La Torre d’Avorio di Paola Barbato è un thriller psicologico potente e avvincente, che ridefinisce il genere con profondità emotiva, complessità narrativa e personaggi femminili indimenticabili. Non è solo una storia: è un viaggio dentro la colpa, l’amore deviato e le identità spezzate. Un romanzo capace di inchiodare il lettore e trascinarlo in un labirinto di relazioni, traumi e ricordi sepolti.

Protagonista della storia è Mara Paladini, un tempo conosciuta come Mariele Pirovano. Due nomi, una sola donna. Due coscienze che convivono nello stesso corpo.
Mariele è la madre che ha avvelenato la propria famiglia con lentezza e meticolosità. Non per odio, ma per amore. Affetta dalla sindrome di Münchhausen per procura, credeva che far ammalare fosse un modo per proteggere, per essere indispensabile, per salvare. Per diventare la madre perfetta. “Luca, Andrea e Clara…L’unico modo che avevo per sentirmi vicina a loro era questo. Non conosco altra maniera di amare. Se amo, avveleno, e poi curo. Non esiste formula diversa, per me”, rivela la protagonista. Mara, invece, è la donna che ha preso coscienza dell’abisso che portava dentro. Ha scontato la sua pena, cambiato città, assunto una nuova identità. Ma il passato non si lascia cancellare così facilmente.
All’interno della sua nuova casa a Milano, Mara ha costruito la sua “torre d’avorio”, che dà il titolo al romanzo. Una torre reale e metaforica, realizzata con scatoloni bianchi che delimitano lo spazio e conservano i ricordi di una vita passata. Un sistema chiuso, progettato con precisione quasi enigmistica, dove ogni passaggio è calcolato al centimetro, ogni apertura è sorvegliata. Una torre labirintica e claustrofobica, in cui Mara ha deciso di continuare a punirsi per ciò che ha commesso, ma soprattutto per imporsi fisicamente un senso di colpa che sul piano emotivo non riesce a provare. Questa è la soluzione che Mara ha trovato per impedire a sé stessa di fare ancora del male alle persone che ama: vivere in totale isolamento e non amare. Non amare mai più nessuno.

Quando, però, un evento imprevisto rompe l’equilibrio di Mara, la torre comincia a crollare, lasciando entrare il sospetto e la paura. Una piccola macchia di umidità nel suo appartamento la costringe ad andare al piano di sopra e a scoprire il cadavere del suo vicino, assassinato con la digitalis purpurea, lo stesso veleno utilizzato da lei per avvelenare la sua famiglia. Diventa subito chiaro che qualcuno vuole incastrarla.
Da qui, il romanzo accelera e si apre a un mondo di fughe, incontri e rivelazioni. Tornano le donne del REMS, la struttura psichiatrico-giudiziaria dove Mara ha vissuto per otto anni: Moira, Fiamma, Maria Grazia e Beatrice. Donne diversissime tra loro, unite da una frattura profonda dell’identità. Non si sono scelte: si sono trovate nella stessa rovina e lì hanno costruito un legame che non ha bisogno di parole e che nasce da una sopravvivenza condivisa.
La Barbato le tratteggia con affetto e, al tempo stesso, ferocia, donando a ciascuna una voce, un passato e una dignità. C’è qualcosa di cinematografico nella loro coralità: l’eco di Thelma e Louise e di Ragazze Interrotte. L’amicizia tra queste donne è una delle componenti più affascinanti del romanzo. È un filo invisibile che resiste al tempo, al silenzio, persino al tradimento. Personaggi vivi, intensi, scolpiti con sensibilità e precisione dalla Barbato, che in ciascuna di loro ha lasciato – come dice in chiusura del libro – un pezzo di sé.
Lo stile del romanzo è ipnotico, il ritmo serrato ma mai artificiale. Ogni svolta narrativa è giustificata, ogni colpo di scena ha un prezzo. La Barbato racconta questa storia con mano precisa, e non ha timore di spingersi nel grottesco. Lo fa con consapevolezza e rigore. Ecco allora che una madre che avvelena i figli – senza sensi di colpa, perché crede di amarli – diventa una figura troppo scomoda per sembrare credibile. Tutto troppo, qualcuno potrebbe obiettare. Ma forse è proprio questo il punto: disturba perché può essere reale. La Torre d’Avorio non cerca il realismo convenzionale: vuole turbare, interrogare, scuotere il lettore. Non su ciò che è probabile, ma su ciò che è possibile.
Il male, ci ricorda la Barbato, non è sempre eccesso di violenza: è anche distorsione dell’amore, manipolazione, cieca dedizione. E può annidarsi dove meno lo aspettiamo. Chi lo rifiuta come esagerazione, forse, lo sta solo negando per paura.
Ma questo non è un romanzo sul male. E non è neppure un romanzo sull’assoluzione. Mara non vuole essere perdonata. Non cerca redenzione, né comprensione. La Torre d’Avorio è un romanzo sull’accettazione del proprio abisso, sull’impossibilità di separare definitivamente il prima dal dopo, sull’eredità di ciò che abbiamo fatto e che continua a camminarci accanto.
Questo thriller psicologico non lascia indifferenti. Si legge con disagio e con smarrimento crescente. E quando si arriva alla fine, non resta un messaggio chiaro da portare con sé, ma un dubbio che continua a parlare anche dopo l’ultima pagina:
È davvero possibile cambiare?
Si può vivere dopo aver scoperto di essere stati il nemico?
Angela Molinaro

Angela Molinaro: Laureata in Filologia Classica, insegna Latino, Greco e Cultura dell’Antichità nel cuore dell’Inghilterra. Ama trasmettere ai suoi studenti il fascino del mondo antico e la bellezza della parola. Viaggia con la stessa curiosità con cui legge: per incontrare mondi e conoscere storie. Per questo vive con la valigia sempre pronta e un libro nello zaino. Scrive e collabora con case editrici e riviste letterarie per dare forma a pensieri che nascono tra una lezione, un aereo e le fusa dei suoi due gatti neri.

