Hannah Crafts: ‘’Memorie di una schiava’’ (Edizioni Clichy, 2025), di Claudio Musso

Questo è un libro che arriva a noi con un ritardo che fa rumore. 

Scritto a metà Ottocento da una donna afroamericana fuggita dalla schiavitù, il manoscritto rimane nascosto per oltre un secolo e mezzo, senza trovare lettori, senza ricevere ascolto. Nessuno lo pubblica o può confrontarsi con quella voce non mediata, non corretta da editori o accademie, che conserva intatto lo stupore, la rabbia, la grazia di chi ha molto vissuto e che poco ha potuto dire. 

Fino al 2002 quando, grazie alla scoperta di uno studioso, quelle pagine sono diventate leggibili. Particolarissima è la capacità di questa donna di osservare il mondo in modo obliquo, silenzioso, come se la comprensione più profonda non passasse per l’evidenza, ma per la vibrazione sotterranea delle cose. Lo sguardo di Hannah, la narratrice di queste pagine, è affinato dalla necessità: non potendo studiare sui libri, legge volti e gesti; non potendo esprimersi liberamente, impara a distinguere le intenzioni nei toni della voce, nei silenzi, nei movimenti impercettibili.

Questa voce scrive per testimoniare, per esistere, per usare finalmente parole che le sono sempre state negate. Scrive con urgenza, con lucidità, con il desiderio profondo di raccontare ciò che vede e ciò che intuisce, pur sapendo che forse nessuno avrebbe mai letto quelle pagine. Proprio questa condizione originaria, quella di un libro nato senza lettori, lo rende oggi così prezioso. Leggerlo significa colmare una mancanza, restituire spazio e ascolto a una coscienza silenziata.

Hannah non lavora nei campi, non conosce direttamente la brutalità delle piantagioni, ma la osserva da vicino. È una schiava “privilegiata”, se così si può dire: una cameriera personale, una donna di servizio al fianco di diverse padrone bianche, impiegata negli interni delle grandi case del Sud schiavista. Vive negli spazi del potere, ascolta conversazioni, osserva relazioni, impara a leggere i segni dell’autorità e della finzione morale. Dalla soglia su cui si trova, può vedere tutto ciò che si muove sopra e sotto di lei: la rigidità razziale, la fragilità dei rapporti, la crudeltà dissimulata dietro l’eleganza e il benessere dei bianchi. Vede anche le baracche dove vengono stipati gli altri schiavi, l’indigenza, la fatica. Non li vive, ma li intuisce, li respira. E ne porta il peso sulla pagina.

Colpisce il fatto che il vero oggetto del suo sguardo, e forse anche il vero protagonista del libro, sia il mondo bianco. ‘Memorie di una schiava’ più che un racconto, con risvolti autobiografici, della sofferenza nera è una radiografia della società bianca che si nutre di schiavi ma è schiava essa stessa, delle ricchezze, del pettegolezzo, delle carriere pubbliche, di una posizione a tutti i costi. Hannah osserva i suoi padroni con un’intelligenza silenziosa ma impietosa: ne coglie la generosità artefatta, ma anche la complicità con un sistema che considera lo schiavo come proprietà e oggetto. Crafts inoltre non descrive solo la schiavitù fisica, quella delle catene, dei bastoni, delle fughe. Ci mostra piuttosto un sistema che incide nell’interiorità: nel modo in cui una schiava deve reprimere pensieri, sogni, desideri. L’ordine imposto infatti richiede obbedienza ma anche l’abolizione del sé. Ci sono padroni che amano sondare il dolore fino alla soglia della tortura: non per sadismo gratuito, ma per esercitare un potere che si misura anche nella capacità di spegnere una coscienza, non solo un corpo. Anche i personaggi più “benevoli”, che pure ci sono, sono travolti da un generale ottundimento dei valori, da un’inerzia morale che svuota ogni gesto di fattiva umanità. Il risultato è un ritratto penetrante di una classe dominante che ama raccontarsi civile e cristiana, tra costituzioni e bibbie, ma pratica la disumanizzazione, anche di sé, come norma.

In questo paesaggio confuso, dove nulla è saldo e tutto può cambiare in base a un ordine o a un capriccio, l’unico punto fermo per Hannah resta la Bibbia anche quando il mondo a più riprese le volta le spalle. Le Sacre Scritture, lette di nascosto, sono la sua unica bussola morale. In assenza di affetti stabili, di protezione o di diritti, la fede diventa rifugio e àncora. La parola divina, a differenza di quella degli uomini, non tradisce, non viene piegata dal potere o almeno così spera. Questo legame profondo con il testo sacro attraversa tutto il romanzo, fornendo alla protagonista una lingua alternativa per pensare sé stessa, per resistere, per credere che la libertà sia possibile.

La scrittura di Hannah Crafts è viva, urgente, attraversata da una tensione continua tra espressione e contenimento. È una lingua nutrita da letture — si sentono echi di Dickens, delle sorelle Brontë e del gotico vittoriano — ma che conserva una tonalità personale, immediata, mai pretenziosa. Ci sono travestimenti, misteri, fughe, segreti: elementi che testimoniano una notevole consapevolezza narrativa, pur con qualche ingenuità strutturale. Non è un romanzo secondo i canoni estetici della forma compiuta, ma è un’opera di valore per la sua carica umana, politica, etica. La sua forza non sta nell’ambizione letteraria ma nella necessità con cui è stato scritto.

La recente traduzione italiana di Giada Diano e Giulia Facchini, curata con attenzione da Edizioni Clichy, restituisce con efficacia questa urgenza e questa misura, offrendo finalmente anche al pubblico italiano la possibilità di accostarsi a un testo dimenticato, rimasto troppo a lungo in silenzio. La lettura è sorprendentemente scorrevole, coinvolgente, mai pesante: è un testo che si legge con interesse genuino, con partecipazione crescente, anche grazie alla sua struttura narrativa che alterna osservazione sociale, introspezione e tensione drammatica.

Leggere oggi questo libro è un gesto di ascolto e di restituzione. Significa raccogliere una voce che ha parlato nel vuoto, e che continua a parlarci, con delicatezza ma anche con fermezza. Significa accettare di essere guardati da uno sguardo che ci analizza senza odio, ma senza illusioni. ‘Memorie di una schiava’ non è solo un documento storico o letterario: è una forma di resistenza silenziosa, un atto di scrittura che custodisce la dignità, la coscienza e la memoria di chi non ha mai avuto il diritto di raccontare. È un testo ‘in presa diretta’ che smaschera il vero male della schiavitù: non è solo nel corpo incatenato, ma nell’anima ferita, spezzata, ridotta al silenzio. Il peggio è vedersi negare perfino il diritto al desiderio. La libertà non è solo fuggire: è poter immaginare, poter sentire, poter volere. Per questo ‘Memorie di una schiava’ non è solo il racconto di una fuga, ma il tentativo di restituire dignità al pensiero stesso. Alla parola. Alla memoria. 

E ci mostra che persino una donna nata nella schiavitù, senza istruzione, può diventare cronista del suo tempo – in cui non solo una certa America ma anche tutto l’Occidente è sul banco degli imputati – , ritrattista impietosa e delicata, e narratrice capace di restituire luce, nonostante l’ombra.

Claudio Musso

Claudio Musso: Vive e respira Torino e condivide un paio di geni con la dea Partenope. Formazione umanistica, grande appassionato di germanistica, di storia e di identità. Di giorno si occupa di risorse umane e la sera, o quando leggere e leggersi chiama, di quelle librose. Onnivoro per natura, ma intollerante al glutine e alle mode del momento, raminga con umorismo tra un lavoro che ama e altre passioni quali il teatro, l’opera lirica, e ovviamente la lettura, collaborando anche con riviste letterarie. Papà di Nadir, il suo gatto, non riesce per più di 5 minuti a prendersi troppo sul serio ma prova a fare tutto con dedizione, di quelle che danno senso e colore alla vita.