poter capire le donne, non dico nella vita ma quantomeno nella presunta arte.  

Nell’ipotesi assurda in cui il transessualismo di Sputacchiera fosse determinato da un batterio devirilizzante, giochiamo ad immaginare un sequel in cui un contagio “depenizza” progressivamente tutti i maschi dell’orbe terraqueo…? Una specie di Cecità genitale… Azzardiamo un titolo? A me viene “Pene amaro”, ma non mi sembra un granchè…

In realtà Sputacchiera ha già vari non attesissimi seguiti che al momento esistono solo come appunti mentali nel mio cranio infelice e malpelo. Svelo giusto due titoli: La gravidanza di Guglielmo Sputacchiera e il postumo e mariano L’assunzione di Guglielmo Sputacchiera

E’ uscito recentemente un podcast di Massimo Recalcati dal titolo “La vita erotica”, con puntate del tipo “La sessualità umana è sempre perversa” oppure “Come si sceglie il proprio sesso”. Quali benefici trarrebbe Sputacchiera dall’ascolto del podcast, ammesso che qualcuno al mondo ne possa trarre benefici?

Recalcati è un lacanista notevole ma è anche il tipico intellettuale mediatico per bene, completamente nel giusto e completamente astratto, che è poi il problema di buona parte della sinistra italiana passata troppo allegramente da PPP a VVV, dalla tripla P di Pier Paolo Pasolini alla tripla V di Walter Veltroni. 

A dire il vero ne parlo malino solo per sfinimento domestico, mia madre lo cita di continuo, è il suo primo intercalare. «Come dice Recalcati dobbiamo volerci bene», «Come dice Recalcati dio esiste», «Come dice Recalcati porta fuori l’immondizia». Si è messa persino a leggere Lacan senza capirci niente ma dato che non ha mai capito troppo in generale non si è accorta della differenza.

 C’è stato un tempo in cui i giovani dicevano che non c’erano maestri. Poi sono arrivati i “cattivi maestri”. Oggi chi sono i “maestri” e quali sono i tuoi in campo letterario?

Al momento io, essendo ancora quasi giovane, dovrei comportarmi da illuso, da esaltato e la rivoluzione, diceva uno, comincia quando i ventenni si alleano coi settantenni per far fuori i cinquantenni. Ovviamente, causa disabilità economica, i trentenni di oggi sono i nuovi ventenni e in effetti, dentro e fuori dal testo, sono molto più d’accordo con Cavazzoni, Permunian, Moresco, Pecoraro, sempre giovani e sovversivi, che con buona parte dei quarantenni e cinquantenni prostituiti alla prudenza. 

Faccio un paio di esempi veloci per non cadere nell’ignavo e indefinito: in Giorni di collera e di annientamento Permunian, camuffato dietro il suo alter ego narrante Fifì, spara a sangue caldo su un pulmino di stagisti della Fondazione Mondadori e consegna alla redazione un sacchetto di merda d’autore, la sua, mentre nel Manualetto per la prossima vita Cavazzoni assolve semiseriamente la mafia, dicendo che se andasse al potere non sarebbe tanto peggio dello Stato, e soprattutto accusa il Campiello di avergli sfigurato la prostata. 

Ti capita mai di rileggere un libro? Se sì, mi dici quello più sgualcito?

Può forse capitare di leggere un brutto libro per caso o per amicizia, ma se lo rileggi, se perseveri, sei diabolico o peggio colluso. In tempi di pubblicazione universale mi verrebbe da dire che il vero esordio ormai è la riedizione e che degno di lettura è soltanto un libro che poi si merita anche una rilettura, non più per piacere ma per studio. Credo di aver riletto molto LolitaSeminario sulla gioventù e soprattutto Dostoevskij quando ero universitario e vergine, cioè fino alla settimana scorsa circa.

C’è una frase di Goethe che a me personalmente non è mai piaciuta (ma è assai probabile che non l’abbia capita…): “Guardati da ciò che desideri in gioventù perché l’otterrai nella maturità”. Tu che ne pensi? 

Nella maggior parte dei casi nessuno ottiene ciò che desidera e nel tempo ci si accorge che nemmeno il desiderio stesso era poi tanto nostro, perché non si desidera la roba d’altri, ma come scrive Girard, unico cattolico a cui avrei offerto un aperitivo eucaristico, si desidera il desiderio d’altri. Il desiderio dunque è in qualche modo sempre mediato, praticamente indotto, dalla famiglia familista, dal cattonazismo secolarizzato, dalla pornografia globale, dal cinema americanazzo, dal politicamente corrotto, dai vicini di casa e di social. 

Intervista a Vladimiro Bottone per “Il peso del sangue” (Solferino), di Daniela Marra

Questo è un libro coraggioso. Scuote, divide, potenzialmente scandaloso, mette alla prova il lettore, che si trova smarrito nell’incertezza, perdendo gradualmente i suoi punti di riferimento. L’incedere della narrazione è serrato, un ritmo da noir, dove nulla è scontato. Tuttavia l’autore resta sempre onesto con il lettore e lascia tracce, briciole di senso, niente è lasciato al caso. 

Vladimiro Bottone innesca bombe e chi ci cammina su viene irrimediabilmente colto dallo scoppio, barcollando sul baratro delle ambiguità e delle ambivalenze che accompagnano tutta la storia. Se ne esce destabilizzati. 

L’ambientazione storica degli anni della Repubblica di Salò è stata la prima scelta coraggiosa dell’autore, anni oscuri che fanno da sfondo a sentimenti oscuri, ambivalenti, ambigui. È come se una cortina fumosa stazionasse sulla Torino del ’44, una nebbia tossica rossastra, che ha il sapore ferroso del sangue, sangue versato, sangue oscuro, sangue ingrato, rancoroso, ambiguo, perturbante e nessuno se ne salva. Impregna ogni vita, ogni storia, ogni sentimento nella carne fino alle ossa.  Sono gli anni precari che precedono la fine del conflitto, tra una guerra civile senza fronte, guerriglie e terrorismo, deportazioni e resistenze.

Una giovane ebrea in fuga, bella, audace e colta, Myriam, incontra il commissario Troise, fascista napoletano che da poco si è trasferito a Torino per affari segreti. Dal loro incontro deflagra una storia tra Eros e Thanatos, un amore ambiguo dove vittima e carnefice si fondono e si confondono fino a svelare, in un gioco di specchi, tutta l’oscurità che preme in ognuno di loro. La stessa Myriam è una creatura inquieta, oscura, ambivalente, non la solita ebrea buonista da fiaba postbellica, non l’eroina che lava il mondo dai peccati, basta leggere le prime pagine per trovarsi invischiati nella carne e nel sangue di una giovane donna che morde la vita senza esclusione di colpi, nessun vittimismo, nessun ripensamento, nessun sacrificio.  Colpisce la consapevolezza di tutta l’oscurità che la abita, un’autocoscienza che pulsa nel suo sangue e la rende oscura.

 Accanto ai protagonisti una galleria di personaggi regola la temperatura emotiva del romanzo, è un’oscillazione involontaria di sentimenti ambivalenti in cui il lettore si trova immerso senza possibilità di fuga. Ne parlo con l’autore in un dialogo che approfondisce alcuni aspetti del romanzo.

-Vladimiro ti sembrerà poco ortodosso non aprire il nostro dialogo sui cosiddetti protagonisti ma con un personaggio marginale che mi ha colpito notevolmente, ossia Carlo.

Invece è una piacevole sorpresa perché di solito l’attenzione viene molto accentrata da Myriam e Troise, che obbiettivamente hanno una statura protagonistica e sono l’origine della storia, però Carlo è un personaggio importante. Quando viene messo in risalto sono particolarmente soddisfatto come autore perché era un personaggio sul quale puntavo.

– Carlo sembra incarnare la contraddizione e l’ambivalenza che guida tutta la narrazione. E’ un personaggio abissale, ctonio, legato alla profondità oscura della psiche, come oscuro è il suo sangue. Mi fa pensare a l’archetipo di Efesto, non solo per la sua zoppia, per essere considerato uno scarto, per la sua indole rancorosa, ma anche per la potenza delle pulsioni che lo portano a compiere il suo destino, per quanto discutibile sia il modo.

Questo sai cosa dimostra? Ed è veramente molto interessante. Come gli archetipi e i miti vivano in noi anche quando non ce ne accorgiamo. Ho dato a Carlo questa zoppia senza pensarci, per una necessità narrativa: un giovane uomo che sta terminando gli studi universitari doveva necessariamente arruolarsi nell’esercito della Repubblica di Salò. Carlo non viene arruolato per via della sua menomazione fisica. E qua miti e archetipi suggeriscono all’autore. Carlo è uno dei personaggi su cui il peso del sangue è più forte perché proviene da un sangue oscuro, di qui la sua sofferenza. Lui è il primo e l’unico della famiglia ad aver studiato. La sua è una famiglia proletaria, di operai, di anonimi e Carlo vuole riscattarsi a ogni scosto da questa mediocrità. Perciò si laurea e diventa uno studioso, mettendosi sulla scia di un importante storico dell’arte, il professor Alberganti.

– Questo riscatto a tutti i costi è l’unica certezza che Carlo possiede e non ammette smarrimenti o ripensamenti. Cosa ne deriva?

Negli anni dell’università Carlo si farà mantenere dalla polizia politica del regime e nello specifico da Troise, il quale nel momento in cui scoppia la guerra civile dal settembre del ’43 all’aprile del ’45 viene a chiedere qualcosa in cambio.

– Ed è proprio da questo momento in poi che Carlo rivela un’identità spiccatamente ambivalente. Un giovane uomo mosso da profonde contraddizioni e piegato dalla storia personale e schiacciato dalla grande storia. Carlo tradito o traditore? Vittima o carnefice?

Carlo deve saldare un debito, deve ora più che mai infiltrarsi in determinati ambienti per informare Troise di cosa bolle in pentola. Quindi sotto certi aspetti è anche una vittima oltre che colpevole di aver calpestato dei principi di moralità pur di riscattarsi dal peso del sangue. Ha tradito i suoi compagni di studi, altre persone, continua a tradire tutti…

-Ma non tradisce Emanuela.

Esatto! Questo è un punto centrale. Carlo mostra elementi di debolezza, per alcuni aspetti è anche sordido, ma nella sua natura si nasconde un frammento di diamante: la passione non ricambiata per Emanuela. Un personaggio che possiamo anche a ragione considerare negativo, ma che contempla un aspetto di positività, proprio perché la mia idea di personaggio è questa: il narratore deve mostrare qualcosa di non scontato, che il lettore non sospetta e non si aspetta. 

– Carlo è una chiave, una sintesi di quelle forze che muovono le grandi tragedie classiche. E tutta la storia ne è imbrattata. Agisce Eros, quella forza irrazionale che si manifesta all’improvviso, in un attimo che possiamo definire fatale, possiede la potenza del cambiamento. Così i personaggi si trovano di fronte a rovesciamenti, voragini profonde e baratri sconosciuti. Ad esempio l’incontro di Myriam e Troise avviene su questo terreno: attraverso uno sguardo si mette in moto l’irrazionale che non è irragionevole. È il tempo giusto del cambiamento. Troise non decide di salvare Myriam, di portarla a casa per uno scopo, non è forse mosso da una pulsione irrazionale, una forza sconosciuta che agisce in quell’attimo?

Sì e tutto si gioca, ed è quello che nella vita mi lascia veramente stupefatto, nei pochi secondi di uno sguardo. E’ incredibile! Troise probabilmente scorge in quello sguardo una paura ancestrale, un richiamo antico di salvezza, di sopravvivenza e anche la natura perturbante di Myriam. Evidentemente lui era pronto e qui hai ragione il tempo era giusto: alcune certezze politiche stavano crollando, la sua vita era in pericolo perché durante la guerra civile si poteva essere uccisi in qualunque momento. Troise è perciò un uomo precario che al momento giusto incontra lo sguardo giusto per una svolta radicale della sua esistenza.

– Quel momento che appare irrazionale ha quindi radici profonde, e lì che una luce si proietta su Troise, un’umanità inaspettata che allontana l’ombra dell’infamia, si arriva addirittura a simpatizzare per lui. Incredibile!

E questo è un mio divertimento. Il divertimento perverso dell’autore, quello di aver costruito un personaggio che ha certamente degli stigmi negativi molto forti, perché lui è un fascista convinto, pur non essendo un convinto antisemita. Troise, potenzialmente negativo, suscita una certa simpatia. La narrativa deve aggirare gli stereotipi, le idee correnti, il già visto e il già noto e mettere in crisi le aspettative, le idee e le opinioni del lettore. Se diamo al lettore esattamente quello che lui pensa, se gli diciamo ciò in cui egli crede e soddisfiamo tutte le sue aspettative gli avremo dato il famoso biberon di camomilla prima di andare a dormire. Invece bisogna metterlo in crisi. Troise  si dovrebbe odiare potenzialmente e anche con buone ragioni, di fatto sostiene il regime, perfino nella sua ultima e peggiore incarnazione, la Repubblica di Salò. Cosa c’è di peggio che essere un vassallo del nazismo? Eppure come individuo ti ha suscitato una crisi.

– E’ un uomo ed è proprio quella sua umanità, che è un punto di aggancio fortemente emotivo per il lettore. E allora accade che quello che può essere vero a livello generale cade sul piano individuale: il fascista sfuma davanti all’uomo e assume tante sfaccettature. 

E proprio quello di cui parla il narratore che si occupa di individui. Il compito della scrittura narrativa è proprio quello, non di confermarti nelle tue certezze, anche quando sono certezze valide e fondate, di incrinarle, se no, non avrebbe senso. Leggere sarebbe superfluo.

– Un’immagine di grande potere simbolico è sicuramente quella di Troise quando, nel conforto della casa che abita con Myriam, si spoglia dalla sua camicia nera e la fa cadere a terra. Solo con la canottiera addosso Myriam riesce ad abbandonarsi a lui. Ecco che un piccolo gesto, volutamente banale, è un seme, una traccia indelebile.

E posso dire per nulla casuale. Di me si potrà dire tutto, scrivo bene, scrivo male, c’è la tensione, non c’è, tutto quel che si vuole, ma nulla di ciò che scrivo è casuale. Cogli molto bene che in quel piccolo atto c’è tutto il dramma di Myriam e di Troise. Certamente lei non può amare un fascista, infatti lo tradisce politicamente legandosi alla resistenza. Lui è un nemico, quelli come lui hanno deportato le persone del suo sangue, però quando si spoglia diventa uomo e un uomo che la ama, la protegge, la desidera e che lei a sua volta desidera. Quindi c’è il dramma di essere amanti e nemici, la tensione estrema di questa coppia paradossale. Myriam non è una donna remissiva o passiva, lei è una donna indipendente che ha un’idea chiarissima di chi è amico e chi è nemico, e Troise si pone proprio sul confine tra chi si ama e chi si odia.

– Troise e Myriam sono due solitudini, due naufraghi della storia: Myriam “sola al cospetto della sua sopravvivenza”, porta su di sé uno stigma, lei è la sopravvissuta, quindi vive un incessante senso di colpa. Smarrita e reietta non è forse lo specchio di Troise?

In effetti, possono sembrare due personaggi solo antitetici ma sono legati fatalmente da alcuni aspetti. Uno è la solitudine, perché anche Troise è un uomo solo in un luogo che non gli appartiene ed è solo rispetto alla propria sopravvivenza, perché in una guerra civile, in cui non esiste un fronte, fatta di guerriglia, terrorismo, segreti, un uomo in borghese può uscire da un portone seguirti e darti un colpo alla nuca. Myriam e Troise sono due creature estremamente precarie per quanto riguarda l’esistenza. Certo più Myriam che Troise e poi sono due creature sole ed è questo che rende possibile il loro avvicinamento, al di là del desiderio e di ciò che forse anche io non conosco. A volte il testo ne sa più dell’autore. Come la tua lettura archetipica e mitologica di Carlo su cui sto riflettendo e che trovo molto interessante. L’archetipo che inconsciamente agisce sull’autore è un’osservazione su cui riflettere.

– Forse è il motivo per cui ho riconosciuto in Carlo un grande potenziale, come anche in un altro personaggio marginale, che trovo molto interessante, simbolo di grandi contraddizioni  e di cui mi piacerebbe raccontassi qualcosa, ossia l’ebreo che denuncia i suoi correligiosi. Una bella sfida psicologica per l’autore.

Hai perfettamente ragione è una figura che mi affascina e quasi mi soggioga, l’ebreo che odia se stesso. Per motivi strutturali non potevo dargli più spazio. Avrebbe meritato un romanzo a parte. Un personaggio così ingombrante, che ha così tanto da dire, che è così tanto contraddittorio, ci vorrebbe un libro dedicato.

– Anche la paura gioca un ruolo fondamentale: in Troise è emblematico come un ideale, quello della gloria, si manifesti come nevrosi, nella forma della paura di una morte anonima e ingloriosa.

L’incontro con Myriam e le circostanze estreme della guerra civile fanno capire a Troise che il senso della vita non è l’ossessione della gloria, ma la passione e l’amore.

– E’ non è forse l’amore che spegne le loro solitudini, anche se per brevi momenti? Se no Myriam se ne sarebbe andata, perché le occasioni non sono mancate.

Giustissimo. Myriam poteva andare via. Non accetta la proposta della resistenza perché bisogna prima catturare questo ebreo, questo delatore dei suoi correligionari, ma avrebbe potuto farlo anche se scappava. 

– Due solitudini che riescono in attimi di inaspettata intimità ad essere rifugio l’uno dell’altra, come se una bolla li tenesse fuori dalla grande storia. Ma nella casa di Troise c’è una porta chiusa a chiave, non è forse emblema della storia da tenere sotto chiave per non inquinare quell’oasi senza tempo che è spazio dei loro incontri?

Quando esce al mattino Troise torna a essere un nemico, porta gli abiti del nemico, non può essere amato se non è privo di abiti, ridotto alla sua intimità di essere umano. Dietro quella porta sono ammassati i beni degli ebrei che abitavano la casa confiscata. E’ storicamente vero, i beni venivano sequestrati e spesso dati a funzionari che si erano spostati da altre parti di Italia per mettersi al servizio presso la Repubblica di Salò. In questo caso ha un grande impatto simbolico: la porta è la storia, la porta sono gli altri ebrei, la porta è il senso di colpa che non bisogna aprire. Potrebbe irrompere e gravare sulla storia di Myriam e Troise. Nessuno dei due vuole aprirla e nessuno dei due tenta di aprirla. 

Daniela Marra

Vladimiro Bottone, nato a Napoli nel 1957, vive e lavora a Torino. Ha pubblicato i romanzi L’ospite della vita (1999, selezionato al Premio Strega 2000), Rebis (2002), giunto alla seconda edizione, Mozart in viaggio per Napoli (2003), Vicaria (2015) pubblicato da Rizzoli e Non c’ero mai stato (Neri Pozza, 2020). Collabora alle pagine culturali de Il Corriere del Mezzogiorno e de L’Indice dei libri del mese. Il suo ultimo romanzo uscito nel 2024 s’intitola “Il peso del sangue”, ed è edito da Solferino. 

Intervista a Massimo Polidoro su “La meraviglia del tutto” di Piero Angela edito da Mondadori, di Cristina Marra (foto di Ciro Orlandini)

Giornalista, scrittore, divulgatore scientifico e blogger, Massimo Polidoro è autore di tantissimi libri, è fondatore con Piero Angela del CICAP e in questo libro conversa col suo maestro sull’affascinante avventura nel mondo della conoscenza compiuta dal grande divulgatore scientifico.

Massimo benvenuto su Il randagio. Sei giornalista, scrittore, autore di teatro, bisogna avere una mente randagia per approcciarsi alla conoscenza? La scienza “cammina” con te in tutte le tue attività, quanto ti senti randagio e quanto lo era Piero Angela?

Ma certo, bisogna avere una mente curiosa. Quindi se per randagio intendiamo qualcuno che è molto curioso, senz’altro. Ci vuole tanta curiosità, tanto desiderio di scoprire cose che non si sanno, di farsi domande, di non accontentarsi magari di tante risposte, di voler andare a fondo delle cose, di non restare in superficie.

Sia Piero che io ci sentiamo moltissimo randagi, in questo senso di essere curiosi e di voler trovare risposte a tantissime domande che ci sono.

La meraviglia del tutto “sarà il libro della mia filosofia intesa come amore per la conoscenza” scrive Piero. Da una telefonata e le chiacchierate in cucina inizia questo viaggio nel suo pensiero sulla conoscenza?

Questo viaggio inizia proprio da una lunga amicizia che è andata avanti da quando avevo 18 anni per tutta la mia vita adulta e quindi sono stati 30 anni, 34 anni circa di amicizia molto stretta e di affetto che ci legava e quando appunto Piero mi ha proposto questo progetto per quando non ci fosse più stato è stata una grande emozione perché voleva condividere per la prima volta le sue idee su quello che aveva capito di tutti i suoi incontri con grandi menti straordinarie della scienza, della ricerca e sulla base di tutto quello che aveva capito provare a dare anche qualche risposta e esprimere anche le emozioni che lui prova di fronte a tante cose. Esprimere emozioni non è proprio la prima cosa che viene in mente quando si parla di scienza, ma in realtà proprio perché la scienza ci aiuta a capire e a trovare risposte a quelle che sono le domande più profonde degli esseri umani. Chi siamo? Da dove veniamo? Che cosa sarà di noi? Ecco, le emozioni sono ovviamente legate e non è un caso se traspaiano molto dal libro e l’ultima parola del libro proprio è l’emozione per eccellenza è amore. Ho fatto uno spoiler, mi spiace per chi non l’ha ancora letto, ma vedrà in quale contesto Piero Angela pronuncia questa parola.

Come si fa a conciliare conoscenza, razionalità e meraviglia?

Sono cose che si conciliano perfettamente perché se noi vogliamo conoscere, il primo moto, il primo movimento arriva proprio dalla meraviglia, dallo stupore, dalla sorpresa che si prova di fronte a tante cose straordinarie che ci circondano e che magari sembrano poco comprensibili. La razionalità è fondamentale a questo punto per capirle queste cose, perché se ci si basa solo sulla mente, sulle emozioni, sulle reazioni di pancia istintive non le si capisce, si trovano risposte rassicuranti, tentativi di risposte, ma non le si capisce e non si produce conoscenze. La razionalità che si concretizza in un metodo, quello della scienza, è fondamentale. 

Il libro è uno scrigno di sapere ma è anche una raccolta di aneddoti e regala pagine in cui emerge la grande umanità di Piero Angela. Com’è stato per te che lo hai conosciuto per trentacinque anni, raccogliere tutto questo?

È stato un bellissimo regalo che mi ha fatto, nel senso che io come appunto si può capire sono sempre stato consapevole di avere a fianco una persona incredibile, straordinaria, geniale, unica come effettivamente Piero Angela è stato. Quindi ogni volta che c’era l’occasione io mi annotavo, registravo, prendevo nota delle cose che diceva, delle sue osservazioni. Poi quando abbiamo deciso di fare questo libro, allora è iniziato un rapporto ancora più mirato all’obiettivo di fare questo libro. Quindi le domande che facevo era tutto quanto registrato e documentato e lui mi ha condiviso tante cose che si era appuntato, tanti materiali che voleva in qualche modo uscissero da queste nostre conversazioni. Per me è stato un regalo enorme essere coinvolto in questo progetto unico e straordinario. E poi è stato un secondo regalo il fatto di scriverlo, questo libro, quando lui purtroppo non c’era più. Perché io per un altro anno dalla sua scomparsa mi sono trovato a confrontarmi con la sua voce, i suoi pensieri la sua presenza in video per mettere ordine alle centinaia di ore di conversazioni che abbiamo avuto e ogni giorno mi trovavo accanto a lui.

La musica e la letteratura sono molto presenti nel libro che è una lunga chiacchierata tra te e Piero. Che rapporto aveva con i libri e la musica?

I libri erano fondamentali per le sue ricerche, leggeva poca narrativa anche se non gli dispiaceva la fantascienza,  come ad esempio i libri di Asimov o ”2001 odissea nello spazio” .  La musica è stata  la sua compagna di vita insieme alla scienza. Piero ha iniziato come pianista Jazz e poi ha intrapreso la sua carriera giornalistica. L’ultimo suo progetto era realizzare un disco di musica Jazz.

Io posso dire che quando l’ho conosciuto a casa sua mi ha fatto sentire qualcosa al pianoforte e l’ultima volta che ci siamo visti nel giugno del 2022 negli studi di SuperQuark , anche lì c’era sempre un pianoforte, mi ha fatto di nuovo sentire qualcosa. Quindi dall’inizio alla fine la musica è stata sempre presente. 

“La morte è una grande scocciatura” scrive qual era la sua “ricetta” il suo elisir?

Il suo elisir era vivere una vita piena e usarla al meglio per comprendere, per condividere per arricchire le altre persone , lui era consapevole della finitezza della nostra vita ma la viveva in modo naturale ma aveva la consapevolezza di aver dato il suo contributo.

Massimo Polidoro con Cristina Marra

Da grande divulgatore Piero Angela ha fatto entrare la scienza e il metodo scientifico nelle nostre case. Tu stai portando la scienza a teatro, quale sarà il prossimo appuntamento a teatro?

Il teatro è un ambito dove magari la scienza entra poco, è entrata poco nel passato, ma dove invece c’è un pubblico che è particolarmente attento e interessato. Il mio desiderio, come del resto di Piero, era quello di raggiungere più persone. Possibilmente parlando di scienza. Non tanto parlando delle curiosità scientifiche, ma parlando del metodo, della mentalità, di come funziona il pensiero scientifico, che è una delle più grandi conquiste della nostra specie. E quindi rendere le persone il più possibile consapevoli di che cos’è, di come funziona, di quali sono i vantaggi, di quali sono anche i limiti della scienza. È un po’ l’obiettivo di Piero e che io ovviamente ho fatto mio da sempre. Il teatro mi sembrava uno di quegli ambiti dove c’era spazio per portare un po’ di scienza. L’ho fatto quest’anno con una rassegna di incontri che si chiama La scatola di Archimede, dove incontravo ricercatrici, scienziati famosi, Gamba soprattutto,e raccontare il loro lavoro e il lavoro della ricerca nei loro ambiti. E naturalmente il titolo La scatola di Archimede era un altro omaggio a Piero perché aveva scritto 50 anni fa un libro che si chiamava La vasca di Archimede e questa rassegna riprende un po’ quell’idea di dove stiamo andando, dove sta andando il nostro mondo. E quindi ho fatto questi incontri così come scommessa, come prova per vedere come sarebbero andati e la risposta è stata estremamente positiva. Il teatro sempre pieno, tante persone che tornavano tutte le volte, partecipavano a questi incontri e volevano sentir parlare di scienza in questa maniera. Perché poi, come Piero ci ha insegnato, è una maniera che coniuga da una parte il rigore dei fatti scientifici, ma dall’altra anche l’accessibilità della comunicazione di chi sa parlare a un pubblico profano e lo sa fare magari in una maniera che è anche piacevole. Le serate a teatro erano davvero quasi serate teatrali che comprendevano la musica di Nadio Marenko, uno straordinario fisarmonicista, ha fatto gli ultimi dischi di Guccini, un grande produttore, un grande musicista in giro per tutto il mondo e che ogni sera a teatro aiutava a introdurre gli argomenti suonando le sue straordinarie musiche o anche dei pezzi famosi, conosciuti, però interpretati con la fisarmonica che crea un’atmosfera molto particolare. Poi c’erano i momenti di umorismo, insieme a Francesco Lancia e Chiara Galeazzi, che ci aiutavano a concludere la serata anche con un sorriso, anche avendo parlato di argomenti seri e a volte anche in qualche caso che riguardano crisi ed emergenze che il nostro pianeta sta e deve affrontare, la nostra specie soprattutto deve affrontare. Poi l’altro progetto che ho lanciato quest’anno e che tornerà nell’autunno e nell’inverno e inizierà addirittura a girare un po’ in tutta Italia, è uno spettacolo dedicato a Charles Darwin, che ho scritto insieme a Telmo Pievani, che tutti conosciamo, biologo, naturalista, evoluzionista e tra i massimi esperti della figura di Darwin. Portare Darwin a teatro, raccontare non solo come ha raggiunto la sua scoperta, che è affascinante, ma anche che cosa significa questa scoperta della teoria dell’evoluzione per tutti noi, per ciascuno di noi, è assolutamente fondamentale per capire il nostro posto nel mondo, nell’universo e risponde ancora una volta a quelle domande profonde che tutti noi ci facciamo, da dove veniamo e chi siamo e che cosa probabilmente sarà di noi. Quindi ritorna tutto, come vedi, è tutto legato. E non vedo l’ora di ritornare perché l’esperienza del teatro è molto emozionante, a differenza dei video che fai sui social. A differenza della televisione o dei libri che scrivi. Andare a teatro vuol dire presentare qualcosa in maniera diretta a un pubblico che ha delle reazioni istantanee e tu le vedi, le senti. Lo senti il pubblico di fronte alle cose che dici, le cose che fa, le reazioni che ha, gli applausi che poi arrivano alla fine, i commenti delle persone che ti avvicinano alla fine di uno spettacolo, magari emozionate per quello che hanno sentito, è veramente un’esperienza che non vedo l’ora di ripetere. 

Cristina Marra