Venerdì 12 agosto 2022, alle undici meno un quarto di una mattinata di sole, nel nord dello Stato di New York, sono stato aggredito e quasi ucciso da un giovane armato di coltello.
Così inizia “Coltello”, l’ultimo lavoro di Salman Rushdie, il libro che lo scrittore indiano naturalizzato britannico “non avrebbe mai voluto scrivere”, meno di trecento pagine dedicate alle Donne e agli Uomini che gli “hanno salvato la vita”.
L’Autore ricostruisce i momenti salienti dell’aggressione di cui è stato vittima, all’età di 75 anni, a più di trent’anni dalla fatwa emessa dall’ayatollah Khomeyni, guida suprema dell’Iran, pronunciata contro di lui per la pubblicazione de “I versi satanici” del 1988, romanzo ispirato a fatti realmente accaduti, che parlava di sradicamento, razzismo e soprattutto di fanatismo religioso.
L’attentato è avvenuto nel corso di una conferenza ad opera di un ventiquattrenne americano di origine libanese di fede islamica, che ha sferrato in 27 secondi una quindicina di coltellate sul corpo della vittima determinando danni irreversibili: la perdita definitiva di un occhio e dell’uso di alcune dita di una mano.

Come se ripercorresse quegli attimi al rallentatore, Rushdie scrive:
Alla vista di quella sagoma assassina lanciata contro di me, il mio primo pensiero è stato: “sei tu, dunque. Eccoti qui”.
E più avanti:
Il mio secondo pensiero è stato: “Perché ora? Davvero? È passato così tanto tempo. Perché proprio adesso dopo tutti questi anni?”. […] in quel momento, c’era una sorta di viaggiatore del tempo che avanzava rapido verso di me, un fantasma assassino giunto dal passato.
Nel libro Rushdie non sembra aver voglia di approfondire più di tanto le motivazioni dell’attentatore. Al centro della storia in effetti c’è un incontro immaginario tra la vittima ed il suo carnefice, ma le domande dell’autore vanno a sbattere contro i silenzi del suo aspirante assassino. Lo chiama “A.”, a mo’ di vendetta, per evitare perfino di menzionarlo con il suo nome. Poco gli interessano le ragioni di un uomo che congegna l’uccisione di un altro essere umano (che peraltro non conosce affatto) e che decide di eseguire una condanna a morte basata sulle pagine di un’opera di cui non ha mai letto un rigo (per la precisione l’attentatore confesserà di averne letto due pagine).
Siamo piuttosto di fronte ad una raccolta di scene a volte orribili, altre delicate, che raccontano come in un rosario ogni singola sofferenza e gli stadi di un lungo e miracoloso processo di guarigione; il tutto intriso di quell’ironia e di quell’arguzia che sono tra i tratti distintivi dell’opera di Rushdie. Quell’autoironia molto britannica che si trova per esempio laddove lo scrittore descrive di essere a terra tra la vita e la morte e si rammarica per il suo bell’abito Ralph Lauren irrimediabilmente macchiato di sangue, da tagliare per la verifica delle ferite. O l’umorismo nero di quando parla della perdita dell’occhio destro che penzola sul viso “come un uovo a malapena sodo”. O ancora quando si rallegra per il fatto che settimane di ricovero in ospedale gli hanno tolto i chili di troppo, aggiungendo tra parentesi “(anche se tutti concordavamo sul fatto che non fosse un tipo di dieta da consigliare)”.
Ma Il coltello può considerarsi anche come una lunga lettera di riconoscenza alla sua ultima moglie, la scrittrice Rachel Eliza Griffiths, a voler dimostrare che non si sarebbe potuto umanamente tollerare tutto quell’odio senza l’amore ricevuto nella lunga convalescenza. Il racconto di Rushdie del loro primo incontro a una festa nel 2018 è degno di una commedia di Woody Allen. Lo scrittore, confuso dalla bellezza di Eliza, si rompe gli occhiali sbattendo contro una vetrata e finisce a terra col volto coperto di sangue. Quell’occasione avrà un esito felice: la futura moglie lo accompagna a casa e, da quel momento, resterà con lui.

Il coltello si avvia alla conclusione con una scena magnifica nella sua crudezza. Tredici mesi dopo l’attentato, lo scrittore decide di tornare “sul luogo del delitto” in compagnia di Eliza (che non era presente il giorno della conferenza), passando prima per la prigione dove è rinchiuso il terrorista. Ovviamente non ha nessuna intenzione di andarlo a trovare. Di fronte al carcere della contea, Rushdie viene preso, piuttosto che dal dolore, da una felicità che non avrebbe mai immaginato: è felice di essere vivo, mentre A. è dietro le sbarre in attesa del processo.
Forse, nei decenni di carcere che ti aspettano, imparerai l’introspezione e arriverai a capire di aver fatto una cosa sbagliata. Ma sai che c’è? Non mi interessa. […]. Non m’interessa nulla di te, né dell’ideologia di cui ti proclami rappresentante e che rappresenti così miseramente. Io ho la mia vita, e il mio lavoro, e ci sono persone che mi vogliono bene. Queste sono le cose che mi interessano.
La tua intrusione nella mia vita è stata violenta e mi ha provocato dei danni, ma ora la mia vita è ripresa, ed è una vita piena d’amore. Non so che cosa riempirà i tuoi giorni da carcerato, ma sono abbastanza sicuro che non sarà l’amore. E se mai penserò a te in futuro, lo farò con una noncurante scrollata di spalle. Non ti perdono, ma nemmeno ti odio. Sei semplicemente irrilevante per me. E d’ora in poi, per il resto dei tuoi giorni, sarai irrilevante anche per tutti gli altri. Sono felice di avere la mia vita e non la tua. La mia vita continua.
Nell’espressione spietata del suo disprezzo, c’è tutto l’orgoglio e il trionfo dello scrittore, che scongiura il male e la morte e cura le ferite attraverso le parole; che è consapevole di aver risposto armato con la penna e con l’Arte al tumulto delle avversità e della violenza; che sa finalmente di aver vinto – con il lascito dei suoi libri – anche il timore di essere ricordato più per la fatwa e per il suo status di vittima che per le sue qualità artistiche.
Il coltello, sottotitolato “meditazioni dopo un tentato assassinio” si aggiunge ai saggi dell’ampia bibliografia di Rushdie. Il lettore che ha conosciuto i suoi romanzi più famosi non resti deluso dalle scarse qualità letterarie di questo libro. Qui giocoforza manca la fantasia delle sue opere migliori, avendo l’autore l’obiettivo di evocare soprattutto i fatti della propria drammatica esperienza. Come succede però nei buoni saggi il libro è ricco di riferimenti cinematografici (da Il viaggio sulla luna a Un Chien Andalou) e letterari (dal Processo di Kafka a Re Lear, da Naguib Mahfuz anch’egli scampato ad un attentato al Saramago di Cecità). Ma alcune pagine basterebbero da sole per commuovere l’appassionato di letteratura. Sono quelle in cui Rushdie, che lentamente torna alla vita, si confronta con la morte che si annida e si annuncia tra i suoi colleghi scrittori: Milan Kundera, Hanif Kureishi, l’ultima cena a New York con Martin Amis, il cancro diagnosticato al suo grande amico Paul Auster.
Gigi Agnano

