Federico De Roberto: “I Viceré”, di Sonia Di Furia

Con l’unificazione, l’Italia divenne una monarchia costituzionale, regolata dallo Statuto albertino del 1848. Il nuovo Stato era rigidamente accentratore: nonostante la grande varietà di tradizioni, costumi, linguaggi, condizioni economiche e sociali delle numerose province e regioni italiane, le autonomie locali erano praticamente inesistenti. A tutta l’Italia venne estesa la legislazione sabauda, per quanto riguardava l’amministrazione, l’apparato fiscale, la scuola, l’esercito. Il Governo del paese era espressione di una ristrettissima minoranza: aveva il diritto di voto il 2% della popolazione, e si trattava in prevalenza di grandi proprietari terrieri. La gran maggioranza del popolo italiano restava esclusa dai diritti politici e non era in grado di incidere col voto nella vita politica della nazione. Al suffragio universale maschile si arriverà solo mezzo secolo dopo l’unificazione, nel 1913.

Le trasformazioni della base economica generarono naturalmente, seppur con lentezza, anche trasformazioni della struttura sociale italiana. Nonostante ciò, l’aristocrazia godeva ancora di grande peso e prestigio sociale, in quanto forniva  modelli di comportamento anche ai ceti altoborghesi che si andavano formando. Ne è uno specchio la letteratura, in cui i nobili appaiono largamente protagonisti di romanzi, novelle, drammi, grazie al fascino che i loro stili di vita esercitano sul pubblico e sugli stessi scrittori di origine borghese.

Federico De Roberto si inserisce nel quadro dell’Italia postunitaria e verista e pubblica, nel 1894, il suo capolavoro “I Viceré”, di cui si legge ed esamina il volume inserito nella collana “I grandi classici” Crescere edizioni del 2011. L’opera è un vasto quadro sociale incentrato sulla storia di un’antica famiglia nobile siciliana, di cui vengono analizzate con implacabile freddezza le tare ereditarie, l’avidità interessata e la sete di dominio. Postumo, nel 1929, uscì “L’imperio”, purtroppo rimasto incompiuto, che continua I Viceré, narrando la scalata al successo politico dell’ultimo rampollo della famiglia Uzeda, Consalvo. 

Il romanzo narra le vicende della nobile famiglia siciliana degli Uzeda, discendente da antichi viceré spagnoli dell’isola, intrecciandole con gli avvenimenti storici tra il ’50 e l’80. Odi, cupidigie, meschinità, rivalità si agitano tra i numerosi componenti della famiglia, che sono perpetuamente in conflitto tra loro e sono uniti solo dall’orgoglio di casta e dalla difesa dei loro privilegi e della loro superiorità sociale. Tuttavia la decadenza della razza si rivela in un germe di follia che si manifesta in ciascuno di essi: tutti sono segnati da fissazioni e stranezze. La sete ossessiva di dominio caratterizza anche l’ultimo discendente, Consalvo, protagonista della parte finale del romanzo, che, dopo un’adolescenza dissipata, affronta con ambizione smodata e totale cinismo la carriera politica, abbracciando con opportunismo, lui aristocratico e intimamente reazionario, idee di sinistra. Egli è infatti convinto che al di là di ogni rivolgimento storico nulla può veramente mutare e che i privilegiati devono sapersi adattare alle nuove situazioni pubbliche, come quella successiva all’unità, per mantenere intatto il loro potere. 

Emblematico il brano in cui l’attenzione è rivolta alla politica, all’interesse di casta e decadenza biologica della stirpe (parte I, cap. IX). In esso, il duca Oragua, zio degli Uzeda, proveniente da una famiglia aristocratica borbonica e reazionaria, ma divenuto liberale per calcolo e opportunismo, durante la spedizione garibaldina in Sicilia acquista una grande popolarità senza alcun merito, grazie ad alcuni gesti demagogici. Alle prime elezioni del nuovo Stato unitario si presenta candidato al Parlamento, in base al principio: “Ora che l’Italia è fatta, dobbiamo fare gli affari nostri” che suona come cinica parodia della famosa frase di Massimo D’Azeglio (Fatta l’Italia, bisogna fare gli italiani). Contemporaneamente, dopo anni di attesa e di delusioni, la nipote Chiara sta per dare alla luce un figlio.

L’episodio si fonda sul montaggio in parallelo, condotto con notevole abilità, di due diverse sequenze narrative, il parto mostruoso e l’elezione del duca d’Oragua. Tale montaggio è evidentemente denso di significati che l’autore, in nome dell’impersonalità, si guarda bene dall’esplicitare, lasciando che le cose parlino da sé. Si può leggere innanzitutto in chiave naturalistica: da un lato la decadenza biologica dell’antica razza nobiliare, che ormai può solo dare origine a mostri; dall’altro, però, nonostante questo, l’inesausta sete di dominio e l’avidità interessata che inducono la nobiltà ad ogni sorta di trasformismo, senza alcuno scrupolo, pur di conservare il potere, anche ad accettare il nuovo Stato liberale e il principio delle elezioni dei rappresentanti del popolo. Ma il montaggio parallelo si può anche leggere in chiave simbolica: il mostro è l’equivalete oggettivo della mostruosità morale della famiglia Uzeda, che si manifesta sia nel cinismo dei suoi trasformismi politici sia nell’ottuso reazionarismo e nella chiusura ossessiva a difesa di interessi e privilegi. 

Pur attraverso l’impersonalità, traspare egualmente la dura condanna da parte dello scrittore. Ma De Roberto non prospetta alternative: la sua visione è fatalistica, come si può intuire dalla battuta del principe Uzeda: “Quando c’erano i Viceré, i nostri erano Viceré; adesso che abbiamo il Parlamento, lo zio è deputato!”.  I dominatori mantengono immutato il loro potere, nonostante ogni mutamento politico. Le trasformazioni storiche sono solo fenomeni di superficie, ma nel profondo nulla può cambiare veramente. Il suo è un pessimismo affine a quello di Verga. 

Le tecniche con cui De Roberto costruisce la narrazione impersonale sono però diverse da quelle del Verga “rusticano”. Non vi è la “regressione” della voce narrante entro la realtà rappresentata. La narrazione si fonda sul dialogo, su didascalie descrittive e informative perfettamente neutre, e su discorsi indiretti liberi dei personaggi, più vicini al Gesualdo.  La narrazione tende ad avvicinarsi alla forma teatrale. De Roberto ne è perfettamente consapevole: nella Prefazione ai processi verbali (1890) afferma infatti: “L’impersonalità assoluta non può che conseguirsi che nel puro dialogo, e l’ideale della rappresentazione obiettiva consiste nella scena come si scrive pel teatro”. Solo raramente riaffiora dall’oggettività della narrazione una mossa sarcastica, che tradisce l’atteggiamento del narratore: “il prodotto più fresco della razza dei Viceré”; “egli doveva adesso parlare alla folla, aprire finalmente il becco”.

Nel quadro evolutivo dell’Italia unificata, teatro e palcoscenico de I Viceré, le sue strutture economiche erano ancora fortemente arretrate rispetto agli altri paesi europei come Inghilterra, Francia e Germania. La classe politica al potere nel primo quindicennio unitario, la Destra storica, erede del liberalismo cavouriano, era ostile a uno sviluppo industriale, poiché da un lato riteneva che l’Italia, essendo povera di materie prime, non avesse i requisiti adatti, e dall’altro temeva che il sorgere dell’industria, creando un proletariato di fabbrica, potesse generare enormi problemi sociali e innescare pericolose tensioni eversive, come accaduto in altre nazioni europee. Preferì quindi assegnare all’Italia la funzione meno avanzata di paese agricolo-commerciale, ritenendola più consona alle sue risorse naturali e alle sue tradizioni culturali. Convinta assertrice del libero scambio, applicò a tutto il territorio nazionale le tenui tariffe doganali del Regno di Sardegna, per favorire l’esportazione dei prodotti agricoli (vino, olio, agrumi) e l’importazione dai Paesi stranieri di prodotti industriali di cui vi era necessità, in una specie di divisione del lavoro internazionale. Una politica di industrializzazione avrebbe invece avuto bisogno di tariffe doganali molto alte, per proteggere i prodotti industriali interni dalla concorrenza di quelli esteri, più a buon mercato, per i minori costi derivanti da un’organizzazione più avanzata della produzione.

La scelta liberoscambista ebbe effetti disastrosi sulle industrie del Mezzogiorno, che sotto i Borboni erano state fortemente protette dai dazi, e che furono rapidamente spazzate via dalla concorrenza internazionale nei primi anni dell’Unità.

Il quadro comincia a cambiare con la svolta segnata dall’avvento della sinistra al potere (1876), che coagula gli interessi di gruppi sociali diversi. Tra questi gruppi cominciano ad avere peso anche gli imprenditori industriali. Le politiche della Sinistra subiscono il fascino del modello prussiano (non si dimentichi che l’Italia, rovesciando le tradizionali alleanze risorgimentali, nel 1882 si era unita con Prussia e Austria nella Triplice Alleanza) e inaugurano una politica di potenza, che spinge necessariamente alla corsa agli armamenti. Si potenziò l’industria siderurgica e in questo settore l’intervento dello Stato fu massiccio: esemplare il caso delle grandi acciaierie di Terni, fondate nel 1884, le quali avevano soprattutto il compito di fornire corazze e proiettili alla marina militare. 

Accanto a questi impulsi all’industrializzazione patrocinati dallo Stato, un altro fattore si aggiunse a partire dal 1880: la crisi agraria, in conseguenza dell’arrivo nei mercati europei di enormi quantità di grano americano a buon mercato, che fa crollare i prezzi. L’effetto di tutto ciò fu un ulteriore impoverimento del Mezzogiorno che, già privato delle primitive industrie dalla politica liberoscambista, si vede ora danneggiato dal protezionismo nell’esportazione di prodotti pregiati (vino, olio, agrumi) ed è costretto a comprare prodotti industriali a prezzo maggiore dal Nord, che nel frattempo si è andato industrializzando: il rapporto tra il Sud e il Nord si precisa sempre più come un rapporto di tipo coloniale, fondato sullo scambio ineguale “prodotti agricoli contro prodotti industriali”. Si profila quindi nettamente, sin dai primi decenni dell’Unità, la “questione meridionale”, quel divario nello sviluppo dell’economia e della società civile tra il Nord e il Sud della penisola.

Nonostante ritardi e limiti, l’Italia degli anni Settanta e Ottanta vedeva comunque gli inizi di uno sviluppo capitalistico moderno, che tendeva, come al suo sbocco inevitabile, all’industrializzazione. Se ai nostri occhi, col senno di poi, quei primi fenomeni della modernizzazione appaiono molto timidi e arretrati, con ben altra forza dirompente dovevano presentarsi agli occhi di chi viveva immerso fra essi e vi assisteva per la prima volta. Per questo le idee correnti fra scrittori e uomini di cultura di quegli anni avevano come termine di riferimento, esplicito o implicito, la nuova realtà economica e sociale che si andava affermando. Ancora, però, le masse rurali, al Nord come al Sud, rimanevano totalmente estranee al nuovo Stato unitario, ne ignoravano i principi ispiratori, non sapevano neppure chi fosse il re o contro chi si combattevano le guerre in cui erano chiamati a morire. Significativo è l’episodio dei Malavoglia in cui, nel piccolo villaggio di pescatori siciliani, giunge l’eco della battaglia di Lissa (1866, scontro navale sul mar Adriatico, nell’ambito della terza guerra di indipendenza tra la marina imperiale austriaca e quella italiana) durante la quale muore Luca, come un fatto favoloso, avvenuto non si sa bene dove e perché.

 I ceti popolari continuano a vivere in un’altra dimensione, estranea a quella della società civile, relegati in un orizzonte linguistico puramente dialettale e in una cultura tradizionale, folklorica, magica e primitiva. Queste condizioni erano più gravi al Sud, data la situazione di maggiore arretratezza di quelle regioni, ma il quadro non è tanto differente anche al Nord. Nonostante l’unificazione politica vi erano insomma due Italie, non solo in senso geografico, ma anche in senso sociale: una frattura netta, una vera barriera separava i ceti superiori dotati di istruzione, di un reddito e di condizioni di vita civili, e le masse popolari. In quel momento mette radici quel fenomeno doloroso e di grandiose proporzioni, che fu l’emigrazione all’estero in cerca di lavoro; fenomeno che interessò non solo il Sud, ma le masse proletarie di tutta la penisola.

De Roberto, con I Viceré, fornisce un affresco dai toni forti e disillusi dell’Italia pre e post unità, da cui emerge il fallimento degli ideali risorgimentali e la descrizione impietosa e ironica del popolo italiano. Quando venne pubblicato il romanzo, c’era stato da poco lo scandalo della Banca Romana e la fondazione della Banca d’Italia; erano scoppiate le manifestazioni dei Fasci Siciliani dei lavoratori; Giolitti si era dimesso e Francesco Crispi era salito al potere. Quella dello scrittore appare come una vera e propria denuncia al tradimento degli ideali risorgimentali in una Italia abitata da loschi arrivisti, nobili opportunisti, determinati a non perdere ricchezze e prestigio sociale, politica clientelare. Un libro che sradica la visione romantica e idilliaca dell’Italia unita e riporta alla luce un processo lungo e complesso, non privo di corruzione, lotte di potere, lacerazioni e spregiudicato trasformismo. Un romanzo sempre attuale che può contribuire a comprendere meglio l’Italia di oggi.

Sonia Di Furia

Sonia Di Furia: laureata in lettere ad indirizzo dei beni culturali, docente di ruolo di Lingua e letteratura italiana nella scuola secondaria di secondo grado. Scrittrice di gialli e favolista. Sposata con due figli.

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