Il napoletano è una lingua, ma purtroppo non s’insegna a scuola. Si parla a orecchio: quasi nessuno anche all’ombra del Vesuvio sa scriverlo correttamente. C’è un patrimonio di parole, di detti, di saggezze che col tempo sta scomparendo. Simona Iaccio e Stefano Russo hanno recentemente pubblicato un libretto adorabile dal titolo “Il tesoro della lingua napoletana”, che, lungi dall’avere “pretese filologiche o etimologiche”, ci propone con leggerezza una piccola antologia di cento tra espressioni, modi di dire, proverbi, con tanto di traduzione in italiano. Il volumetto ha inoltre il grande pregio di avere una grafica deliziosa e soprattutto di fornire le situazioni concrete in cui quelle frasi possono essere usate. In molte voci gli indigeni riconosceranno, tra un sorriso e un pizzico di nostalgia, la lingua dei genitori e dei nonni; i forestieri, dal canto loro, apprezzandone la ricchezza e la musicalità, avranno tanto da imparare su Napoli e la sua cultura. Personalmente l’ho regalato ai miei consuoceri comaschi, che credo abbiano apprezzato, visto che ogni tanto, nel corso di una telefonata o di una videochiamata, provano a ripeterne qualche battuta. Noi del Randagio, per darvi un’idea, abbiamo quindi deciso di proporvi una prima scheda, nella speranza che gli autori ci consentano in futuro di proporvene altre. Per dirla con Iaccio e Russo: “so’ cicere si se coceno” (sono ceci se si cuociono), ovvero “se son rose fioriranno”.
gigi agnano
C’è una Napoli che canta pure quando piange, che balla anche se ha le tasche vuote, che ride di sé stessa prima che lo facciano gli altri. È in quella Napoli, che nasce il detto “Core cuntento â Loggia”, una delle espressioni più musicali e affettuose del repertorio partenopeo.
Ma chi è, davvero, questo cuore contento alla Loggia?
La Loggia di Genova era una zona franca del porto, concessa dalla città di Napoli alla Repubblica Marinara di Genova, dove commercianti, marinai e facchini si mescolavano ogni giorno.
In quel crocevia affollato e rumoroso, secondo la tradizione popolare, viveva un uomo sempre allegro, un facchino che non si lamentava mai, anche quando caricava sacchi pesanti o si trovava senza lavoro. La gente cominciò a chiamarlo così: “core cuntento â Loggia”, il cuore contento della Loggia. E da lì, la frase si diffuse.
Con il tempo, il detto ha assunto un significato più ampio: indica chi affronta la vita con leggerezza e buon umore, anche quando le condizioni non sono ideali. Non è superficialità, ma uno stile di sopravvivenza: l’arte napoletana di alleggerire il peso delle cose con un sorriso.
Dire che qualcuno è “core cuntento â Loggia” può essere anche una presa in giro, bonaria o pungente, se la persona in questione è un po’ troppo spensierata, magari fuori contesto, leggera fino all’ingenuità.
Come spesso accade nella lingua napoletana, la frase contiene un sorriso e una stoccata insieme. Perché il napoletano non giudica mai solo con le parole: ci mette dentro un tono, uno sguardo, un gesto. È lingua viva, che vibra sul confine tra ironia e affetto.
Nel cuore di questo detto – come di molti altri raccolti nel libro Il Tesoro della Lingua Napoletana – c’è un’eredità viva e affettuosa: quella di due donne chiamate Teresa, la mamma di Simona e la nonna di Stefano. Due figlie del popolo che “per ogni situazione avevano un detto, una frase, un’espressione che calzava alla perfezione”.
Simona Iaccio e Stefano Russo
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Buon divertimento!