Intervista a Vladimiro Bottone per “Il peso del sangue” (Solferino), di Daniela Marra

Questo è un libro coraggioso. Scuote, divide, potenzialmente scandaloso, mette alla prova il lettore, che si trova smarrito nell’incertezza, perdendo gradualmente i suoi punti di riferimento. L’incedere della narrazione è serrato, un ritmo da noir, dove nulla è scontato. Tuttavia l’autore resta sempre onesto con il lettore e lascia tracce, briciole di senso, niente è lasciato al caso. 

Vladimiro Bottone innesca bombe e chi ci cammina su viene irrimediabilmente colto dallo scoppio, barcollando sul baratro delle ambiguità e delle ambivalenze che accompagnano tutta la storia. Se ne esce destabilizzati. 

L’ambientazione storica degli anni della Repubblica di Salò è stata la prima scelta coraggiosa dell’autore, anni oscuri che fanno da sfondo a sentimenti oscuri, ambivalenti, ambigui. È come se una cortina fumosa stazionasse sulla Torino del ’44, una nebbia tossica rossastra, che ha il sapore ferroso del sangue, sangue versato, sangue oscuro, sangue ingrato, rancoroso, ambiguo, perturbante e nessuno se ne salva. Impregna ogni vita, ogni storia, ogni sentimento nella carne fino alle ossa.  Sono gli anni precari che precedono la fine del conflitto, tra una guerra civile senza fronte, guerriglie e terrorismo, deportazioni e resistenze.

Una giovane ebrea in fuga, bella, audace e colta, Myriam, incontra il commissario Troise, fascista napoletano che da poco si è trasferito a Torino per affari segreti. Dal loro incontro deflagra una storia tra Eros e Thanatos, un amore ambiguo dove vittima e carnefice si fondono e si confondono fino a svelare, in un gioco di specchi, tutta l’oscurità che preme in ognuno di loro. La stessa Myriam è una creatura inquieta, oscura, ambivalente, non la solita ebrea buonista da fiaba postbellica, non l’eroina che lava il mondo dai peccati, basta leggere le prime pagine per trovarsi invischiati nella carne e nel sangue di una giovane donna che morde la vita senza esclusione di colpi, nessun vittimismo, nessun ripensamento, nessun sacrificio.  Colpisce la consapevolezza di tutta l’oscurità che la abita, un’autocoscienza che pulsa nel suo sangue e la rende oscura.

 Accanto ai protagonisti una galleria di personaggi regola la temperatura emotiva del romanzo, è un’oscillazione involontaria di sentimenti ambivalenti in cui il lettore si trova immerso senza possibilità di fuga. Ne parlo con l’autore in un dialogo che approfondisce alcuni aspetti del romanzo.

-Vladimiro ti sembrerà poco ortodosso non aprire il nostro dialogo sui cosiddetti protagonisti ma con un personaggio marginale che mi ha colpito notevolmente, ossia Carlo.

Invece è una piacevole sorpresa perché di solito l’attenzione viene molto accentrata da Myriam e Troise, che obbiettivamente hanno una statura protagonistica e sono l’origine della storia, però Carlo è un personaggio importante. Quando viene messo in risalto sono particolarmente soddisfatto come autore perché era un personaggio sul quale puntavo.

– Carlo sembra incarnare la contraddizione e l’ambivalenza che guida tutta la narrazione. E’ un personaggio abissale, ctonio, legato alla profondità oscura della psiche, come oscuro è il suo sangue. Mi fa pensare a l’archetipo di Efesto, non solo per la sua zoppia, per essere considerato uno scarto, per la sua indole rancorosa, ma anche per la potenza delle pulsioni che lo portano a compiere il suo destino, per quanto discutibile sia il modo.

Questo sai cosa dimostra? Ed è veramente molto interessante. Come gli archetipi e i miti vivano in noi anche quando non ce ne accorgiamo. Ho dato a Carlo questa zoppia senza pensarci, per una necessità narrativa: un giovane uomo che sta terminando gli studi universitari doveva necessariamente arruolarsi nell’esercito della Repubblica di Salò. Carlo non viene arruolato per via della sua menomazione fisica. E qua miti e archetipi suggeriscono all’autore. Carlo è uno dei personaggi su cui il peso del sangue è più forte perché proviene da un sangue oscuro, di qui la sua sofferenza. Lui è il primo e l’unico della famiglia ad aver studiato. La sua è una famiglia proletaria, di operai, di anonimi e Carlo vuole riscattarsi a ogni scosto da questa mediocrità. Perciò si laurea e diventa uno studioso, mettendosi sulla scia di un importante storico dell’arte, il professor Alberganti.

– Questo riscatto a tutti i costi è l’unica certezza che Carlo possiede e non ammette smarrimenti o ripensamenti. Cosa ne deriva?

Negli anni dell’università Carlo si farà mantenere dalla polizia politica del regime e nello specifico da Troise, il quale nel momento in cui scoppia la guerra civile dal settembre del ’43 all’aprile del ’45 viene a chiedere qualcosa in cambio.

– Ed è proprio da questo momento in poi che Carlo rivela un’identità spiccatamente ambivalente. Un giovane uomo mosso da profonde contraddizioni e piegato dalla storia personale e schiacciato dalla grande storia. Carlo tradito o traditore? Vittima o carnefice?

Carlo deve saldare un debito, deve ora più che mai infiltrarsi in determinati ambienti per informare Troise di cosa bolle in pentola. Quindi sotto certi aspetti è anche una vittima oltre che colpevole di aver calpestato dei principi di moralità pur di riscattarsi dal peso del sangue. Ha tradito i suoi compagni di studi, altre persone, continua a tradire tutti…

-Ma non tradisce Emanuela.

Esatto! Questo è un punto centrale. Carlo mostra elementi di debolezza, per alcuni aspetti è anche sordido, ma nella sua natura si nasconde un frammento di diamante: la passione non ricambiata per Emanuela. Un personaggio che possiamo anche a ragione considerare negativo, ma che contempla un aspetto di positività, proprio perché la mia idea di personaggio è questa: il narratore deve mostrare qualcosa di non scontato, che il lettore non sospetta e non si aspetta. 

– Carlo è una chiave, una sintesi di quelle forze che muovono le grandi tragedie classiche. E tutta la storia ne è imbrattata. Agisce Eros, quella forza irrazionale che si manifesta all’improvviso, in un attimo che possiamo definire fatale, possiede la potenza del cambiamento. Così i personaggi si trovano di fronte a rovesciamenti, voragini profonde e baratri sconosciuti. Ad esempio l’incontro di Myriam e Troise avviene su questo terreno: attraverso uno sguardo si mette in moto l’irrazionale che non è irragionevole. È il tempo giusto del cambiamento. Troise non decide di salvare Myriam, di portarla a casa per uno scopo, non è forse mosso da una pulsione irrazionale, una forza sconosciuta che agisce in quell’attimo?

Sì e tutto si gioca, ed è quello che nella vita mi lascia veramente stupefatto, nei pochi secondi di uno sguardo. E’ incredibile! Troise probabilmente scorge in quello sguardo una paura ancestrale, un richiamo antico di salvezza, di sopravvivenza e anche la natura perturbante di Myriam. Evidentemente lui era pronto e qui hai ragione il tempo era giusto: alcune certezze politiche stavano crollando, la sua vita era in pericolo perché durante la guerra civile si poteva essere uccisi in qualunque momento. Troise è perciò un uomo precario che al momento giusto incontra lo sguardo giusto per una svolta radicale della sua esistenza.

– Quel momento che appare irrazionale ha quindi radici profonde, e lì che una luce si proietta su Troise, un’umanità inaspettata che allontana l’ombra dell’infamia, si arriva addirittura a simpatizzare per lui. Incredibile!

E questo è un mio divertimento. Il divertimento perverso dell’autore, quello di aver costruito un personaggio che ha certamente degli stigmi negativi molto forti, perché lui è un fascista convinto, pur non essendo un convinto antisemita. Troise, potenzialmente negativo, suscita una certa simpatia. La narrativa deve aggirare gli stereotipi, le idee correnti, il già visto e il già noto e mettere in crisi le aspettative, le idee e le opinioni del lettore. Se diamo al lettore esattamente quello che lui pensa, se gli diciamo ciò in cui egli crede e soddisfiamo tutte le sue aspettative gli avremo dato il famoso biberon di camomilla prima di andare a dormire. Invece bisogna metterlo in crisi. Troise  si dovrebbe odiare potenzialmente e anche con buone ragioni, di fatto sostiene il regime, perfino nella sua ultima e peggiore incarnazione, la Repubblica di Salò. Cosa c’è di peggio che essere un vassallo del nazismo? Eppure come individuo ti ha suscitato una crisi.

– E’ un uomo ed è proprio quella sua umanità, che è un punto di aggancio fortemente emotivo per il lettore. E allora accade che quello che può essere vero a livello generale cade sul piano individuale: il fascista sfuma davanti all’uomo e assume tante sfaccettature. 

E proprio quello di cui parla il narratore che si occupa di individui. Il compito della scrittura narrativa è proprio quello, non di confermarti nelle tue certezze, anche quando sono certezze valide e fondate, di incrinarle, se no, non avrebbe senso. Leggere sarebbe superfluo.

– Un’immagine di grande potere simbolico è sicuramente quella di Troise quando, nel conforto della casa che abita con Myriam, si spoglia dalla sua camicia nera e la fa cadere a terra. Solo con la canottiera addosso Myriam riesce ad abbandonarsi a lui. Ecco che un piccolo gesto, volutamente banale, è un seme, una traccia indelebile.

E posso dire per nulla casuale. Di me si potrà dire tutto, scrivo bene, scrivo male, c’è la tensione, non c’è, tutto quel che si vuole, ma nulla di ciò che scrivo è casuale. Cogli molto bene che in quel piccolo atto c’è tutto il dramma di Myriam e di Troise. Certamente lei non può amare un fascista, infatti lo tradisce politicamente legandosi alla resistenza. Lui è un nemico, quelli come lui hanno deportato le persone del suo sangue, però quando si spoglia diventa uomo e un uomo che la ama, la protegge, la desidera e che lei a sua volta desidera. Quindi c’è il dramma di essere amanti e nemici, la tensione estrema di questa coppia paradossale. Myriam non è una donna remissiva o passiva, lei è una donna indipendente che ha un’idea chiarissima di chi è amico e chi è nemico, e Troise si pone proprio sul confine tra chi si ama e chi si odia.

– Troise e Myriam sono due solitudini, due naufraghi della storia: Myriam “sola al cospetto della sua sopravvivenza”, porta su di sé uno stigma, lei è la sopravvissuta, quindi vive un incessante senso di colpa. Smarrita e reietta non è forse lo specchio di Troise?

In effetti, possono sembrare due personaggi solo antitetici ma sono legati fatalmente da alcuni aspetti. Uno è la solitudine, perché anche Troise è un uomo solo in un luogo che non gli appartiene ed è solo rispetto alla propria sopravvivenza, perché in una guerra civile, in cui non esiste un fronte, fatta di guerriglia, terrorismo, segreti, un uomo in borghese può uscire da un portone seguirti e darti un colpo alla nuca. Myriam e Troise sono due creature estremamente precarie per quanto riguarda l’esistenza. Certo più Myriam che Troise e poi sono due creature sole ed è questo che rende possibile il loro avvicinamento, al di là del desiderio e di ciò che forse anche io non conosco. A volte il testo ne sa più dell’autore. Come la tua lettura archetipica e mitologica di Carlo su cui sto riflettendo e che trovo molto interessante. L’archetipo che inconsciamente agisce sull’autore è un’osservazione su cui riflettere.

– Forse è il motivo per cui ho riconosciuto in Carlo un grande potenziale, come anche in un altro personaggio marginale, che trovo molto interessante, simbolo di grandi contraddizioni  e di cui mi piacerebbe raccontassi qualcosa, ossia l’ebreo che denuncia i suoi correligiosi. Una bella sfida psicologica per l’autore.

Hai perfettamente ragione è una figura che mi affascina e quasi mi soggioga, l’ebreo che odia se stesso. Per motivi strutturali non potevo dargli più spazio. Avrebbe meritato un romanzo a parte. Un personaggio così ingombrante, che ha così tanto da dire, che è così tanto contraddittorio, ci vorrebbe un libro dedicato.

– Anche la paura gioca un ruolo fondamentale: in Troise è emblematico come un ideale, quello della gloria, si manifesti come nevrosi, nella forma della paura di una morte anonima e ingloriosa.

L’incontro con Myriam e le circostanze estreme della guerra civile fanno capire a Troise che il senso della vita non è l’ossessione della gloria, ma la passione e l’amore.

– E’ non è forse l’amore che spegne le loro solitudini, anche se per brevi momenti? Se no Myriam se ne sarebbe andata, perché le occasioni non sono mancate.

Giustissimo. Myriam poteva andare via. Non accetta la proposta della resistenza perché bisogna prima catturare questo ebreo, questo delatore dei suoi correligionari, ma avrebbe potuto farlo anche se scappava. 

– Due solitudini che riescono in attimi di inaspettata intimità ad essere rifugio l’uno dell’altra, come se una bolla li tenesse fuori dalla grande storia. Ma nella casa di Troise c’è una porta chiusa a chiave, non è forse emblema della storia da tenere sotto chiave per non inquinare quell’oasi senza tempo che è spazio dei loro incontri?

Quando esce al mattino Troise torna a essere un nemico, porta gli abiti del nemico, non può essere amato se non è privo di abiti, ridotto alla sua intimità di essere umano. Dietro quella porta sono ammassati i beni degli ebrei che abitavano la casa confiscata. E’ storicamente vero, i beni venivano sequestrati e spesso dati a funzionari che si erano spostati da altre parti di Italia per mettersi al servizio presso la Repubblica di Salò. In questo caso ha un grande impatto simbolico: la porta è la storia, la porta sono gli altri ebrei, la porta è il senso di colpa che non bisogna aprire. Potrebbe irrompere e gravare sulla storia di Myriam e Troise. Nessuno dei due vuole aprirla e nessuno dei due tenta di aprirla. 

Daniela Marra

Vladimiro Bottone, nato a Napoli nel 1957, vive e lavora a Torino. Ha pubblicato i romanzi L’ospite della vita (1999, selezionato al Premio Strega 2000), Rebis (2002), giunto alla seconda edizione, Mozart in viaggio per Napoli (2003), Vicaria (2015) pubblicato da Rizzoli e Non c’ero mai stato (Neri Pozza, 2020). Collabora alle pagine culturali de Il Corriere del Mezzogiorno e de L’Indice dei libri del mese. Il suo ultimo romanzo uscito nel 2024 s’intitola “Il peso del sangue”, ed è edito da Solferino.