Gunther Maria Carrasco: “Il verso di Ade” (Déclic edizioni Perugia), di Rita Mele

“AAA Editrice multidirezionale cerca opere ibride, sperimentali, devianti, inclassificabili; nuove forme, nuovi usi di forme date, costruzioni decostruzioni distruzioni, assenze di forma.”

All’annuncio non poteva che rispondere Gunther Maria Carrasco con Il verso di Ade. La sua opera multipersa risponde a pieno titolo e a mo’ di calco alla ricerca dell’editore déclic, Carlo Sperduti, romano naturalizzato perugino, già scrittore e libraio che alla fine del 2023, appena in tempo per lo scoccare dei suoi 40 anni, ha sentito un déclic nella sua mente e ha trovato una improvvisa soluzione per rispettare il patto fatto con sé stesso qualche anno prima: fondare la sua casa editrice.

Per scoprire chi è Gunther Maria Carrasco, uno degli autori ideali di Sperduti, abbiamo cominciato dalla sua presentazione sull’aletta e a pagina 99 del libro: è stato come cercare l’ago nel pagliaio o, peggio, cercare nel pagliaio non si sa che, scoprendo quanto più interessante è il pagliaio stesso. Gli interrogativi su chi sia veramente Gunther Maria Carrasco crescono nel numero e nella portata ad ogni parola che vorrebbe descriverlo e già lì, tra quelle righe, abbiamo scoperto che è proprio tutto avverato quello che al debutto di déclic a Perugia, Carlo Sperduti ha affermato e promesso “A me interessano libri che abbiano a che fare con il mezzo del linguaggio, prima di tutto con la scrittura solo dopo le tematiche. Le scritture ibride sono per me quelle più interessanti e privilegerò le opere che devieranno dai solchi già tracciati”. Quale inimmaginabile aderenza dal ritmo giambico tra Chi scrive (chi scrì-ve) e Chi edita (chi e-dì-ta). Gunther Maria Carrasco, per noi lettori randagi confidenzialmente GMC, si svela, pur custodendo il mistero, in una presentazione ufficiale ironica, surreale e metalinguistica, attraverso cui in filigrana ci fa scorgere che sta giocando con la sua identità e la sua relazione con il mondo letterario. Il ritratto che ci arriva è di un autore giovanissimo già influente nel panorama letterario “multiperso”, sperimentatore con un approccio al limite del convenzionale alla scrittura e all’editoria, dedicato e ambizioso nel suo lavoro artistico, che alle convenzioni e alla “normalità”, preferisce il fare esperienza del flusso di perpetua creatività e metamorfosi, e che la sua stessa identità abita nella sua opera al confine tra autore e personaggio. E sopra tutto ha deciso programmaticamente di non voler correre il rischio di “diventare un bambino vero” e che, per riuscire nell’intento, non desidera conformarsi alle aspettative o alle fasi “naturali” della crescita, vuole preservare la capacità di stupirsi, di giocare con le idee e di vedere il mondo con occhi nuovi, per rimanere in uno stato di continua sperimentazione e metamorfosi, evitando di cristallizzarsi in un’identità artistica che finirebbe, suo malgrado, col diventare adulta.

Il suo gioco con l’identità e l’autorialità a noi de Il Randagio è piaciuto e dopo un leggero senso di smarrimento e spaesamento letterario iniziale ci siamo messi in cammino fianco a fianco con l’autore e i suoi personaggi, attraversando metriche poetiche e stili di prosa per multiperderci, affidati come bambini alla nostra guida delle meraviglie e degli inciampi linguistici, come in una odissea interiore, la sua e dei suoi personaggi, ma anche la nostra. Ci siamo avventurati nel suo labirinto e ne siamo usciti godendo e soffrendo, percorrendone le volute linguistiche del mistero e della frammentazione. Fidarsi senza mai del tutto poter escludere cambi di registro e di scena, senza neanche poter contare sulle ancore di un indice, di titoli e di capitoli, abbiamo sentito crescere l’attrazione per GMC e per i suoi controluce emotivi. Sembrerà oramai evidente per chi ci sta leggendo che non è dato dire di più senza rompere l’incantesimo riservato ai lettori integrali dell’opera. Motivo sacrosanto per proseguire in questa nostra recensione volatile che evaporando lasci intatta l’esperienza a chi sceglierà di non perderla. Vogliamo dirvelo ancora che si tratta di un’esperienza letteraria radicale, un viaggio in un territorio in cui le mappe narrative convenzionali si polverizzano in favore di un’audacia linguistica al limite del perturbante. Racconto, poesia, saggio, l’opera di GMC si manifesta come un prosimetro ibrido e metamorfico, un organismo testuale uno e trino che respira tra la rarefazione di una prosa in cui riecheggiano silenzi, sussurri di sincopi di versi, spezzati come relitti di un naufragio semantico, e una terza forma, sfuggente e inafferrabile, che gioca con i confini tra i generi, quasi una lingua aliena in cui familiare e ignoto si fondono.

L’Ade di Carrasco ci avvolge e ci richiama come un Ade interiore, un regno di ombre psichiche e frammenti di coscienza dove le voci si sovrappongono in uno smarrimento polifonico e i significati di versi e prosa si increspano sulla superficie opaca di un inconscio collettivo e individuale. Usciti dall’Ade e grazie alla storia di Ade possiamo dire a cuore aperto che gli inciampi ricorrenti nella frantumazione deliberata del verso e della prosa in cui ci siamo imbattuti è tutt’altro che una sequenza di nichilismo stilistico, ma piuttosto la dissezione meticolosa della realtà percepita come una storia intrinsecamente discontinua, un tentativo di cartografare la schizotipia del pensiero contemporaneo e la precaria consistenza del reale.

Tra le pieghe del testo si insinua un’irriverenza corrosiva mista a scetticismo che stordisce le fondamenta delle narrazioni lineari e delle granitiche certezze. Dalla scrittura emergono biografie senza soggetto, fantasmi verbali che in poche righe costringono all’esperienza del vedo e non vedo l’esistenza di personaggi che potrebbero essere oltre il nome assegnato e viceversa e che lasciando dietro di sé non una storia come ci aspetteremmo, ma l’eco dolente di una solitudine di specie e di genere e di un’incomunicabilità radicale. Il linguaggio si fa viscerale e straniante, plasmando immagini di un grottesco surreale, come l’indimenticabile dettaglio dei “baffetti lisci lisci, che potrebbero anche essere acciughe dipinte”, che ci proietta in un universo dove il confine tra l’umano e l’oggetto, tra il familiare e l’aberrante, si fa pericolosamente labile. E dove ci è sembrato di essere cascati nel Rabbit Hole delle meraviglie con Alice.

La metrica de “Il verso di Ade” è una voluta assenza di sistema, un ritmo sotterraneo e imprevedibile sintonizzato con le fibrillazioni di una mente che sembra interrogare i propri stessi processi. È una meta-metrica o, se preferiamo, una anti-metrica funzionale a una poetica del frammento e della discontinuità, dove il silenzio tra le parole acquista un peso semantico pari a quello espresso.

Il titolo stesso, Il verso di Ade, si stratifica di significati: un’eco proveniente dalle profondità dell’inconscio, un frammento di un linguaggio perduto, forse una neanche tanto sottile pretesa di dominare il mistero attraverso la parola. E in questo regno liminale, Carrasco sembra condurre una vivisezione del linguaggio, smontandone le convenzioni per rivelarne le fragilità e le potenzialità inesplorate, con un intellettualismo acuto e disincantato.

L’irruzione di dinamiche relazionali intime, attraverso il legame di Pardo e la complessità emotiva di No, oscillante tra il desiderio di connessione e un richiamo selvaggio alla solitudine, potrebbero suggerire un altro motivo di spiazzamento per i lettori: una sensibilità femminile o una prospettiva di genere peculiare. La scelta del nome No, con la sua assertività e il suo potenziale rifiuto di convenzioni, letto in controluce, potrebbe risuonare con un percorso di ridefinizione identitaria femminile. Anche la dinamica di accettazione e affetto tra figure femminili, come il rapporto tra No e Alto, pur non essendo esclusiva, potrebbe arricchire questa ipotesi.

Se Gunther Maria Carrasco fosse una donna – ci siamo autorizzati a pensare in più momenti, Il verso di Ade acquisterebbe ulteriori strati di lettura. L’esplorazione di un linguaggio frammentato e di identità fluide potrebbe dialogare in modo ancora più profondo con le questioni di genere e con la decostruzione di categorie binarie. 

La rarefazione del senso e la difficoltà comunicativa, filtrate attraverso una sensibilità femminile, potrebbero assumere sfumature inedite, legate a esperienze storicamente marginalizzate o silenziate. Purtuttavia, stordimento e spaesamento a parte, non dimentichiamo che la bravura di uno scrittore trascende il genere, e l’opera di GMC ce lo conferma primariamente per la sua forza intrinseca e la sua capacità di risuonare con il lettore, indipendentemente dalla sua identità. 

La possibilità che Gunther Maria Carrasco sia una donna aggiunge innegabilmente un ulteriore elemento di mistero e di potenziale ricchezza interpretativa che, per la sua audace singolarità, vi invitiamo a scoprire e sperimentare.

Il doppio finale, con il dialogo crepuscolare tra Ade e babbo Pardo e la loro progressiva consunzione nel vuoto dello spazio bianco e delle interpunzioni, risuona come un requiem sussurrato per la finitezza dell’essere e per l’illusione della permanenza. È un addio che si fa eco nel silenzio, un invito a contemplare i vuoti esistenziali con una quieta accettazione.

Il verso di Ade non è un’opera per cuori pigri o menti in cerca di facili consolazioni. È una sfida intellettuale ed emotiva, un’immersione in un flusso di coscienza destrutturato che richiede al lettore una partecipazione attiva e una disponibilità a navigare nell’ambiguità. Unica e coraggiosa, è una sperimentazione letteraria che si sottrae alle facili etichette e che, proprio nella sua frammentazione e nel suo mistero, rivela una potente e inquietante coerenza interiore. Un libro che non si legge, ma che si esperisce come un’eco lontana proveniente dalle profondità del linguaggio e dell’anima.

Rita Mele

Rita Mele: barese, ma da molti anni vive a Bolzano. Giornalista, giurista, formatrice, psicologa, insegnante di yoga. Progetti per il futuro: ballare