Perdersi tra le pagine di un libro, farsi prendere da una storia, dai suoi personaggi e dalle vicende di cui sono protagonisti.
Di più. Assaporare il testo, parola per parola, seguirne il ritmo come fosse una musica di sottofondo, che ci accompagna pagina dopo pagina.
Credo che chi ama leggere mi capisca: sono le parole a raggrumarsi in frasi che ci accompagnano, capoverso dopo capoverso, fino all’ultimo atto, nel quale si scioglie la trama e i protagonisti ci lasciano andare.
E se queste parole e queste frasi, originariamente, non fossero nella nostra lingua? Chissà quanta bellezza andrebbe persa, quante emozioni ci sarebbero precluse.
Ed è qui che arriva, provvidenziale, il traduttore che, con la sua fatica, ci permette di aprire scrigni e scoprire innumerevoli tesori ai quali attingere a piene mani e che, a volte, ci accompagneranno per sempre, incidendo si nella nostra memoria e cambiando, perché no, anche la nostra vita.
Di questo, e di molto altro, parliamo con Elvira Grassi, traduttrice letteraria con una predilezione per la narrativa irlandese. Nata ad Ancona, Elvira si trasferisce a Roma dove, nel 2005 fonda, insieme a Leonardo G. Luccone, lo studio editoriale Oblique. Ma lasciamo a lei la parola.

Cosa l’ha portata alla traduzione?
L’amore per la lettura. Ho lavorato parecchi anni in editoria – in vari ruoli – prima di dedicarmi alla traduzione letteraria con una certa costanza. La mia palestra principale è stata la revisione delle traduzioni altrui, è lì che ho capito che la traduzione era l’ambito editoriale in cui avrei voluto dedicare gran parte delle mie giornate. Tradurre è la forma più profonda di lettura, quando traduci capisci com’è fatto veramente un testo, ne conosci alla perfezione ogni elemento, ti immergi e indugi in quella lingua e anche in tutto ciò che non è espresso. Sono partita dalla lettura e sono arrivata alla lettura.
Quali sono le sfide che affronta ad ogni pagina?
La sfida principale è rispettare la forza espressiva dell’autore. Restituire la stessa qualità di scrittura, rendere il timbro, il registro, la cadenza, la scorrevolezza o gli attriti, la musicalità o le stonature del testo originale; fare attenzione alle specificità linguistiche e culturali e alla coerenza interna. Poi ogni pagina presenta problemi puntuali – giochi di parole, scarti linguistici, espressioni gergali o dialettali, tecnicismi etc. – ma questi si risolvono più o meno facilmente, facendo ricerche, studiando, utilizzando i tantissimi strumenti che abbiamo a disposizione. La sfida è la resa globale.
Quanto è importante conoscere, oltre alla lingua, il milieu culturale dell’autore e il mondo in cui si trova a vivere?
La cultura e il mondo in cui vive l’autore ne plasmano la scrittura. In genere prima di iniziare a tradurre un’opera, dopo averla letta, faccio una serie di ricerche sull’autore, leggo interviste, la rassegna stampa estera, cerco di capire quali sono le sue influenze, le letture: tutto materiale che mi aiuta a capire l’universo linguistico e culturale dell’autore, la sua visione letteraria, e che mi permette di tradurre meglio. L’autrice più complessa che ho affrontato finora è Anna Burns, la prima nordirlandese a vincere il Booker Prize con “Milkman” (da noi uscito per Keller), e non avrei saputo tradurla se non mi fossi prima informata sul contesto politico e sociale che ha segnato la sua giovinezza, sull’impatto che hanno avuto i Troubles nella sua quotidianità. Il suo mondo è quello traumatico del conflitto politico-religioso, e la sua scrittura lo rispecchia.
Come si comporta nella traduzione di una lingua che afferisce a contesti profondamente differenti l’uno dall’altro (penso, ad esempio, all’inglese che si parla in Inghilterra e a quello che si parla negli Stati Uniti, o al tedesco della Germania e a quello dell’Austria)?
L’italiano ha una complessità e vivacità linguistica che ci permette di rendere in maniera appropriata e credibile qualunque cosa. Mi è capitato spesso di tradurre il dialetto nordirlandese, che è quasi incomprensibile a una prima lettura, molto fisico, pieno di contrazioni, di strutture sintattiche inconsuete, di parole mai sentite, molto sonore, direi “carnose”, e in quei casi ho cercato di lavorare molto sul lessico italiano attingendo al parlato, ad alcuni regionalismi ormai entrati nell’uso (evitando comunque i dialetti) e di movimentare la prosa, il fraseggio, di sporcarlo. Stesso approccio – ma con risultati diversi ovviamente – ho usato quando ho dovuto tradurre l’inglese di un autore canadese nato a Trinidad, Ian Williams, o di una scrittrice americana nera, Angela Flournoy, che fa grande uso di slang. Credo sia il testo stesso – in qualunque tipo di lingua sia scritto – a dirti come tradurlo, a far uscire la parte di te più intonata a quella lingua.
E di quegli scrittori che scelgono una lingua di elezione e non quella nativa (ad esempio Nabokov), o che sono essi stessi traduttori (ad esempio Murakami)?
Ho tradotto un romanzo scritto in inglese da un’autrice romena, Sophie van Llewyn, e uno da un’autrice thailandese, Pim Wangtechawat. Due brave scrittrici contemporanee che hanno in comune uno stile particolare, evocativo ma spoglio, che costruiscono le frasi in maniera poco convenzionale, usano una punteggiatura non standard, e lavorano molto per immagini e metafore più che per ricerca e ricchezza lessicale. L’effetto è bello, perché si sentono tutti gli stridori della non lingua materna, e quello che ho cercato di fare è stato trovare nel mio bagaglio linguistico le stesse ruvidezze e di contenere le parole. Mi piace il miscuglio, mi piace leggere autori che scrivono per riprodurre la voce che hanno in testa e non per esibire una discutibile bella forma. Cosa ne penso degli autori-traduttori? Non si può generalizzare, ma il rischio di invasione di campo c’è sempre, e di esempi – passati e recenti – ne abbiamo a volontà, fatto sta che la traduzione rimane una eccellente palestra di misura e quindi di scrittura.
Cosa ne pensa del famoso detto di Bertrand: “Le traduzioni sono come le donne. Quando sono belle non sono fedeli, e quando sono fedeli non sono belle”?
Fedeltà è una parola abusata in traduzione e questa immagine mi piace poco. Le traduzioni infedeli sono davvero belle? La traduzione è sì un lavoro autoriale, ma non ci si può dimenticare che non abbiamo scritto noi quel testo.
Più che di fedeltà parlerei di adesione – espressiva, ritmica, culturale. Aderire al testo originale, rimanere dentro la misura della scrittura che si ha di fronte, qualunque essa sia (articolata e dirompente o minimale e frantumata), senza snaturarla o dire meglio o di più, per me è questa la bellezza.
E per finire, qual è il libro più ostico che ha tradotto?
Probabilmente quello che sto traducendo ora, una novella di Anna Burns, surreale, allegorica, criptica, ironica, una parodia del mondo dei supereroi. Un contesto inedito per lei, e direi anche per me. Quello che mi aiuta è ancorarmi al suo stile ricorsivo, serpeggiante e battente che ormai mi è familiare.
Quando leggerete un libro straniero, date un’occhiata a chi l’ha tradotto, e ricordatevi l’immenso lavoro che c’è dietro: persone come Elvira Grassi, che ringraziamo per la sua disponibilità, che operano la magia di restituirci, in una lingua diversa dall’originale, le atmosfere, i dialoghi, le vicende – in una parola il milieu – di una storia, proprio il suo autore come l’aveva pensata
Silvia Lanzi

Silvia Lanzi: Ho conseguito la maturità magistrale, e mi sono laureata in materie letterarie presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano con tesi riguardante l’alto medioevo. Ho collaborato per anni con il settimanale “Nuovo Torrazzo” di Crema occupandomi della stesura articoli di vario genere (soprattutto critica letteraria e teatrale e cronaca di eventi quali vernissage et similia). Collaboro con il sito gionata.org in qualità di traduttrice dall’inglese e scrivendo articoli. Sono autrice di due libri: “Libera di volare” (Kimerik, 2006) e “Coincidenze” (Boopen, 2010). Lettrice onnivora – alterno saggi (psicologia, storia, filosofia e arte) e narrativa (soprattutto anglo-americana e scandinava).

