Italo Calvino: “Lezioni americane” (Leggerezza), di Sonia Di Furia

Il 6 giugno del 1984 Calvino fu invitato ufficialmente dall’Università di Harvard, Cambridge, nel Massachusetts, a tenere le Charles Eliot Norton Poetry Lectures. Si trattava di un ciclo di sei conferenze da tenere nel corso di un anno accademico, che per Calvino sarebbe stato quello del 1985- 1986. Purtroppo, la morte lo colse mentre vi stava lavorando. L’edizione che qui si prende in considerazione è pubblicata da Mondadori con il sottotitolo “Sei proposte per il prossimo millennio” e uno scritto di Giorgio Manganelli. Poiché sui temi e l’elaborazione delle Lezioni Calvino non ha lasciato né scritti né interviste, si fa integralmente riferimento alla nota introduttiva scritta per la prima edizione, quella del maggio 1988, dalla moglie Esther Calvino.

Il termine Poetry significa in questo caso ogni forma di comunicazione poetica- letteraria, musicale, figurativa e la scelta del tema è totalmente libera. Le Norton Lectures presero inizio nel 1926 e sono state affidate nel tempo a personalità come T. S. Eliot, Igor Stravinsky, Jorge Luis Borges. Era la prima volta che venivano proposte a uno scrittore italiano. Questa libertà è stato il primo problema che Calvino dovette affrontare, convinto di quanto fosse importante la costrizione nel lavoro letterario. Una volta definiti i temi da trattare e alcuni valori letterari da trasmettere nel terzo millennio, cominciò a dedicare quasi tutto il suo tempo alla preparazione delle conferenze, arrivando a sviluppare idee e materiali per almeno otto lezioni e non soltanto le sei previste e obbligatorie. Al momento di partire per gli Stati Uniti, delle sei lezioni ne aveva scritte cinque. Manca la sesta, Consistency, l’avrebbe scritta ad Harvard. Naturalmente queste sono le conferenze che Calvino avrebbe letto. Ci sarebbe stata certamente una nuova revisione prima della stampa, ma senza importanti cambiamenti. Le differenze tra le prime versioni e le ultime riguardano la struttura, non i contenuti. Questo libro riproduce il dattiloscritto come è stato trovato sulla sua scrivania, e in perfetto ordine, ogni singola conferenza in una cartella trasparente, l’insieme raccolto dentro una cartella rigida, pronto per essere messo nella valigia.

Calvino ha lasciato il testo senza titolo italiano. Aveva dovuto pensare prima al titolo inglese “Six memos for the next millennium” ed era il titolo definitivo. Impossibile sapere cosa sarebbe diventato in italiano.

L’autore dedica le conferenze ad alcuni valori o qualità o specificità della letteratura che gli stanno particolarmente a cuore, cercando di situarle nella prospettiva del nuovo millennio: Leggerezza, Rapidità, Esattezza, Visibilità, Molteplicità, Cominciare e finire. In prefazione così dice: – Il millennio che sta per chiudersi ha visto nascere ed espandersi le lingue moderne dell’Occidente e le letterature che di queste lingue hanno esplorato le possibilità espressive e cognitive e immaginative. È stato anche il millennio del libro, in quanto ha visto l’oggetto- libro prendere la forma che ci è familiare. Forse il segno che il millennio sta per chiudersi è la frequenza con cui ci si interroga sulla sorte della letteratura e del libro nell’era tecnologia cosiddetta postindustriale. La mia fiducia sul futuro della letteratura consiste nel sapere che ci sono cose che solo la letteratura può dare coi suoi mezzi specifici. –

La prima conferenza è dedicata all’opposizione leggerezza- peso. Calvino sostiene le ragioni della leggerezza, non perché consideri le ragioni del peso meno valide, ma perché solo sulla leggerezza pensa di avere più cose da dire. 

Due vocazioni opposte si contendono il campo della letteratura attraverso i secoli: l’una tende a fare del linguaggio un elemento senza peso, che aleggia sopra le cose come una nube o, meglio, un pulviscolo sottile o, meglio ancora, come un campo d’impulsi magnetici; l’altra tende a comunicare al linguaggio il peso, lo spessore, la concretezza delle cose, dei corpi, delle sensazioni. Alle origini della letteratura italiana ed europea queste due vie sono aperte da Guido Cavalcanti e Dante Alighieri.

Per tagliare la testa di Medusa senza lasciarsi pietrificare, Perseo si sostiene su ciò che vi è di più leggero, i venti e le nuvole; e spinge il suo sguardo su ciò che può essergli rivelato in una visione indiretta.  La pesantezza della pietra può essere rovesciata nel suo contrario (Dal sangue di Medusa nasce un cavallo alato, Pegaso). Perseo uccide Medusa, taglia la sua testa e la porta con sé; quando deve lavarsi le mani, la adagia delicatamente al suolo reso soffice da uno strato di foglie su cui stende dei ramoscelli nati sott’acqua (Ovidio, Metamorfosi, IV, 740-752). Quanta delicatezza d’animo serve per essere un Perseo, vincitore di mostri. Medusa è il mostro per antonomasia; la Gorgone con il potere di pietrificare chiunque incroci il suo sguardo; colei che evoca paure ancestrali e ha influenzato l’arte e la cultura nei secoli.

Edward Coley Burne- Jones: nascita di Pegaso e Crisaore (1885)

Si pensi alla raffigurazione di Perseo che uccide Medusa, in una metopa del tempio C di Selinunte (seconda metà del VI secolo a.C.); a una Medusa sul frontone occidentale del tempio di Artemide a Corfù (580 a.C.); allo scudo con testa di Medusa di Caravaggio (1590 circa) Galleria degli uffizi di Firenze; alla Medusa di Peter Paul Rubens (1618 circa) Kunsthistorisches Museum di Vienna; alla scultura Perseo con la testa di Medusa di Benvenuto Cellini (1545-1554) Piazza della Signoria a Firenze; al busto di Medusa di Gian Lorenzo Bernini (1630- 40) Musei capitolini al Palazzo dei Conservatori; all’illustrazione Pegaso e Crisaore del Preraffaellita Edward Coley Burne- Jones (seconda metà del XIX sec.) Southampton City Art Gallery.

È evidente che per riuscire a parlare della sua epoca, Calvino ha dovuto fare un lungo giro, evocare la fragile Medusa di Ovidio e il bituminoso Lucifero di Montale (Piccolo Testamento).

È difficile per un romanziere rappresentare la sua idea di leggerezza, se non facendone l’oggetto irraggiungibile di quiete senza fine. Lo fa Milan Kundera ne “L’Insostenibile Leggerezza dell’Essere”, che è un’amara constatazione dell’ineluttabile pesantezza del vivere. Il peso del vivere per Kundera sta in ogni forma di costrizione: la fitta rete di costrizioni pubbliche e private che finisce per avvolgere ogni esistenza con nodi sempre più stretti.

In Lucrezio e in Ovidio la leggerezza è un modo di vedere il mondo che si fonda sulla filosofia e sulla scienza: la dottrina di Epicuro per Lucrezio; le dottrine di Pitagora per Ovidio. Ma in entrambi i casi la leggerezza e qualcosa che si crea nella scrittura, con i mezzi linguistici del poeta.

Nella novella del Decameron (VI, 9), l’autore presenta Guido Cavalcanti come un austero filosofo che passeggia meditando tra i sepolcri di marmo davanti a una chiesa. Invitato dalla gioventù fiorentina, ricca e gaudente, a fare baldoria, si rifiuta e con fare leggerissimo salta lontano e se ne va. L’agile salto improvviso del poeta- filosofo, che si solleva sulla pesantezza del mondo, dimostra che la sua gravità contiene il segreto della leggerezza, mentre quella che molti credono essere la vitalità dei tempi, rumorosa, aggressiva, scalpitante e rombante, appartiene al regno della morte, come un cimitero di automobili arrugginite. Non è un caso che il sonetto di Dante Alighieri ispirato alla più felice leggerezza “Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io” sia dedicata a Cavalcanti.

Calvino conclude dicendo: – Spero innanzitutto d’aver dimostrato che esiste una leggerezza della pensosità, così come tutti sappiamo che esiste una leggerezza della frivolezza; anzi, la leggerezza pensosa può far apparire la frivolezza come pesante e opaca.

Sonia Di Furia

Sonia Di Furia: laureata in lettere ad indirizzo dei beni culturali, docente di ruolo di Lingua e letteratura italiana nella scuola secondaria di secondo grado. Scrittrice di gialli e favolista. Sposata con due figli.

Marco Vitruvio Pollione: “Architettura” (Rizzoli, trad. Silvio Ferri), di Sonia Di Furia

Quando Marco Vitruvio Pollione, architetto romano del I sec. a.C., scrisse e dedicò il trattato “De Architectura” all’imperatore Cesare Augusto, si stava ideando una nuova strutturazione urbana della città di Roma, che fosse adeguata ai suoi compiti di grande capitale, in un momento storico in cui la costruzione degli edifici di maggior rilievo dimostrava l’enorme disponibilità di denaro, materiali e manodopera di cui poteva disporre l’autorità pubblica.

Il testo viene qui proposto nella preziosa edizione BUR Rizzoli, classici greci e latini, anticipata da un’approfondita introduzione dell’insigne archeologo classico Stefano Maggi e presentata, tradotta e commentata dallo studioso del mondo antico e della storia dell’arte greca e romana Silvio Ferri. L’architettura e l’urbanistica sono tra le attività umane più legate alle strutture e agli organismi sociali e politici: lo sono state soprattutto nel mondo antico. Oggi tale legame tende a non essere più così stretto, pur rimanendo prioritaria la gestione del problema urbanistico – architettonico.  

Se si vogliono comprendere le società che ci hanno preceduto o persino il quadro della vita attuale, è necessaria una vera e propria archeologia dei tempi moderni e contemporanei. Non si tratta di ricostruire il passato in quanto tale, ma piuttosto di rinnovare una relazione tra forma e società. Nel mondo romano, più che nel mondo moderno, lo Stato modella lo spazio urbano secondo le proprie strutture ideologiche. Il potere è in grado di definire e dichiarare la propria ideologia politica anche attraverso architetture e complessi architettonici in cui si riconosca. Alla politica governativa, che enfatizza l’impegno nei servizi pubblici per creare un’impressione di solidità e ricchezza e di interesse e protezione nei confronti del cittadino, si associa in questo modo quella delle classi elevate che esprimono così il loro appoggio all’impero, in nome del mantenimento di un equilibrio da cui esse stesse traevano la sicurezza del loro ruolo.

 Non dobbiamo però pensare a un’immagine esclusivamente monumentale di Roma: i grandi complessi emergono entro il tessuto articolato e vario dell’edilizia residenziale, della complessità della rete viaria e dei servizi pubblici più minuti (botteghe, fontane, latrine). Il complesso dei fori imperiali rappresenta la massima emergenza urbanistica della capitale dell’impero, ma tutta Roma viene caratterizzata, nell’arco di tempo che vide la loro realizzazione, da edifici che per il loro alto valore rappresentativo ne definirono l’immagine grandiosa destinata a durare nei secoli.

Nel tentativo di sistematizzare una materia contraddittoria ed estremamente varia, Vitruvio tratta di templi e teatri, di piazze e ginnasi, di porti e case private; stabilisce relazioni tra le misure del corpo umano e le dimensioni degli edifici e le loro proporzioni; esamina la formazione e la cultura dell’architetto, facendovi confluire più tradizioni; espone la sua teoria urbanistica della formazione della città, con la costruzione delle mura, la disposizione delle strade in funzione dei venti, la distribuzione degli spazi e degli edifici pubblici; dedica un intero capitolo all’idrologia e all’idraulica e l’ultimo alla meccanica.

In un primo momento Vitruvio non osa pubblicare i suoi “prolissi ed astrusi scritti sull’architettura”, come egli stesso li definisce, nel timore di incontrare il disappunto dell’imperatore, vedendo poi che egli ha cura, non solo del bene di tutti e dello Stato, ma anche degli edifici pubblici, stima che sia arrivato il momento di pubblicare l’opera. Questo trattato rimane l’unico di architettura antica a noi pervenuto e conserva intatto il fascino del passato, insieme al dibattito su chi pensa che l’architettura debba possedere regole ben definite e chi crede che si possa fare tutto sotto l’ispirazione della pura fantasia. Rimane la convinzione che pensare storicamente porta al recupero della dimensione umana del vivere, che è poi quello di cui ha bisogno una cultura che rischia di inseguire troppo i tecnicismi.

Così come già detto, per l’architettura e l’urbanistica, due facce della stessa realtà, non si tratta di riesumare l’esempio dell’antico, ma di considerare storicamente e criticamente una lezione che gli antichi sono ancora in grado di trasmetterci. Questo ha fatto un grande spirito moderno dell’architettura del secolo scorso, Le Corbusier, che visitando la città di Pompei guardò, fotografò, disegnò, annotò, ma soprattutto misurò. E poi scrisse: – Le misure sono la causa di questa bellezza – aggiungendo che la rilettura antiaccademica dell’antico gli aveva svelato i principi basilari della modernità. 

Sonia Di Furia

Sonia Di Furia: laureata in lettere ad indirizzo dei beni culturali, docente di ruolo di Lingua e letteratura italiana nella scuola secondaria di secondo grado. Scrittrice di gialli e favolista. Sposata con due figli.