La scrittrice e saggista palestinese Adania Shibli, che vive tra Berlino e Gerusalemme, avrebbe dovuto ricevere il 20 ottobre scorso, nell’ambito della Fiera del Libro di Francoforte, il LiBeraturpreis 2023, un premio annuale assegnato a scrittrici provenienti da Africa, Asia, America Latina e mondo arabo, con la seguente motivazione: “un’opera d’arte rigorosamente composta che racconta il potere dei confini e ciò che i conflitti violenti causano alle e con le persone“.
Il giorno stesso della premiazione, però, l’associazione LitProm che consegna il premio ha annunciato che avrebbe rinviato la cerimonia “a causa della guerra iniziata da Hamas, di cui soffrono milioni di persone in Israele e Palestina“.
Una lettera aperta – firmata da più di 350 autori, tra cui i premi Nobel per la letteratura Annie Ernaux, Abdulrazak Gurnah e Olga Tokarczuk, i vincitori del Booker Prize Anne Enright, Richard Flanagan e Ian McEwan; il romanziere irlandese Colm Tóibín, il libico Hisham Matar (vincitore del Pulitzer 2017), e la scrittrice britannico-pakistana Kamila Shamsie – ammonisce gli organizzatori della fiera, affermando che “è loro responsabilità creare spazi aperti in cui gli scrittori palestinesi possano condividere pensieri, sentimenti e riflessioni sulla letteratura attraverso questi tempi terribili e crudeli“.
Questo episodio ha sollevato importanti questioni sul ruolo della letteratura in tempi di conflitto e sulla necessità di mantenere aperti gli spazi culturali come luoghi di dialogo e comprensione reciproca.

Il romanzo in questione è Un dettaglio minore, pubblicato in Italia nel 2021 da La nave di Teseo per la traduzione di Monica Ruocco. Si compone di due storie correlate: la prima – realmente accaduta – è quella dello stupro e dell’omicidio di una ragazza beduina nel 1949 per mano di un’unità dell’esercito israeliano, raccontata da un ufficiale responsabile dell’azione; l’altra, conseguenza della prima, è quella – immaginaria – di una giornalista palestinese di Ramallah che, diversi decenni dopo, per indagare sul crimine, intraprende un viaggio verso il sud del Paese, sfidando i limiti consentiti dalla legge israeliana per la sua carta d’identità.
Il primo racconto inizia con un plotone israeliano che si accampa nel Negev, al confine desertico con l’Egitto. Siamo tra il 9 e il 13 agosto 1949, un anno dopo la Nakba (700 mila palestinesi espulsi dalle loro case e allontanati dalle proprie terre), e quei soldati hanno il compito di rastrellare la zona e di ripulirla dagli arabi rimasti. Le giornate trascorrono lente e monotone – “Tutto era immobile, tranne i miraggi” -, ma durante un pattugliamento di routine, alcuni militari si imbattono in un gruppo di nomadi che viene immediatamente sterminato. L’unica sopravvissuta è una giovane donna che, presa prigioniera, è portata al campo. Sarà l’ufficiale stesso a violentarla e a ordinarne l’uccisione. Ed è lui a raccontare ai lettori sconcertati gli stupri e le violenze con un linguaggio freddo, giornalistico, concreto, che non denota alcun tipo di emozione. La scelta stilistica è particolarmente significativa: il distacco emotivo del primo narratore amplifica l’orrore degli eventi narrati. La sua prosa burocratica riflette una disumanizzazione che va oltre il singolo episodio, diventando metafora di una violenza generalizzata e “necessaria”.
Il romanzo poi si sposta nello spazio e nel tempo. A Ramallah, una donna palestinese, ossessionata da un articolo di giornale che rievoca quell’omicidio avvenuto anni prima, vuole avviare un’indagine per ricostruire gli avvenimenti assumendo il punto di vista della vittima. Da qui il viaggio verso sud, attraverso villaggi devastati, in direzione di un sito nei dintorni di Rafah. Anche in questa seconda parte la narratrice (come l’ufficiale della prima) resta impassibile di fronte al fallimento della sua ricerca. Emerge però il desiderio e, quindi, l’ostinazione di voler correggere i torti storici attraverso la scrittura. E affiora sempre più incalzante il desiderio di restituire libertà rappresentando la brutalità della vita quotidiana in un Paese occupato. La paralisi della narratrice di fronte all’impossibilità di ricostruire la verità storica diventa essa stessa una potente metafora della condizione palestinese contemporanea: la ricerca di giustizia si scontra continuamente con barriere fisiche e metaforiche, negazioni e cancellazioni.

“La strada che, fino a qualche anno fa, mi era familiare era più stretta e con più curve, mentre questa è abbastanza larga e diritta. Su entrambi i lati sono state erette pareti alte cinque metri, oltre le quali ci sono molti edifici nuovi, raggruppati in insediamenti che prima non esistevano oppure non erano facilmente visibili, mentre la maggior parte dei villaggi palestinesi che si trovavano qui è scomparsa. Alzo lo sguardo, spalancando bene gli occhi alla ricerca di una traccia di quei villaggi con le loro case, che ricordo disseminati qua e là come rocce sulle basse colline, collegati tra loro da strade strette e tortuose che si diramavano in molteplici deviazioni, ma è inutile. Non riesco a scorgere nulla. Più guido, meno riesco a capire dove sono! Finché, a sinistra, mi accorgo di un’altra strada secondaria che è stata chiusa. A questo punto mi rendo conto che in passato avevo davvero percorso quella strada decine di volte, e quella che ora è interrotta da un cumulo di terra e da massicci blocchi di cemento era la strada che portava al villaggio di al-Jib.“
La prosa di Un dettaglio minore descrive minuziosamente ogni movimento compiuto da entrambi i protagonisti: nella prima parte l’ufficiale si lava, si cambia i vestiti, cerca insetti, si scalda col corpo della giovane beduina; nella seconda parte la donna scende dall’auto, apre il cancello, torna in macchina. Ma, mentre l’ufficiale si muove sicuro, senza particolari ansie, i movimenti della donna sono costantemente dettati dalla paura. Questa attenzione ossessiva al dettaglio fisico ha un duplice scopo narrativo: da un lato accentua il realismo del racconto, dall’altro evidenzia il contrasto tra la libertà dell’oppressore e la precarietà dell’oppresso. La Shibli mostra come il calvario di un popolo possa essere fatto di innumerevoli insostenibili “dettagli minori”. Il titolo del romanzo sottende una penosa ironia: ciò che viene presentato come “dettaglio minore” è in realtà il cuore della tragedia, per cui ogni singolo atto di violenza, apparentemente isolato, si rivela parte di un più ampio, sistematico “memoricidio”. E’ infatti proprio in quello spazio apparentemente marginale della Storia con la “S” maiuscola che la Letteratura trova la sua ragion d’essere più profonda. Mentre gli archivi custodiscono i “grandi eventi”, i documenti ufficiali, le date e i nomi della narrazione dominante, la Letteratura si insinua negli interstizi, recuperando ciò che la Storia ha ritenuto di tralasciare. La violenza sulla giovane beduina – un episodio assente negli archivi militari, che non è stato registrato nelle cronache del tempo – diventa attraverso la scrittura della Shibli non solo un atto di resistenza alla rimozione, ma anche una potente metafora della capacità della Letteratura di lasciare una traccia di ciò che è stato silenziato.
Gigi Agnano


