L’università sotto tutela: dal controllo tecnocratico al dominio governativo, di Vincenzo Franciosi

L’università italiana si trova oggi di fronte a una trasformazione che mette in questione la sua stessa ragione d’essere come istituzione libera e critica, in una parola democratica. Il progetto di riforma dell’assetto di governo universitario (mi rifiuto di utilizzare l’osceno termine governance), discusso in questi mesi e anticipato il 16 ottobre 2025 dal quotidiano il manifesto con un articolo di Luciana Cimino dal titolo eloquente Le mani del governo sugli atenei, rappresenta un salto di qualità nel lungo processo di subordinazione dell’università al potere politico. L’inserimento di membri nominati dal Ministero nei Consigli di amministrazione, la possibilità per il Governo di imporre “linee generali” vincolanti alle politiche degli atenei, la prolungata e condizionata permanenza in carica dei rettori e il pieno controllo ministeriale sull’ANVUR costituiscono tasselli di un disegno coerente: riportare l’università nell’alveo dell’obbedienza governativa. 

Questa svolta non nasce dal nulla, ma è l’esito logico di una deriva avviata ormai da vent’anni, quando, sotto la retorica della “valutazione” e della “meritocrazia”, venne istituita l’ANVUR (Agenzia Nazionale di Valutazione del Sistema Universitario e della Ricerca). Creata nel 2006 ed entrata in funzione nel 2010, l’agenzia si è presentata come un organo “indipendente”, ma in realtà strutturalmente subordinato al Ministero, che ne nomina i vertici e ne definisce gli indirizzi. Con i suoi algoritmi e le sue classifiche, ha imposto una visione economicista e produttivista della ricerca, fondata su indici bibliometrici, impact factor e su un’idea di “qualità” ridotta a quantità di pubblicazioni. È così che la valutazione, anziché incentivare il merito, ha introdotto una burocrazia del consenso, omologando i linguaggi scientifici, punendo la lentezza del pensiero e disincentivando ogni forma di sperimentazione critica. L’università è stata progressivamente svuotata della sua autonomia interna e culturale, mentre i docenti, anziché liberi studiosi, sono stati spinti a diventare funzionari della produzione accademica, intenti a compilare schede e a inseguire punteggi.

Il sistema ANVUR ha dunque rappresentato il primo passo verso la neutralizzazione del sapere: un controllo tecnocratico mascherato da modernizzazione.

La storia dell’ANVUR, dall’origine nel 2005 fino a oggi, è un esempio della capacità del potere politico italiano di mantenere una linea di continuità perfetta dietro l’alternanza apparente dei governi di centro-destra, centro-sinistra e dell’attuale di estrema destra. Su questo terreno è esistito un consenso trasversale intorno all’idea che l’università dovesse essere valutata, disciplinata e controllata secondo criteri amministrativi esterni alla comunità scientifica. Il primo passo avvenne, durante il terzo governo Berlusconi, con la legge Moratti del 2005, che delegò al governo la creazione di un’agenzia nazionale per la valutazione. Dietro il linguaggio modernizzatore e la retorica dell’efficienza si celava già una visione aziendalista: la ricerca non più come ricerca di verità, ma come prestazione misurabile. La successiva attuazione della legge, nel 2006, durante il secondo governo Prodi con Fabio Mussi al Ministero dell’Università e della Ricerca Scientifica, non modificò la sostanza del progetto: l’agenzia fu istituita formalmente con il Decreto legislativo 262, conservando la stessa logica di fondo, ovvero la sottrazione del giudizio scientifico alla comunità accademica per affidarlo a un organo centralizzato, tecnicamente dipendente dal Ministero. Che fosse un governo di centrosinistra non cambiò nulla, dal momento che la “valutazione” divenne un dogma condiviso, una parola intoccabile che bastava a giustificare ogni riduzione di autonomia.

Il passo decisivo si compì nel 2010, sotto il quarto governo Berlusconi e con Mariastella Gelmini al Ministero. Con il D.P.R. 76/2010 e la legge 240/2010, l’ANVUR fu finalmente resa operativa: i membri del consiglio direttivo venivano nominati dal governo, le valutazioni della ricerca (VQR) divennero condizione per i finanziamenti e la carriera dei docenti venne legata ai parametri fissati dall’agenzia. Da organo tecnico “autonomo”, l’ANVUR si trasformò in strumento di controllo ministeriale. Il linguaggio dell’efficienza nascondeva ormai una vera gerarchia amministrativa: chi non produceva secondo i criteri fissati dall’alto, semplicemente spariva dal sistema. Da allora, nessun governo ha rimesso in discussione questo assetto. I governi Monti, Letta, Renzi, Gentiloni, tutti di area moderata o “riformista”, hanno consolidato e perfezionato la macchina burocratica, introducendo nuove procedure di valutazione e accreditamento e facendo della “qualità” un meccanismo premiale che in realtà ha accentuato le disuguaglianze tra atenei e discipline. Neppure i due governi Conte hanno alterato la logica del sistema, né il primo, “populista”, né il secondo, con Gaetano Manfredi ministro, anzi, la subordinazione ai parametri ANVUR si è fatta ancora più pervasiva. E oggi, con il governo Meloni, quel controllo si compie nel modo più diretto e ideologico. L’attuale governo di estrema destra non fa che raccogliere i frutti di un processo che centrodestra e centrosinistra hanno pienamente legittimato, trasformando una macchina di valutazione in uno strumento politico. In questa prospettiva, l’ANVUR non appare come un incidente, ma come la chiave di volta di un progetto ventennale, ovvero quello di svuotare progressivamente l’università della sua autonomia, prima con il linguaggio della modernità, poi con quello della disciplina, infine con quello della fedeltà. Ogni governo ha contribuito a un tassello della stessa costruzione: la conversione del sapere in amministrazione e la riduzione della cultura a funzione del potere esecutivo. Non c’è stato bisogno di un’imposizione autoritaria dal momento che la neutralizzazione è avvenuta in nome del merito, dell’efficienza e della responsabilità, parole che, una volta interiorizzate, hanno reso superflua ogni resistenza.

Oggi, con la riforma affidata a Ernesto Galli della Loggia, si chiude il cerchio. Non più soltanto valutare, ma governare; non più misurare la produzione universitaria, ma indirizzarne i contenuti e sceglierne i dirigenti. Galli della Loggia, custode di una visione elitaria e autoritaria della cultura, interpreta il proprio ruolo come restaurazione dell’ordine, propugnando un’università disciplinata, depoliticizzata e funzionale all’ideologia del potere. Egli è divenuto il paradigma dell’intellettuale di regime, che scambia l’autorità del sapere con la subordinazione al comando e giustifica la perdita di libertà in nome dell’efficienza e del prestigio nazionale.

L’università non sarà più una comunità di ricerca autonoma, ma un’articolazione dell’esecutivo; i rettori, dipendenti dalla benevolenza ministeriale; i consigli di amministrazione, luoghi di fedeltà e non di competenza; i docenti, sempre più precarizzati e condizionati dalla logica dei finanziamenti “premiali”. In questa prospettiva, l’università smette di essere il luogo della libertà di pensare e diventa una struttura amministrata, dove l’unico sapere ammesso è quello conforme.

Il controllo governativo dell’università è dunque un attacco alla società nel suo insieme. Svuotare di autonomia le istituzioni del sapere significa indebolire la capacità critica del Paese, ridurre lo spazio del dissenso e formare generazioni di studenti addestrati all’obbedienza più che alla riflessione. Difendere l’università dal controllo governativo non è una rivendicazione corporativa, ma un atto di resistenza civile: significa difendere la libertà di pensiero, la pluralità delle idee e la possibilità, sempre più rara, di un sapere non asservito, ma indipendente.

Non è dunque corretto leggere la trasformazione dell’università italiana come una deviazione imprevista di un progetto nato in buona fede. La valutazione, così come fu concepita nella legge Moratti e realizzata attraverso l’ANVUR, non era un semplice strumento di miglioramento, ma il dispositivo originario di un nuovo regime del sapere, fondato sull’idea che la conoscenza debba rendere conto al potere. Già l’istituzione di un’agenzia “esterna”, incaricata di misurare la qualità della ricerca e di distribuire risorse in base a parametri quantitativi, implicava la sfiducia nella comunità scientifica e l’abbandono del principio cardine dell’università moderna: l’autonomia del giudizio tra pari. Dietro la retorica della trasparenza e della meritocrazia si nascondeva una visione profondamente autoritaria, quella di un sapere che deve essere controllato, verificato, normalizzato. L’ANVUR non è stata quindi un errore tecnico o una degenerazione burocratica, ma il primo atto di un disegno politico più ampio, volto a ridurre la libertà di ricerca a funzione dell’amministrazione pubblica e l’università a branca del potere esecutivo.

L’attuale progetto di riforma non fa che rendere esplicito ciò che era implicito, ossia il passaggio dalla sorveglianza tecnocratica alla direzione politica del pensiero. Si è partiti dal mito dell’oggettività numerica per giungere al commissariamento della cultura, dal linguaggio neutro della valutazione al linguaggio esplicito dell’obbedienza. È un percorso perfettamente lineare, il cui esito era scritto fin dall’inizio: la fine dell’università come luogo autonomo di conoscenza, e la sua riduzione a strumento di legittimazione del potere di governo.

Difendere oggi la libertà accademica significa riconoscere questa genealogia e rompere con l’illusione che la valutazione sia mai stata neutra. Solo restituendo alla ricerca il suo carattere intrinsecamente critico e al sapere la sua irresponsabilità verso il potere sarà possibile riaprire uno spazio di verità dentro un sistema che, da due decenni, tende a trasformare il pensiero in amministrazione e la conoscenza in obbedienza.

Vincenzo Franciosi

Vincenzo Franciosi è professore associato di Archeologia Classica. Ha scavato in vari siti dell’Italia meridionale quali Fratte (SA), Buccino (SA), Montescaglioso (MT), Pompei (NA). Ha pubblicato studi sulle importazioni ceramiche corinzie di età geometrica nell’isola d’Ischia e sulle loro imitazioni locali; sulla ceramica figurata attica del V sec. a.C.; sull’urbanistica pompeiana e sugli scavi dell’insula VII, 14 a Pompei; sul culto della Mefite in Valle d’Ansanto; sulla statuaria arcaica in marmo dall’Acropoli di Atene; sulla statuaria in bronzo dalla Villa dei Papiri ad Ercolano; sulla statuaria policletea. È stato insignito, per l’insieme degli studi e delle indagini condotti nel campo dell’Archeologia Classica, del Premio Anassilaos 2020-21 (XXXII-XXXIII) “Arte, Cultura, Economia, Scienze” – Premio Μνήμη per l’Archeologia, Reggio Calabria, 13 Novembre 2021.

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