Miklós Mészöly: “La morte dell’atleta” (Hopefulmonster, trad. Mariarosaria Sciglitano), di Vincenzo Vacca

Miklós Mészöly (1921 – 2001) è stato un importante scrittore ungherese che ha segnato significativamente la narrativa internazionale e non solo quella ungherese. Non a caso è stato considerato dalla generazione successiva di scrittori uno dei più importanti maestri. 

Egli ha sempre gelosamente conservato una indipendenza intellettuale dal regime comunista. Ha fatto parte di quella generazione che visse in giovane età la Seconda guerra mondiale e la variante ungherese dello stalinismo, subendo a lungo la censura. Fu relegato al margine e costretto alla situazione forzata di dover coltivare generi letterari di sussistenza. 

Ma questo non gli ha impedito di scrivere degli autentici capolavori, tra cui “La morte dell’ atleta”. In realtà, Mészöly giunse tardi a costruirsi un nome, solo negli anni sessanta. Tra l’ altro, di lui fu molto apprezzato il fatto che, come già accennato, non scese mai ad imbarazzanti compromessi con il regime comunista nemmeno dopo il 1956.

Il romanzo di cui sto scrivendo (tradotto da Mariarosaria Sciglitano), terminato nel 1961, vide le stampe solo nel 1966 e soltanto perché era stato già pubblicato in francese. 

Questo convinse le autorità ungheresi che sarebbe stato più un danno vietarne la pubblicazione che permetterla.

Alla fine, il libro risulta tradotto in ben dieci Paesi.

Il libro racconta della morte di un famoso atleta avvenuta in circostanze misteriose. Una morte preceduta da eventi strani che contribuiscono, ed è una caratteristica dell’ intero libro, a creare una atmosfera satura di ambiguità che dà al lettore la precisa sensazione che di tutto quello che si dicono i protagonisti, in realtà, c’è sempre qualcosa che non viene fino in fondo esplicitato. 

A questo proposito, è il caso di precisare che la storia è parte integrante di un soffocante clima postbellico sfociato in una dittatura.

Pertanto, si rendono protagonisti anche coloro che leggono il libro. Li si invita, implicitamente, a immaginare cosa c’è dietro al non detto.

La voce narrante del libro è Hildi, la compagna innamorata di Bálint Őze, il corridore che viene trovato morto e del quale Hildi ripercorre tutta la sua vita anche nel disperato tentativo, nel raccontarla, di scoprire le circostanze vere che hanno causato la morte.

Hildi, infatti, è stata incaricata da una casa editrice di scrivere un mémoire e anche nelle modalità di questo incarico traspaiono delle zone d’ombra, delle reticenze da parte di chi affida questo compito letterario.

Hildi dimostra fin dall’ inizio di avere una ammirabile capacità di comprensione dell’ altro conquistando il lettore. Lei dice: “…questo non è ancora il libro che vorrei scrivere su di lui. È piuttosto una raccolta dati esitante per conoscere finalmente colui con il quale ho convissuto dieci anni… gli uomini non si staccano mai definitivamente da un periodo della loro vita o da un altro. Si portano dietro tutto come se per qualche motivo ne dovessero aver bisogno di continuo…”

Il testo, a conferma di ciò, restituisce al lettore una giustapposizione di diversi piani temporali costruita anche in modo inquietante.

Un testo non lineare che decostruisce e ricostruisce, nel senso che offre una storia senza preamboli, senza un inizio, uno sviluppo e una conclusione, un vero e proprio smantellamento della forma narrativa unitaria. 

Anche qui sta la genialità dello scrittore in questo libro, nella sua capacità di scrivere l’ essenziale accettando la frammentarietà e l’ oscurità che ne consegue.

La lettura consente di entrare in pieno nel contesto ambientale descritto, senza alcun infingimento. Fa assaporare, non facendo sconti di sorta e non sconfinando nella retorica, l’ assetto pumbleo e asfittico in cui vivono i protagonisti del romanzo. 

Credo che questa scelta stilistica sia dipesa molto dal rifiuto del cosiddetto realismo socialista che voleva dettare le scelte artistiche e che ha dominato per tanti anni l’ Ungheria.

Parte fondamentale del libro è il gruppo di amici di Bálint. Una amicizia nata da quando erano poco più che bambini, la cui natura e intensità furono tali da aver segnato in modo significativo quello che diventerà un famoso atleta.

Amici accomunati da un imprescindibile desiderio: raggiungere un primato nella vita, ma questo, paradossalmente, fece maturare in Bálint un carattere solitario. 

Un corridore di successo che era sostanzialmente un uomo che affrontava senza riguardi le domande fondamentali della vita. 

Infatti, era una persona che non si crogiolava nel successo sportivo ottenuto, mantenendo uno sguardo sui rapporti interpersonali e sull’ ambiente sociale che questo generava.

Una persona che aspirava alla purezza, se non addirittura all’ assoluto e, conseguenzialmente, cozzava con le impurità degli esseri umani che incontrava.

Lo stile di scrittura affascinante e coinvolgente di Mészöly è tale che non tratteggia lo stato d’animo, l’ umore di un personaggio, bensì lo scrittore lo proietta sull’ ambiente circostante e, mediante questa modalità di narrazione, il personaggio viene caratterizzato indirettamente dalla descrizione di ciò che si vede confermando, quindi, che ci si affida alla capacità interpretativa del lettore.

Leggere “La morte dell’ atleta” diventa una imperdibile occasione per riscoprire Miklós Mészöly. Temo che in Italia sia per lo più sconosciuto. 

È un vero peccato, perché dalla lettura di questo libro si percepisce nettamente la sua grandezza letteraria e aver impedito da parte del regime ungherese dell’ epoca la libera espressione artistica di Mészöly per molti anni ha sottratto a tutti i suoi lettori, per tutto quel periodo, di nutrirsi di un pezzo importante della letteratura mondiale. 

È giunto il tempo di recuperare anche perché, a mio avviso, se si tiene conto del rapporto tra passato e presente, “La morte dell’ atleta ” può fornirci altresì qualche elemento di riflessione sulla odierna illiberale situazione ungherese.

Vincenzo Vacca

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