Antonello Di Pinto: “Caravaggio. Il portale per arrivare a Dio” (Curcio, 2024), di Elena Realino

Ma cos’è la felicità? Sono mai stato felice io? Sarò mai felice, un giorno? Se è quella sensazione boriosa che provo quando dipingo, allora lo sono, ma solo in parte, perché poi, quando termino un quadro cado di nuovo nelle fauci della tristezza. . .

Per gli appassionati dell’arte e della pittura questo di Antonello Di Pinto è un romanzo imperdibile: Caravaggio, Il portale per arrivare a Dio oltre a farci ripercorrere la vita del pittore ci fa inoltrare nei meandri della sua psiche, e questo credo che sia per un cultore di questo artista tutto ciò che si può desiderare di incontrare in un libro a lui dedicato; altresì vale per coloro che si accostano a lui per le prime volte, così che Caravaggio può rivelarsi loro in tutta la sua essenza.

La narrazione della vita di Caravaggio si svolge attraverso dei flashback e dei rimandi alle esperienze da lui vissute, rievocate mentre si trova nel letto di un sanatorio al termine della sua vita: tra crisi di tormento e delirio Caravaggio passa in rassegna vari momenti che vanno dall’infanzia al periodo della produzione artistica svolta a Roma (periodo centrale e dominante nella sua vita) per continuare poi con gli ultimi anni del periodo napoletano e finire col soggiorno a Malta e Siracusa. È proprio durante questa attività mentale sul letto di morte che conosciamo il suo lato umano, le cogitazioni di quei momenti sono rivelatrici di un io segreto e profondo.

Il lettore riesce ad avere l’immagine del Caravaggio uomo anche attraverso il Caravaggio pittore, e infatti nel libro la coscienza dell’artista viene esaminata proprio attraverso l’analisi delle sue opere. Di Pinto prende in considerazione il contesto in cui Caravaggio lavora a quella data opera, il luogo, lo spazio, i modelli umani utilizzati e pure i sentimenti da lui provati: è il quadro stesso a rivelare quale moto d’animo muoveva il dito del pittore in quel momento. Solo alcuni esempi: il ritratto de Il ragazzo con canestra di frutta rivela il profondo legame che univa Caravaggio a Mario Minniti, e nello sguardo di Santa Caterina d’Alessandria si riflette il nobile amore del pittore verso la cortigiana Fillide Melandroni in posa per lui.

La rivelazione dei motivi dell’animo del pittore è mediata proprio dai soggetti rappresentati, dai modelli in presa diretta, scelti da Caravaggio fra gli umili e i miserabili: scende in strada, li chiama, li fa entrare nel suo stanzone lercio ma a lui funzionale e poi fornisce un piccolo compenso che a loro serve per sopravvivere a una vita di stenti, mentre al pittore questo contributo è servito a raggiungere quello che lui vuole sia lo scopo della sua arte, ovvero realizzare la vera natura delle cose. “Egli aveva superato la lezione di Paterzano e dei manieristi lombardo-veneti, non era più necessario arrancare nella conoscenza alla ricerca del bello ideale: il bello era lì davanti e non c’era nient’altro da fare che scattare un fermo immagine: click! Il resto lo aveva già fatto Dio.”

Quel Dio tanto anelato da Caravaggio che lui riesce finalmente a riconoscere nei visi di quegli umili: sono loro a costituire l’accesso per arrivare a Dio. Il libro esplora questa dimensione spirituale in rapporto ai dipinti e alla realtà resa da questi dipinti, la cui essenzialità e sobrietà è interpretata proprio come ricerca di Dio: l’entità divina non si nasconde nei fronzoli di un’opera ampollosa, bensì si palesa nelle cose o persone ordinarie, portatrici di un’energia profonda e pura. Forse è anche per questo che più volte nel libro ci sono dei malinconici riferimenti alla condanna a morte per eresia di Giordano Bruno, la cui visione panteistica supponeva che Dio è vivo e presente in ogni cosa, il Creatore vicino alla sua Creazione. Questo e altri riferimenti relativi al periodo dell’Inquisizione e della Controriforma denotano il pensiero e i sentimenti di Caravaggio al riguardo. È il periodo del fanatismo religioso promosso in Italia al fine di rilanciare la dottrina cattolica e contrastare il pensiero luterano. Erano numerose le commissioni per diverse chiese che necessitavano di immagini per promuovere la Controriforma. La Morte della Vergine di Caravaggio fu rifiutata dalla committenza religiosa: come modello della Santa Vergine Caravaggio scelse una prostituta annegata nel Tevere, dunque utilizzò come modello un cadavere vero e proprio dovendo rappresentare la Vergine defunta. Questo spiega forse il suo ventre gonfio, ripieno ancora dell’acqua del Tevere. Insomma, tutto decisamente più profano che mistico.

I pregiudizi dell’Italia della Controriforma erano sicuramente in antitesi con la vita di strada di Caravaggio divisa tra osterie, risse e campi di pallacorda. Eppure anche in questo caso c’è una sorta di riabilitazione della figura di ‘pittore maledetto’ all’interno del romanzo: pur rappresentato nella sua irascibilità e sfrontatezza, Caravaggio è convettore di pulsazioni profonde e genuine, e nella sfida tra amore e odio che avviene in lui, a farla da padrone è un’eterna sofferenza.                                        

Rimane comunque la raffigurazione di un Caravaggio indiscreto e poco moderato, a tratti insolente, anche quando si tratta di avere a che fare con personaggi illustri dell’epoca, e questo emerge con molta evidenza dal suo linguaggio, dal modo in cui si esprime, gretto e scurrile.

Il libro si conclude con l’interessante esperienza da parte di Antonello Di Pinto del ritrovamento del dipinto Ecce homo in una Casa d’aste, che lui intercetta e riconosce come opera caravaggesca, o come un Caravaggio, appartenenza confermata poi da Vittorio Sgarbi, che peraltro cura l’introduzione del volume. Questo spazio dedicato s’intitola: La vera storia del Caravaggio ritrovato. 

Infine, è molto affascinante leggere della smania che aveva Caravaggio per le fonti di luce, così essenziali per la resa dei suoi dipinti, dove alcuni dei personaggi emergono come dal buio, e tra le ombre riflettono una sorgente luminosa. “Lavorare sotto un lucernario lo isolava da tutto il resto, era come se riuscisse in qualche modo a fermare la macina del tempo: con lo spazio circostante scuro e incerto, il dramma diventava più evidente e i soggetti assumevano pose più intense, teatrali, solenni. Tutto rimaneva bloccato in quel fermo immagine, in quel fotogramma senza tempo, indelebile, ignaro che sarebbe stato ricordato nei secoli dei secoli.”

Elena Realino*

*Elena Realino, è nata a Castrovillari, in provincia di Cosenza. Studia le pagine della letteratura con passione e spirito critico. Impegnata nel sociale, laureata in Lingue e Culture Moderne all’Unical. Crede che lo studio delle letterature straniere possa essere la chiave di accesso alla società poliedrica in cui viviamo e possa accorciare le distanze rispetto a realtà e mondi altrimenti ignoti o poco conosciuti.

                                                                                                                              

 

Da Caravaggio a Fellini. Il trionfo dell’ombra, di Mauro Di Ruvo

È forse una delle maggiori arterie che ha da sempre portato linfa alla letteratura, e non solo quella europea, ma anche transcontinentale. 

Un enunciato simile è apparso qualche anno fa nelle luminarie pagine di Stefano Poggi, Il colore e l’ombra. La trasparenza da Aristotele a Cézanne edito per la collana dei “Saggi” da Il Mulino nel 2019. Uno sforzo nella storiografia critica sul complesso ermeneutico dell’ombra che ha preceduto il recente saggio di Victor Stoichita A short history of the shadow tradotto da Benedetta Sforza per l’edizione del Saggiatore 2023 dal titolo Breve storia dell’ombra. Dalle origini della pittura alla Pop Art. Quest’ultimo ha rotto le conniventi ritrosie della critica d’arte verso la genealogia archeologica dell’icona più materiale che ideale. Tuttavia una parte di questa storia resta ancora oscura nelle sue più famose manifestazioni iconografiche sebbene continuiamo a immergerci senza avvertirne addosso le viscose tracce.

Sin dalla fine del IX sec. a. C. l’ombra figurava tra le produzioni vascolari protogeometriche in forme allusive mitologiche che a noi tuttora sono di difficile interpretazione. Qualche secolo dopo quelle allusioni figurali riceveranno un ritrattamento in Platone, che nella Politeia  teorizzerà il “mito della caverna” personificando l’ombra come un phàntasma del sapere umano, suo diretto inganno dell’eideia.

Più tardi in uno spazio cittadino dove la democrazia corrodeva da dentro l’intimità dell’uomo, asservendolo insieme ai beni pubblici anche alla sua materia distraente, Epicuro sconvolgerà le convinzioni politiche della scuola filosofica platonica condotta da Aristotele, e fonderà proprio sul concetto dell’ombra una delle ‘religioni’ più seducenti che la filosofia occidentale abbia avuto. Una religione dell’ombra che perdurerà per tutto il medioevo fino alla modernità del cosiddetto primo Umanesimo. L’ombra diviene l’unica verità che consente di inabissarsi nello spirito umano, non visibile all’apparenza della luce.

Idea che frequenta sostanzialmente in strettissimo contatto le pur scisse dottrine maggioritarie della Chiesa altomedievale sino al Concilio di Costanza, dal quale la matrice epicurea sembra evaporare di fronte alla emergente disciplina umanistica razionalizzante. Non è contemplata la possibilità oziosa per l’uomo neoplatonico di lasciare spazio all’idea dell’imperfezione, cioè alla difettibilità umana, alla sua aspirazione nel momento di imitazione del reale.

Agli albori del Cinquecento sarà l’irrequieta ironia di Leonardo ad aprire nella dimensione pittorica uno squarcio di inusuale oscurità nella composizione tonale dell’opere, anche se ancora molto blanda, soavemente mascherata come nell’Annunciazione della Vergine. Una intuizione questa che presto ricevette anche Raffaello nella sua Pala Oddi con il disegno attestato dell’angelo di sinistra che acquista volumetria tutta umana con l’uso preparatorio dello sfumato ombreggiato. Appare poi nella Madonna di Loreto misteriosamente un fondo scuro che per molti studiosi rimane elemento non propriamente di autografia raffaellesca.

La parentesi del «pittor divino» fu brevissima ma anticipatrice del clima che la Roma di  Papa Leone X stava assorbendo negli ambienti e circoli intellettuali. Un senso repulsivo del dettato morale cattolico e della censura della scienza, stava consegnando un’epoca piena di contraddizioni teologiche e filosofiche. Passando per le botteghe di minoritaria influenza artistica, ovvero quelle meno esposte alla pressione sociale della committenza vaticana, si avvertono le tracce di un’«aria nera», l’aria degli scandali nascosti e della fede popolare eterodossa. Un’aria cupa, tetra che proviene dai movimenti laicali e pauperistici che già stanno ponendo le basi, nel silenzio, della incombente Controriforma.

Tra i borghi di Roma soppressi dalla tracotanza ecclesiastica e depressi nella assoluta povertà, irrequieti di maldicenti condanne e omelie ereticheggianti, trae Michelangelo Merisi la sua “ombra”. È tutta caravaggesca infatti l’idea che a noi oggi dell’ombra è pervenuta, come specchio dell’anima, o sua “alterità”, apparenza, fantasma persecutorio. Ma in Caravaggio sorge una concezione ancora più profonda dell’ombra, più intimistica, o quasi mistica, che la connota in una sempre più controversa dimensione abissale del tormento poetico, attuando per la prima volta una svolta iconologica della rappresentazione figurata dell’ombra.

In Santa Caterina dAlessandria, nel 1598 infatti dopo un soggiorno a Palazzo Madama dal cardinal Francesco Maria Del Monte, su suggerimento di questi, Caravaggio dipinse Santa Caterina d’Alessandria, dipinto che appare in forte compatibilità formale con le revisioni iconografiche controriformistiche. Conservato oggi al Museo Thyssen-Bornemisza di Madrid, l’opera ritrae la santa in una (com)posizione del tutto inusuale, dagli attributi estetici moderni (abbigliamento e comportamento), ma soprattutto nell’atto prefigurativo del suo martirio. 

Mentre gli occhi sono intrisi di incertezza e dubbio, la sua lama già arrossisce di sangue, poggiando il gomito sulla ruota ferrata che ha già ricevuto il miracolo della fede. Proprio nell’attimo in cui Caterina sta cedere al martirio, l’oscurità del fondo rimarca la sua terribile solitudine e senso di abbandono a una fede di cui già ella sta dubitando, bagnandosi gli occhi per l’ultima volta della luce che soggiunge come estremo segno salvifico divino in un fascio obliquo.

Dopo quasi cinque anni, nel 1603, al maturo Caravaggio viene commissionato dal suo protettore Vincenzo Giustiniani, un dipinto a olio con soggetto l’Incoronazione di spine. È questa un’opera che per quanto ritenuta tra le ultime del Merisi, è invece significativa proprio nella sua forza anticipatrice del sublime che raggiungerà in quegli stessi anni. Il Cristo è ritratto nel patetismo della sua incoronazione, esacerbato qui dalla brutalità gestuale con cui i due torturatori infilzano la corona spinata nel cranio che schizza sangue, per la veemenza del momento. 

Mai del Cristo s’era raggiunto prima nella storia dell’arte una simile espressione pregna di controversa misticità, tra disperazione sacrificale ed eccitazione teologale, entrambe così omogeneamente contenute ed esaltate dalla ombrosità chiaroscurale che attraversa le figure in linea diagonale, e passa ancora più discreta sulla pallida carnagione del patiens, dove emerge il contrasto della terrosa ombra sulla luce divina che scende a sprazzo sui corpi. Più si incava la fronte del Cristo tra le pieghe dell’atre dolore, più la ripresa cromatica dello sfondo tocca la sottile linea che separa il terrore divino dall’amore umano, concentrando tutta la solitudine eroica del Cristo nello statuario torso completamente adombrato così come il cuore che s’immagina la morte dell’autore.

È un’oscurità che flagella questa, che strattona e conficca le spine della vanità del mondo nel cuore dell’emarginato (autore) eroe. L’opera è conservata nel Kunsthistorisches Museum di Vienna.

Nel 1605 circa, due anni dopo, le cose assumono un atro aspetto ancora più denso di eversione dalla tradizione. Apparirebbe qui un altro dipinto, questa volta nel Napoletano, di problematica allocazione e committenza. Tuttavia la critica ha avuto anche dubbi riguardanti l’autografia del quadro, poi chiariti confermando la paternità caravaggesca. Tralasciando tuttavia la complessa questione attributiva e allocativa, è interessante notare anche qui lo schema composizionale. Si tratta della Madonna del Rosario (Kunsthistorisches Museum di Vienna).

Il Merisi ritrae la madonna in vertice a una scala piramidale col Bambino, mentre le viene offerto un rosario da un san Domenico che sembra mortificato, dalle orbite oscuramente incavate, il quale rivolge lo sguardo alla Madonna, i cui occhi rispondono reciprocità funesta al santo. La posizione di san Domenico nella trimembre piramide, sembra in qualche maniera alludere alla Passione che dovrà patire Cristo. Da qui forse la scelta tematica di Caravaggio del dono del rosario. Sia la cromia delle tuniche e dei sai francescani, estremamente scure, e dinamizzate da pieghe lunghe e sottili, quasi stressate, e tese dall’atmosfera pesante cui il Bambino assiste con estrema naturalezza, ma anche con pensosità negli occhi, sia la scalanatura della colonna che regge il drappo rosso che pende sulla Vergine, innestano un nuovo tipo di ombra. 

Un’ombra che non dà spazio al tumulto, ma allo scandalo dei volti. La terra che insudicia i piedi degli astanti, la sbiadita lucidità dei punti focali interessati dal fascio di luce, aggravano la complessità che l’oscurità organizza a portavoce di una laica ma profetica perdizione umana accanto al divino. 

Arriva l’anno 1607 e Caravaggio si trovava a Napoli, ormai in fuga dalle sue persecutorie indagini e dai nemici inquisitori romani. Qui realizzò una delle sue ultime opere. Un altro dipinto dei dipinti col soggetto di David e Golia (anch’essa oggi a Vienna).  

Si è già molto discusso sulla predilezione tematica del Merisi per questo mito biblico. Non si è invece abbastanza discusso sulla variazione iconografica che sempre questo mitema ha subito nella pittura caravaggesca. Particolare interesse è posto qui nella scelta di ritrarre il David in pieno prospetto, con la nuca inclinata dietro la quale poggia la pesante spada che si confonde nel fondo buio. Il volto carico di espressione solenne e ancora meditativa verso una via di fuga da quel tetro teatro annichilente, sembra non tanto il superstite d’una aspra battaglia quasi titanica come descritta quella bibilica, quanto più rilassato e allerto verso l’ignoto entro cui si fa strada proprio sporgendo dal braccio sinistro teso il capo mozzato di Golia, come fosse un talismano notturno, un cimelio non eroico, ma assassino, un trofeo del tormento. Il buio intanto avanza sui corpi e stratifica l’eroe assassino in una crudele dimensione atemporale, mentre il tempo ha già segnato le sue ruvide cicatrici sulla fronte del capo pendente del nemico. L’eroe ha vinto la battaglia ma rimane un artefice tormentato dalla giustizia terrena, l’autore perseguitato dai suoi tormenti poetici/eroici. Ed è la gradualità scomparsa dell’ombra ad accentuare in questa fase del Merisi tanto prossima alla morte precoce, la nettezza della condanna del proprio destino.

Una decina d’anni dopo l’opera caravaggesca, nel 1618-20, il soggetto dell’ombra ha raggiunto un livello di saturazione tale da rivestire il ruolo riempitivo e di contorno alla raffigurazione specialmente ritrattistica. 

Ma uno degli esempi che riportano meglio il mutato incastro dei tasselli storiografici  già annunciato dalla Gerusalemme tassiana, è proprio il dipinto delle Quattro Stagioni di Guido Reni. All’allievo prodigio della scuola carraccesca attorno cui ruotava la pittura emiliana, anche in antitesi alla corrente caravaggesca,  è commissionata da George Villiers una copia del dipinto omonimo  che oggi si trova al Museo di Capodimonte.

 Andando a leggere la sua composizione partendo quindi dalla sinistra, vedremo che in fondo è rappresentata la personificazione dell’Inverno ricoperto di gelido manto, mentre in primo piano a sinistra trova posto l’Autunno che regge in mano un grappolo d’uva, vestiva di manto rosseggiante . Al centro della scena siede in torsione simposiale la Primavera coronata di fiori, affiancata all’estrema destra, in primo piano dall’Estate completamente nuda e cinta di un drappo sottilissimo attorno al pube che non ostenta pudicizia.

Una triade di putti fanno da commento alla composizione principale aggiungendo dinamismo e vivacità espressiva. Una vivacità che è esaltata proprio dalla tipica scelta di Reni dello sfondo ombroso e terroso. 

In Reni l’oscurità è visibile soltanto entro i confini dello sfondo che fa da contrasto alla carica cromatica del soggetto principale, restando tuttavia a livello semantico separato dal suo tessuto narrativo. È quindi un’ombra che non narra, ma che enfatizza. Si è perso dunque nel Seicento, eccetto il caso dei correntismi caravaggeschi, la funzione simbolica e semiotica dell’ombra e della sua corrispettiva ombreggiatura psicologica.

Il tropo dell’ombra che ha caratterizzato la sacralità dell’immagine totalmente bagnata e unta dal liquido temporale del presente, non avrà più un successore dopo Caravaggio, ma diverrà semplicemente un topos accademico della pittura occidentale sino alle avanguardie. 

Il picassismo a metà Novecento porta a termine il suo progetto di scollatura dell’arte dalla lingua, creando così un “nuovo varco vacuo” delle idee. A riempire quel vuoto ci penseranno le battaglie socialiste del formalismo astratto fino a quando non si sarà completamente ricolmo con il nuovo realismo, il cosiddetto “neonaturalismo” di cui parlava Arcangeli.

Se nella “settima arte” lo spettatore era da qualche decennio addietro assuefatto alla ricezione chiaroscurale della scena cinematica, è vero d’altronde che ancora non riusciva a guardare nelle immagini ma soltanto per immagini. Il bianco e nero proiettava un chiaroscuro scartato dall’organigramma del significato per il quale l’azione era stata montata con le immagini. Non si percepiva cioè l’ombra ma solo ombre indefinite che disturbavano, in una ottica progressiva, l’autenticità della sequenza scenica.

Non nasce certo per rispondere a questa fallacia tecnica l’idea in Cesare Zavattini in dialogo col giovane Vittorio De Sica del nuovo movimento di genere, antiscolastico, che chiamerà “Neorealismo”. È una reazione invece alla perdizione del senso umano. La crisi è il vero oggetto che l’arte deve conoscere nella sua ispirazione che trascende la norma, creando la legge della “pazzia”. Inseguire la pazzia dell’uomo è l’ontologia, presso i neorealisti, più remota della poesia. Per una nuova natura serve quindi una nuova ombra. Per una nuova realtà una nuova ombreggiatura, resa dal tratteggio più consapevole e marcato del gioco luci/ombra come reale/ideale, onirico/razionale. È quanto provvede a suscitare il film di Michelangelo Antonioni uscito nelle sale nel 1961, La Notte.

Protagonisti di una vicenda alquanto pirandelliana, un giovane Marcello Mastroianni e la favolosa Jeanne Moreau indossano gli abiti di uno scrittore di successo che è sempre più indolente all’amore della moglie Lidia, annoiata dalla monotonia del sapere e angosciata dalle sue mancanze muliebri verso il marito. La noia è ciò che porta entrambi a vagare per la notte nella città, e non sembrando qui trovar pace si spostano in una festa di una villa in periferia di un ricco industriale che ha offerto loro l’invito a notte fonda. È durante la notte che la coppia si rispecchia quasi nella loro ombra, dal cui riflesso scorgono il chiaroscuro della vita, la continua infedeltà della infelicità, e la loro vera natura che si rivela essere già morta proprio quando vedono la scacchiera anche sulla sabbia che non ammette vincitori, ma solo sconfitti. Il nero, l’oscurità è qui la vera vittoria.

Da uno stato precristiano in cui la concezione dell’ombra incasellava il tabù d’una mente apotropaica, come d’un segreto che merita solo di essere interiorizzato, assorbito nelle viscere, si è giunti ad uno stato di esplosione dell’ombra, come stigma di quel che Galeno chiamava indolentia nel Perì Alupìas.

La situazione in cui l’indolenza ci ha narrato La Notte prosegue il suo scandaglio endoscopico sul grande proiettore quando compare il capolavoro di Federico Fellini nel 1964.

Otto e mezzo è il film che traspone al massimo grado la traslucidità della bicromia delle immagini del noir francese nella armocromia empatica della immagine presa a modello smontato dalla trama. Ogni immagine di Otto e mezzo  è così estranea al rècit della narrazione d’autore che sembra recitare essa stessa come un attore fuori dal coro. Tra la successione frammentaria e asincrona delle pareti sceniche si frappone la mimesi dell’ombra. Un adombramento continuo del sogno porta l’indolenza del giovane autore poeta Guido alla visione della follia. Non c’è la dea Ate a invocare il presagio sul protagonista della tragedia, bensì il suo deus interiore, quello di Caravaggio, che evoca continuamente il tormento della sua poesia stessa, del suo genio mortale.

Una storia che si definirebbe quasi d’ironia straniante, in una vicenda in cui il regista di affermata fama Guido è declinato sull’orlo di una crisi proprio nel bel mezzo delle riprese del suo nuovo film.
Con una lente caleidoscopica Fellini ci immerge in un profondissimo scandaglio della krisis dell’autore, facendoci toccare attraverso una continua oscillazione tra la dimensione onirica e quella ideale, l’abisso da cui risuona la voce del tormento poetico, l’ombra che si proietta a sprazzi della memoria e della nera, indistinta vacuità frenetica del mondo. L’ombra, tutto un nero fumo del nulla.

Mauro Di Ruvo

Mauro Di Ruvo: Critico d’arte, classicista e medievista, si occupa di diritto romano a Perugia e di politica interna presso il giornale “Lanterna”. Si è anche occupato di Estetica cinematografica e filosofia del linguaggio audiovisivo a Firenze presso la storica rivista “Nuova Antologia” e collabora con la Fondazione Spadolini. È autore del romanzo Pasqualino Apparatagliole (2023, Delta Tre Edizioni), e curatore della recensione al libro Oltre il Neorealismo. Arte e vita di Roberto Rossellini in un dialogo con il figlio Renzo di Gabriella Izzi Benedetti, già presidente del Comitato per l’Unesco, per la collana fiorentina “Libro Verità”. Ha già curato per la “Delta Tre Edizioni” le prefazioni alla silloge Lo Zefiro dell’anima (2019) di Pasquale Tornatore e al romanzo Le memorie del dio azteco (2021) dello storico Saverio Caprioli. A Ottobre 2024 ha tenuto e curato il convegno accademico “L’eidolon di Dante. Il codice dell’Inferno” a Foligno e nella Chiesa del Purgatorio recentemente è stato relatore della lectio magistrali “Dante, l’Inferno, Saffo”.