Fratellino di Amets Arzallus Antia e Ibrahim Balde, trad. di Roberta Gozzi (Feltrinelli), di Amedeo Borzillo

Per quanto le storie di migranti e delle traversie subite ci siano ormai tristemente familiari,
leggere questo libro ci fa capire quanto siamo lontani dal comprendere davvero i drammi e
le avversità che migliaia di ragazzi africani si trovano a dover vivere e superare, in una
lotta che non riguarda, come pensiamo, solo la loro sopravvivenza ma investe sentimenti,
costumi, sensibilità e affetti familiari che, pur stravolti, resistono e nella sofferenza
sopravvivono.

“Fratellino” è un libro scritto ad una voce e 2 mani, nel senso che è una vera e propria
dettatura della sua storia di migrante da parte di Ibrahim ad un giornalista basco, Amets
Arzallus Antia, in un linguaggio che diviene un “parlato scritto” che proprio per questo
motivo dona autenticità e fa vivere per davvero, con particolare compenetrazione,
commozione e turbamento la lettura.

L’autore è un giornalista francese di lingua basca, volontario in una associazione di
assistenza migranti, e non a caso scrive poesie, perché questo libro si arricchisce di una
narrazione delicata e profonda di un viaggio dalla Guinea al Mediterraneo con mille tappe,
mille avventure e mille volte il rischio di morire del nostro Ibrahim, alla disperata ricerca del
suo fratellino anche lui partito per il viaggio della speranza. Tutto raccontato facendo
emergere la profonda umanità del protagonista, la sua specificità e ricchezza personale,
che contrasta con la visione corrente che tutti un po’ abbiamo di omologare i migranti
disumanizzandone le specifiche peculiarità.

Ibrahim ci sorprende e commuove per la sua caparbietà nel proseguire un cammino di
migliaia di chilometri, cambiando mille mestieri prima per sopravvivere e giungere oltre il
Mediterraneo per poter aiutare la famiglia, poi alla disperata ricerca del suo fratellino.
Ibrahim è raccontato con le sue parole, in un linguaggio che si arricchisce di termini non
tradotti propri dei dialetti e delle lingue che il colonialismo non è riuscito a cancellare, e per
questo rende più intensa e partecipata la lettura degli incontri di varia umanità che si
succedono nel suo viaggio verso il Mediterraneo.

Violenza ma anche aiuto, sopraffazione ma anche solidarietà, torture ma anche
accoglienza, si susseguono nelle numerose tappe che per mesi rallentano il percorso di
avvicinamento al mare ed al riscatto del sogno di un lavoro da camionista che possa
aiutare quel che resta della sua famiglia.

Ibrahim ci racconta quindi ,della sua giovinezza negata con la determinazione di un adulto,
o se vogliamo di un ragazzino assunto la ruolo di capofamiglia che sente e vive la
responsabilità con una forza interiore che proviene dalla nostalgia e dall’affetto per la sua
famiglia.

L’autore Amets Arzallus Antia ha il merito di averla raccontata “insieme” a Ibrahim,
donando alla sua storia poesia e sentimento.

Amedeo Borzillo

Conversazione con Agostino Ragosta, di Floriana Narciso

Agostino Ragosta, in arte Nino, libraio e intellettuale di lunghissimo corso, pietra miliare della
prima sede storica della libreria Feltrinelli napoletana, la mitica Feltrinelli di Via San
Tommaso d’Aquino, ha deciso di passare saltuariamente dall’altro lato della barricata e
regalarci piccole perle di scrittura.
Ha metaforicamente “imbracciato” la tastiera del suo portatile ed ha incominciato a
raccontare la sua visione della vita attraverso dei racconti brevi, di cui “L’ingenua allegria” è il
terzo nato, partorito dalla sua fervida fantasia.

Incontro Nino, di cui mi onoro dell’amicizia, al tavolino di un caffè, nella dinamica piazza Borsa,
in una mattinata napoletana baciata dal tiepido sole di questo inverno incredibilmente mite.
Il suo sorriso mi abbraccia affettuoso, la sua presenza riempie la scena, il suo entusiasmo
contagia immediatamente e mi fa venire voglia, come sempre quando lo incontro, di essere più
ottimista e di buttarmi ogni malinconia alle spalle.
Nino Ragosta è un uomo che ha attraversato la vita riflettendo, intuendo, comprendendo e la
sua leggerezza è una scelta, il modo in cui ha deciso di affrontare i suoi giorni.
La sua professione, quella di libraio, è anche la sua missione, come testimone della conoscenza
e divulgatore di coscienza, scegliendo di essere un facilitatore di rapporti umani, in un’epoca in
cui è facile dimenticarsene, arroccandosi in solitudini fintamente popolate da amicizie da
tastiera.
Ho letto il suo ultimo nato, il racconto ad episodi “L’ingenua allegria”, tutto d’un fiato e l’ho
immediatamente identificato con l’autore stesso, per come appare appena lo si incontra:
fresco, frizzante, dissetante, arguto, ironico e, a tratti, timidamente profondo.
È un libro denso e felice, in cui, a mio avviso, ogni capitolo contiene una frase chiave, iconica
ed esaustiva del pensiero ispiratore di ciascun episodio della raccolta.

Nino, tu che per tanti anni sei stato un operatore importante della cultura libraria partenopea, e addirittura di recente hai fondato insieme ai tuoi figli una casa editrice indipendente, la Martin Eden, con varie collane, come mai hai sentito il desiderio di diventare a tua volta scrittore?

Dopo tanti anni trascorsi immerso nelle parole, e nella lettura di tanti testi che, per promuovere, naturalmente leggevo, un mare di pensieri che mi si affollavano alla mente, unitamente al senso del tempo che passava e al disincanto legato all’età, hanno bussato alla mia porta, chiedendo di essere liberati. Mi sono seduto alla tastiera del PC e tutte quelle parole, quelle virgole, quei punti esclamativi ed interrogativi si sono organizzati in frasi di senso compiuto.

Come mai hai deciso di utilizzare la formula del racconto invece di quella del
romanzo?

Vedi, io ho sempre amato la mia professione, in cui mi immergevo e mi immergo ancora
adesso con tutto me stesso, perché ho sempre amato leggere e, come molti grandi lettori, ho
sempre avuto il desiderio di scrivere. Mi piace raccontare storie ma sono uno dal passo breve.
Da qui, la decisione di adottare il racconto come strumento narrativo di elezione.

Levami una curiosità: uno dei personaggi ricorrenti del tuo libro, il dottor Aurelio
Ripamonti, è uno psicanalista ed è una figura molto godibile e fondamentale per lo
svolgimento e la risoluzione di molte delle vicende umane dei personaggi narrati. Chi si
nasconde dietro questo personaggio e, soprattutto, esiste davvero?

Sì. Il Ripamonti è un personaggio reale. È un grande psicanalista lacaniano, bibliofilo
accanito, che ho il piacere di conoscere personalmente e che mi ha aiutato in un momento
difficile della mia vita. È egli stesso un personaggio quasi letterario e mi è bastato quasi soltanto descriverlo. Infatti è un enorme conoscitore e collezionista di libri e ogni volta che mi recavo da lui per le sedute di psicanalisi, in cambio mi chiedeva solo di aiutarlo a catalogare la sua enorme biblioteca. Quando ho iniziato scrivere questo libro, mi è immediatamente venuto in mente e ho deciso di dedicargli un ruolo non banale.

È stato davvero lui a scrivere la prefazione, nella quale, tra l’altro minaccia di
denunciarti per aver utilizzato il suo nome senza permesso, oppure è frutto di una tua
invenzione letteraria?

No, no. La ha scritta davvero lui e, per mia fortuna, la minaccia di azioni legali nei miei
confronti era solo uno gioco tra di noi, che siamo tuttora amici.

Dietro i protagonisti dei tuoi racconti si celano persone reali?

Nella maggior parte dei casi, si tratta di persone che conosco davvero. Forse qualcuno è
anche in grado di riconoscersi. Alcuni sono addirittura amici. Ogni scrittore, quando scrive, in
fondo parla sempre di sé e parte da quello che gli è familiare, anche quando non si direbbe.

A tal proposito, i tuoi personaggi frequentano un luogo ben preciso del Vomero, quartiere di elezione della medio-alta borghesia napoletana, situato su una delle colline della città, i giardinetti di Via Ruoppolo. Qual è la ragione di questa ambientazione così precisa? Si tratta di una tua madeleine poco proustiana e molto vomerese?

Sono molto legato ai giardinetti di via Ruoppolo perché mi ricordano momenti sereni della
mia giovinezza, che tuttora considero come la mia età più bella, e ho voluto omaggiare il mio
quartiere, anche se alcune cose sono un po’ cambiate in quei luoghi, sperando di ingentilire il
tutto con il dolce filtro dei ricordi.

Colgo una vena un po’ nostalgica nelle tue considerazioni. Che rapporto hai con il
tempo che passa e quanto ha influito nella tua decisione di incominciare a scrivere?

Hai colto in pieno una mia sottile vena malinconica e inquieta. Il Fato, il destino ed essere
in sua balia mi da’ ansia. Infatti, all’inizio del libro narro un episodio che mi è capitato
realmente e che mi ha fatto porre delle domande importanti sulla necessità, per ognuno di noi
giunto nel mezzo del cammin di nostra vita, di cominciare a dare il giusto valore al trascorrere
del tempo e all’uso che ne facciamo. Quando si è giovani ci si percepisce senza tempo,
proiettati in un eterno futuro in cui si spreca una quantità esponenziale di anni, mesi, giorni,
ore minuti, secondi. Con il disincanto dell’età matura, si ha la necessità, come afferma uno dei protagonisti del mio libro, di uccidere metaforicamente il passato, imparando a gestire la preoccupazione per un futuro che ci sembra sempre più breve e pieno di incognite, vivendo appieno il presente

Qual è quindi il tuo consiglio per esorcizzare l’ansia del futuro e l’imprevedibilità del
Fato?

Io ho cercato e trovato il mio equilibrio nell’esorcizzare il passato attraverso la
scrittura, ma si può dire che sia un processo sempre in divenire e che ognuno poi trova il suo
modo. Anche viaggiare con la mente, se non fisicamente, è un bel modo di affrontare
malinconie e paure e scrivere è il miglior modo di viaggiare.

Chi è il Grana Padano? A chi si è ispirato, con questa singolare metafora, Nino Ragosta?

Gli ultimi due capitoli del libro sono un po’ ironici e critici sul mondo dell’ambiente
letterario partenopeo, che mi permetto di prendere in giro bonariamente e anche un po’
sarcasticamente, utilizzando un pizzico di ironia salvifica che attualmente sembra mancare,
specialmente in ambienti in cui lo spirito critico dovrebbe abbondare.
In queste circostanze, il Parmigiano Reggiano – formaggio totalmente blasonato- è
esemplificazione giocosa di coloro che, senza alcun dubbio, con il petto tronfio, credono di
essere superiori a tutto e tutti e mai questionabili.
Fortunatamente esiste, a fare da eroico contrappunto, il Grana Padano – formaggio onesto e di
qualità – come colui che ha l’ardire di opporsi al dogma assoluto del Grana, dando valore al
dialogo e creando opportunità di confronto altrimenti inesistenti.

Ringraziando Nino Ragosta per la interessante conversazione, invito a leggere questo piccolo
gioiellino che potrebbe, citando uno dei protagonisti, “farci perdere a pochi chilometri da casa
nei pressi di una strada che percorrevo da una vita” per poi farci ritrovare “irriverenti su
tutto e su tutti perché il nostro futuro coincide con il nostro presente e questo ci riempie di
ottimismo e riusciamo a sorridere e poi a ridere immersi in un’ingenua allegria.”
Buona lettura.

Floriana Narciso