L’arabo e la “pietra nera”. Come una lingua mi ha insegnato a capire i Greci, di Vincenzo Franciosi

Venticinque anni fa seguii un breve corso di arabo. Non avrei mai immaginato che quei rudimenti mi avrebbero spalancato un mondo. Con quelle poche nozioni, cominciai a vedere l’antichità greca con occhi nuovi, a cogliere nessi che l’archeologia classica, salvo rare eccezioni, ha quasi sempre ignorato.

Mi resi conto allora di quanto fosse limitato il nostro sguardo, chiuso nel perimetro ellenocentrico che separa artificiosamente la Grecia antica dal suo vero contesto: il Mediterraneo. Sabatino Moscati aveva già tracciato la strada, ma pochi tra gli archeologi classici l’hanno seguita. Tutto ciò che nasce dall’incontro fra Greci e Fenici viene solitamente attribuito geograficamente alla Frigia o alla Tracia, ricondotto a generiche culture antico-mediterranee, a lingue misteriose genericamente pre-greche, come se l’Oriente semitico non fosse mai esistito. Forse residui inconsci del “pregiudizio ariano”.

Eppure le prove sono sotto gli occhi di tutti. Prendiamo i Cabiri (greco Kábeiroi), i Megáloi Theói (Grandi dèi) di Samotracia, di Lemno, di Imbro, di Pergamo, di Tebe in Beozia, città fondata dal fenicio Cadmo (semitico √ qdm = Oriente), colui il quale ha insegnato l’alfabeto ai Greci (Erodoto V. 58; Diodoro B.H. III. 61. 1): nelle lingue semitiche √ kbr – kabîr vuol dire “grande”. È un’evidenza etimologica disarmante. Il sacerdote confessore del culto cabirico è indicato dalle fonti greche con il termine anellenico di kóes/kóies(Esichio, s.v. κοίης, κ 3230 Latte): ma non si tratta della chiara ellenizzazione del termine kohen/kahin, che nelle lingue semitiche vuol dire semplicemente “sacerdote”?

Lo stesso vale per la dea frigia Kubaba/Kybele, venerata a Pessinunte sotto forma di pietra nera caduta dal cielo, un betilo, in greco báitilos, dal semitico bêt/bait (casa, sede) + el (divinità) = sede della divinità. Quando quella pietra fu portata a Roma durante la seconda guerra punica, divenne il fulcro di un culto potentissimo: la Madre degli dèi, la pietra che racchiude il principio vitale. La pietra nera di Pessinunte, donata al popolo romano dal re pergameno Attalo, fu incastonata nella testa della statua argentea della Madre degli dèi.

In Kybéle troviamo la radice semitica √ k‘b che rimanda al cubo (in greco kýbos, in latino cubus), alla forma primordiale della pietra sacra. La Ka‘ba della Mecca, con la sua pietra nera, non è che l’eco di un simbolismo antichissimo, comune a tutto il Mediterraneo. Nella lingua latina il termine caput, da cui in italiano “capo” e nei dialetti del Sud-Italia “capa”, conserva ancora quella radice, che troviamo anche nel greco kephále: la forma stereometrica della testa, la solidità del principio. Kybéle è la divinità della pietra, la potenza che abita la materia.

Fu con quei pochi rudimenti di arabo che, un giorno, mi trovai a leggere un’iscrizione fenicia del IX secolo a.C. e a comprenderla. Mi vennero i brividi. Le parole erano semplici: “Io sono…, figlio di…, mio padre…, re di…, servo di…, re di…”. Ma era come se la voce stessa del Levante antico parlasse attraverso i secoli, limpida, comprensibile. L’arabo mi aveva restituito la vita della lingua madre.

La mia maestra di arabo era palestinese, originaria di Nablus (l’antica Neapolis) e, per uno scherzo del destino, si era stabilita proprio a Napoli. Si chiama Souzan Fatayer. Attivissima nel sociale, mediatrice culturale, traduttrice e interprete, oggi insegna arabo all’Università Orientale di Napoli. È una figura centrale della comunità palestinese napoletana: si batte per portare studenti palestinesi a studiare in Italia e per far curare nei nostri ospedali i bambini mutilati dai bombardamenti israeliani, feriti dai cecchini mentre giocano, lasciati deperire fino a morire di fame. Molti di loro, grazie a lei, sono stati operati e salvati all’ospedale Santobono di Napoli.

Souzan è stata candidata alle ultime elezioni europee, per poco non risultando eletta, e oggi si presenta alle regionali in Campania. Qualche giorno fa, un noto “giornalista”, onnipresente in televisione e noto per la sua “avvenenza”, l’ha attaccata con toni spregevoli, che non meritano neppure di essere ripetuti. È un segno dei tempi: oggi la cultura dominante non sopporta le voci libere, in particolare quelle palestinesi, soprattutto quando vengono da donne colte, determinate e moralmente integerrime.

Io, però, non dimentico che è stata proprio una donna palestinese a insegnarmi l’arabo, e dunque a farmi capire la Grecia. La lezione più grande che mi abbia dato è che le lingue, come le civiltà, non sono mai pure: vivono di incontri, di scambi, di pietre cadute dal cielo che diventano simboli universali.
E che anche la pietra, muta in apparenza, conserva una voce. Basta saperla ascoltare.

Vincenzo Franciosi

Vincenzo Franciosi è professore associato di Archeologia Classica. Ha scavato in vari siti dell’Italia meridionale quali Fratte (SA), Buccino (SA), Montescaglioso (MT), Pompei (NA). Ha pubblicato studi sulle importazioni ceramiche corinzie di età geometrica nell’isola d’Ischia e sulle loro imitazioni locali; sulla ceramica figurata attica del V sec. a.C.; sull’urbanistica pompeiana e sugli scavi dell’insula VII, 14 a Pompei; sul culto della Mefite in Valle d’Ansanto; sulla statuaria arcaica in marmo dall’Acropoli di Atene; sulla statuaria in bronzo dalla Villa dei Papiri ad Ercolano; sulla statuaria policletea. È stato insignito, per l’insieme degli studi e delle indagini condotti nel campo dell’Archeologia Classica, del Premio Anassilaos 2020-21 (XXXII-XXXIII) “Arte, Cultura, Economia, Scienze” – Premio Μνήμη per l’Archeologia, Reggio Calabria, 13 Novembre 2021.

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