A fine settembre ero, con gli amici con cui condivido una avventura teatrale sui Bronzi di Riace, a Bergamo. Reduci da una serata al Vittoriale degli Italiani (che emozione!) e in procinto di performare a Bergamo, ci siamo ritagliati uno scampolo di mattinata per andare su in montagna a Bratto, per una missione di alto valore amicale. Siamo, infatti, andati a trovare il mio collega ma soprattutto amico del cuore Vincenzo Mollica, che da quelle parti passa diversi mesi l’anno sempre in compagnia e in simbiosi con sua moglie, l’ineguagliabile Rosamaria. Io a Vincenzo voglio veramente bene. Perché abbiamo lavorato per 40 anni al Tg1 e perché è un uomo di raro spessore umano. Generoso, cortese, leale, buono. Per non farne un santo aggiungo anche – da buon calabrese – molto permaloso, ma appena un pochino meno di me. Con lui ho condiviso molte ore non solo in redazione ma anche fuori. Epiche cene con Enrico Mentana, Clemente Mimun, Giampiero Galeazzi e tanti altri amici e colleghi. Un po’ gelosi – devo ammetterlo – eravamo di Federico Fellini: spesso la sera, ma molto presto, Vincenzo andava a cena con lui. Poi, però, ci raggiungeva e non di rado qualche cosa ancora la mangiava. Facevamo le quattro del mattino a parlare di giornalismo, televisione, fatti nostri ma anche e molto di cinema, musica e cartoons. E qui gli altri tacevano perché parlava Mollica. Perché in questo lui è inimitabile, nel mescolare i generi, nel rilanciare tutto in una dimensione di creatività e fantasia ben riscontrabile in alcuni dei suoi libri. Tanto per citarne alcuni: Fellini, Pratt e Corto. Storie di disegni e Milo Manara. Dai Borgia ai pittori del Novecento.
Mi ha colpito di lui la simpatia e l’amicizia con cui i grandi del cinema e della musica lo hanno avvicinato. Non sto a ricordare Paolo Conte, Francesco De Gregori e Renato Zero. Oppure Roberto Benigni e Sophia Loren. D’altronde Vincenzo di loro ha scritto nel volume “L’Italia agli Oscar, racconto di un cronista”, che ha firmato con l’amico Steve Della Casa.
Altra sua caratteristica è la memoria: ricorda tutto, è impressionante. Negli ultimi tempi, quando gli occhi lo stavano abbandonando, riusciva a “sonorizzare” i servizi per il telegiornale basandosi non più sullo scritto ma sulla memoria. Oggi vede e segue il mondo con gli occhi dell’anima e con l’aiuto di Rosamaria.
E durante la mattinata di Bratto, Fulvio Cama, il nostro amico cantautore, gli ha dedicato una canzone tratta da “Caos” dei Fratelli Taviani. Vincenzo, naturalmente, la ricordava, sapeva che l’aveva musicata Nicola Piovani, suo grande amico, e sapeva che era stata eseguita anche nel corso di un concerto con la presenza di Vincenzo Cerami.
Vincenzo Mollica nei primi anni al Tg1 si occupava sì di cinema, affiancando il leggendario Lello Bersani, ma era incardinato alla Redazione Esteri, dov’ero anche io. Quando mi capitò di seguire la Seconda Guerra del Golfo rimasi sette mesi in Arabia Saudita. Avevo bisogno, tra l’altro, di sapere come quei fatti venivano raccontati dai giornali italiani. E lui, che al mattino arrivava prestissimo, con rara disponibilità mi faceva la rassegna stampa. Come non essergli grato?
Gli dico che è come una rockstar: lo cercano tutti. Lo scorso Natale, ci ha raccontato, lo ha passato con Vinicio Capossela. Ma poi è stato ospite di Fiorello per una puntata interamente dedicata a lui e il Corriere della Sera gli ha dedicato una pagina intera. Tutti sapranno che la Disney lo ha celebrato dedicandogli il personaggio di Vincenzo Paperica, naturalmente giornalista. Su questo Vincenzo, che è maestro di ironia e di autoironia, ha forgiato la sua battuta per me migliore. ”Quando vado al cimitero – raccontò anni fa – mi accorgo che nessuno degli interessati ha scelto la foto per la lapide. Allora, per dare un tocco di colore, voglio un primo piano di Paperica con questa dicitura: “Qui giace Vincenzo Paperica che tra gli umani fu Mollica”.
Ammettiamolo: c’è del genio…
Paolo Di Giannantonio
Paolo Di Giannantonio, che ringraziamo per il contributo, è uno dei volti più famosi della RAI, avendo condotto per molti anni il Tg1 e le trasmissioni Unomattina, Italia Sera, Ore 23 e Speciale Tg1.
Una prigione diventa casa se possiedi la chiave. George Sterling
Non volevo farla finita vicino a casa, dove avrebbe potuto trovarmi mia moglie, oppure, ed è ancora più terribile pensarci, i miei figli. […]. Non ho fatto altro che causare problemi a tutti e tre, e la cosa peggiore è che mi amavano lo stesso; e quindi non so proprio come questo possa essere altro che un tradimento e un’ingiustizia.
Siamo di fronte a una certezza, quella che caratterizza tutti noi: la morte. Il confine del paradiso di Esmé Weijung Wang comincia dagli ultimi attimi di vita di David, dal suo biglietto d’addio, a dimostrazione di come quell’evento sia un punto fondamentale della storia, di quanto lui sia uno spartiacque tra due vite. Primo romanzo della scrittrice statunitense nata da genitori taiwanesi, consta di quattro parti e segue la cronologia degli avvenimenti ma alterna i punti di vista: tranne per la prima in cui a raccontare è David, nelle altre i capitoli vengono alternati tra i diversi personaggi principali di quel lasso di tempo e questo permette di indagare a fondo pensieri e azioni. Tutto ha inizio con i Novak, una famiglia di ebrei polacchi emigrati in America in cerca di fortuna. La fortuna la trovano, il sogno americano si avvera: fondano la Novak Piano Company che prima della guerra conosce una grande fortuna, pari ai celebri pianoforti Steinway. Con la guerra e la conseguente instabilità la musica cambia per gli affari, ma la loro apparente tranquillità non muta. Presto David inizia a dare sfogo a quelle che si rivelano nevrosi: attribuiva ai suoi pupazzi un’anima e quando uno di questi subiva deterioramento, lui arrivava ad avere attacchi di panico.
Racconta che il suo primo incontro con il suicidio risale alla lettura di L’uomo che amava i lupi di William P. Harding, gesto che “non riusciva proprio a capire”; fatto sta che la lettura avrà effetti sulla sua formazione. Sopraggiungeranno nel frattempo altre nevrosi come la dismorfofobia e quella che l’autrice ha definito, inventandola, vitafobia. Le voci sul suo conto iniziano a circolare, il peso di questa situazione e del nome, della reputazione della famiglia diventano un fardello troppo grande per due spalle gracili: essendo lui l’erede, verrà presto catapultato nel mondo dei pianoforti per imparare il mestiere e si ritroverà ancora molto giovane a capo dell’azienda di famiglia, alla morte del padre. Una parentesi felice di questa adolescenza travagliata è l’incontro con Marianne, figlia di alcuni vicini: entrambi innamorati l’uno dell’altro, nonostante Marianne si riveli molto devota ed esprima il desiderio di entrare in convento, saranno costretti a separarsi quando David deciderà di vendere l’azienda al braccio destro del padre: che vita può offrire a una giovane donna un uomo che non è capace di reggere le redini di un’azienda? L’ultima cosa a cui volevo pensare era quanto fosse difficile essere una persona ed essere vivi.
Compiuti i diciotto anni David vola a Taiwan, e qui comincia un’altra storia. L’incontro con una cultura diversa dalla nostra avviene con la comparsa di Jia-Hui, figlia di una mama-san (capo di un bordello) e di un boss della criminalità organizzata, che si occupa di trovare ragazze da far lavorare nel locale della madre. Ha potere Jia-Hui nel suo mondo, ha il potere di far cambiare vita a giovani donne che spesso, molto spesso, scappavano da situazioni peggiori. I due si innamorano e tornano in America. Lei diventa Daisy, il suo agnellino orientale. Ma è amore? Proprio David scrive di essere stato ammaliato dall’esoticità di colei che diventa presto sua moglie; quell’attrazione per l’esotico, il lontano. La porta con sé come si fa con un souvenir. L’impatto con la Grande Mela viene reso perfettamente attraverso il rifiuto del cibo tipico americano di hamburger e patatine per esempio, che l’autrice non riesce a mandar giù tanto da cibarsi per alcuni giorni di solo latte anche per nutrire il bambino che porta in grembo; ancora, notiamo un grande cambiamento di una ragazza nata e vissuta con due tagliagole trasformarsi in una donna bisognosa quasi d’amore, di attenzioni. C’è però un altro tema molto importante che caratterizza questa parte e il rapporto tra i due ed è la lingua: nel capitolo in cui Daisy incontra la madre di David ci sono alcune linee al posto delle parole, un po’ come si usa fare nel gioco dell’impiccato; qui la differenza sta nella linea continua e non nei trattini. Non è un gioco a indovinare. Si svela in tutta la sua forza una mancanza difficile da colmare, quella dell’impossibilità di dialogo e quindi di comprensione che non è solo comprensione tra due persone, ma della realtà in cui vivi. I due non comunicano, fondano il loro rapporto su sensazioni, su vuoti da riempire, sulla fisicità. Come comprendere i bisogni dell’altro, come incontrarsi negli intenti, come scontrarsi nelle idee! Come può un luogo indecifrabile diventare casa! I pensieri si attorcigliano su se stessi e rimangono tali. L’amore terreno non è un baluardo contro la solitudine.
Le nevrosi di David non sono mai sparite ma Daisy, di fronte alle ferite auto inferte e alla confusione, non abbandona suo marito. Dopo aver vissuto in albergo si trasferiscono a Polk Valley, California. Il desiderio di solitudine di David, lontano da bisbigli, sguardi di compassione e da altri addii, non è mai scomparso. Il trasferimento in una casa nel bosco sarà una scelta naturale, ma anche la casa e la famiglia non riescono a placarlo, salvo alcuni rari momenti. Nasce William e dopo poco tempo arriva Gillian, figlia di David ma non di Daisy, così simile al padre. La vita prosegue nell’isolamento del loro covo, nella paura che il peggio possa accadere e così chiede al marito di insegnarle a guidare nel caso dovesse servire.
Mi distruggeva dover stare sempre all’erta, non dire mai una parola che potesse essere interpretata come scortese, fare tutto quello che voleva lui, che mi andasse o meno, incoraggiarlo, proteggere i nostri bambini dalla sua follia eppure non riuscire nei miei patetici tentativi, sentirmi inutile, vivere con lui, amarlo, essere una moglie coscienziosa e sapere che non faceva alcuna differenza.
Fino a che. Ritorniamo così al principio ma questa volta non è David a raccontarsi. Daisy si ritrova da sola, a ripensare alle volte in cui avrebbe potuto andare via, tornare a Taiwan e lasciarsi la malattia alle spalle, la solitudine che l’amore non può cancellare, una vita che ha avuto solo pochi sprazzi di felicità, ma a senso unico. Lasciare quella famiglia allargata che non è più sua. Eppure era stata avvisata: David è pazzo. Ora è lei a dover prendere le redini, a dover andare in paese per comprare il cibo. Ricomincia a parlare la sua lingua con i bambini, cosa che David non voleva perché sono bambini americani e lui il mandarino non lo capisce. Qualcosa scatta in lei: Gillian deve diventare la tongyangxi di William. Questa pratica, tipica della Cina, è stata dichiarata fuori legge nel 1949 ma ha resistito a Taiwan più a lungo e può esser vista come un matrimonio combinato in cui una famiglia con un figlio maschio preadolescente adotta una figlia femmina di pari età o un po’ più piccola, allo scopo di farli crescere insieme, con la stessa disciplina e gli stessi ideali. Una volta pronti, i due si uniscono sessualmente e convolano a nozze per garantire la prosecuzione della stirpe. La giovane donna è destinata inoltre alla cura dei genitori adottivi. È il ruolo che di solito spetta alle figlie femmine, con l’aggravante di essere costretta a una vita non voluta, ma spesso l’unica possibile. Trasuda egoismo dal romanzo, possesso per paura di rimanere soli. Rinchiusi in un paradiso che diventa inferno, costruito su misura, da cui è impossibile fuggire per l’incapacità di vivere in un mondo che non si conosce, con regole e spazi e persone e. Il confine della loro casa non è solo fisico ma è diventato mentale, l’unico esistente e possibile. Ma non per Gillian, a cui vengono imposte regole molto dure. William accetta invece questo destino, desideroso di amarla. Che la follia sia ereditaria? Io credo che, come dice Marianne, ogni azione ha delle ripercussioni e quelle di David, volute o meno, hanno avuto delle conseguenze sulle scelte della famiglia, anche indirettamente vista la sua scomparsa quando i figli erano piccoli. L’isolamento, la costrizione entro certi confini mentali e fisici, le regole, la privazione di libertà che in Gillian si trasforma in sofferenza perché certa che ci siano altre realtà, il sentirsi lei destinata a un compito scelto da altri ne hanno minato la psiche. Si vuol parlare di follia? Nel confine di una casa che è diventata una prigione, la chiave è soltanto una.
Non capirò mai perché, ai funerali, cercano sempre di farci credere che c’è una vita dopo la morte e che il defunto, da vivo, non aveva difetti. Se esistesse davvero un Dio misericordioso, sarebbe lecito domandarsi in virtù di quale capriccio ci lasci ad aspettare per decenni in questa valle di lacrime prima di concederci la vita eterna; e se davvero gli uomini si comportassero in modo così virtuoso come ci viene detto a posteriori, allora l’umanità non conoscerebbe né le guerre né le ingiustizie che affliggono gli animi sensibili.
Vi sarà capitato di immedesimarvi in qualche personaggio di un libro come è successo a me, sin dalle prime righe, con il narratore di Fila dritto, gira in tondo di Emmanuel Venet, scrittore e psichiatra francese. A raccontare è un uomo di oltre quarantacinque anni e la vicenda si svolge interamente nella sua testa. No, non c’entra niente la follia. È sì affetto da una sindrome, ma quella di Asperger che non comporta ritardi linguistici o intellettivi. Lo troviamo, lui, seduto su una panca di una chiesa durante un funerale, quello di sua nonna Marguerite. Proprio su questa panca comincia la sua lunga riflessione silenziosa che ha esattamente la durata del funerale ed è lo stratagemma scelto dall’autore per raccontare la storia di una famiglia, “né peggiore né migliore di qualsiasi altra” scrive Éric Chevillard nella prefazione, ma su questo punto mi permetto di dissentire.
Il nostro narratore ama la verità, anche se non è un fanatico del vero, infatti comprende la scelta di truccare una salma per renderla presentabile, ma da qui a far passare i defunti per persone completamente diverse da ciò che sono stati in vita lo scarto è inaccettabile. Segue la logica nel ragionamento ed è asociognosico, incapace di piegarsi ai compromessi, alle convenzioni sociali e all’arbitrarietà dell’onestà. La sua non è una scelta ma qualcosa di imposto, per fortuna o sfortuna, e sono sicura che sul piano teorico siamo tutti concordi nel dire che la verità è meglio di una menzogna, che non bisogna scendere a compromessi nella vita e non interessarsi del giudizio altrui, ma nei fatti cadiamo nell’irrazionale, nelle convenzioni sociali per evitare pettegolezzi o perché troppo immersi in questa società, e tendiamo a essere magnanimi e inclini alla bugia “a fin di bene”. Ma per il bene di chi?
Per tornare alla mia identificazione con il narratore, io mi colloco nella parte del “tutti” con qualche virata verso il narratore. Sono allergica ai funerali, ai sermoni e alla solita solfa del “il nostro viaggio sulla terra ha come obiettivo quello di arrivare a Dio dopo la morte” per mie personali convinzioni sulla Chiesa e i riti collegati alla religione. Non ho mai partecipato a un funerale di quelli che si vedono nei film americani in cui parenti e amici preparano discorsi sul defunto, ma sono certa che mi ripugnerebbero esattamente come accade nel libro. Immaginate di sentir parlare di vostra nonna da un’officiante pagata per piangere e tessere le lodi di una persona che in vita non ha portato altro che sofferenza! Un affronto per chi, invece, avrebbe meritato una vita felice e almeno una celebrazione di tutto rispetto, come il nonno del protagonista, uno dei più grandi ingegneri del Genio Civile al mondo. Ma la storia della nonna è solo una piccola parte di questo “gioco al massacro” del narratore, il punto di partenza di una storia familiare ricca di sotterfugi, silenzi, errori, dolori e ipocrisia.
Negli ultimi cinque anni sono andata a trovarla solo per farle gli auguri il primo gennaio, un gesto ipocrita che mi ripugnava ma riguardo al quale mio padre era assolutamente inflessibile, e sono sollevato che sia morta una settimana prima del suo centesimo compleanno, perché altrimenti sarei stato costretto a partecipare al banchetto programmato in suo onore.
Non riesco a immaginare un mondo privo di bugie e omissioni. La verità sempre è complicata da sostenere. O forse, a lungo andare, migliorerebbe la vita di ognuno di noi sapere di poter dire tutto quello che pensiamo senza ritorsioni e ricevere uguale trattamento così da evitare inutili ansie e pensieri distorti e lontani dalla realtà. Pensiamo anche a cosa comporterebbe un mondo senza ipocrisia. Certo, qui il narratore tenero non è, ma non posso nascondere che eviterei anche io inutili pranzi annuali colmi di finzione con persone che per 364 giorni non senti e non vedi.
Mi piacciono i disastri aerei perché obbediscono sempre a una logica ben precisa che si può comprendere a partire da indizi a volte molto esili; e mi piace lo Scrabble perché sposta in secondo piano la questione del significato delle parole e permette di ottenere praticamente lo stesso punteggio con “soffocare” o “ventilare”.
Sorretto dalla logica, il narratore ha una vera ossessione per i disastri aerei di cui conosce ogni dettaglio, una mole di informazioni per noi superflue e un’intelligenza mal spesa. I disastri aerei hanno tutti una spiegazione, una mancanza evitabile che porta logicamente a un finale tragico. Un po’ come la sua vita, costellata di fallimenti relazionali per piccole mancanze o errori non voluti. Succede così con Sophie, unica donna che ha mai amato dal primo incontro al liceo. Un amore assoluto ma sempre e solo sognato. Un loro avvicinamento tardivo ha portato a un finale impensabile: Sophie ha un figlio affetto da fibrosi cistica, un divorzio alle spalle e una carriera cinematografica interrotta troppo presto. Dalle poche mail di scambio il narratore comprende la sofferenza di questa donna e le dà un consiglio su come affrontare la malattia del figlio. Da qui ci saranno inevitabili conseguenze. Ecco a cosa porta la verità e la mancanza di tatto e di capacità di rapportarsi agli altri nel mondo di oggi. Anche lo Scrabble funziona allo stesso modo: le parole diventano meri strumenti per accumulare punteggio, sono svuotate di ogni significato. Mentre il narratore segue schemi e percorsi logici anche nel linguaggio e nei rapporti con gli altri che lo portano quindi a scontrarsi con la morale, la difficoltà di affrontare la realtà, noi ci accorgiamo di quanto il nostro linguaggio sia limitante perché siamo noi a dargli significati, interpretazioni, sfumature oltre a non essere abbastanza per descrivere il mondo, le sensazioni, i sentimenti e le idee. Lascio ai lettori il divertimento di scoprire la storia di questa famiglia insieme agli interrogativi che l’autore pone in questo breve romanzo: siamo il risultato di azioni concrete o un insieme di interpretazioni interne ed esterne?
Avvertenza: se fare i conti con la realtà vi provoca agitazione, non leggete questo articolo. E non leggete Nuovissimo Testamento di Giulio Cavalli.
Non è forse libertà essere scevri da ogni condizionamento e non avere pensieri laterali che irrompono durante la giornata?
Inutile prenderci in giro, la risposta è sì.
Un giorno Fausto Albini disegna un cerchio nella sabbia, viene assalito da una sensazione, si sente male e viene ricoverato nel reparto Disturbi Affettivi nello Stato di DF. A DF il governo non viene eletto ma imposto, e la carica di presidente si tramanda di generazione in generazione. Per rendere possibile la gestione di una nazione fatta di uomini, e dunque delle loro complessità ingestibili, si è trovato un modo per rendere piane le persone: cancellare il sentire.
Tutto è regolamentato e deciso dal governo: dai colori di abiti, edifici, oggetti che sono sempre più neutri perché possano passare inosservati fino ai mestieri di ogni singolo e alla collocazione dei cittadini in classi sociali, con la possibilità di essere promossi o regredire in base al comportamento e alla redditività; e “se c’è qualcuno che dice che qui a DF costringiamo le persone a intraprendere il mestiere che decidiamo noi come autorità di governo significa che non ha capito come va il mondo, non ha capito che l’economia è la summa della politica perché significa incastrare i numeri, le nascite, i morti, gli uomini, le donne e i talenti in un quadro che non si può permettere di cedere in nessuno dei suoi lati”. Sono bandite le arti che da sempre creano rivoluzione, il pensiero libero e il libero arbitrio. Il gusto non esiste, gli alimenti cambiano ogni settimana secondo tabelle che indicano per ognuno il giusto fabbisogno giornaliero per sopravvivere. Non esiste il senso della famiglia, le coppie vengono formate in base a classe sociale e caratteristiche personali per un periodo di tempo determinato, soltanto per riprodursi. I bambini nati vengono allevati dal governo. Gli anziani nascosti in strutture apposite sino alla fine dei loro giorni perché è di cattivo esempio vederli oziare. Il Paese deve solo produrre. Non esistono emozioni, non esistono domande. Non esistono bisogni.
Nel governo di DF avevano infatti studiato a lungo il fatto che la mancanza di empatia fosse la garanzia più solida e importante per il mantenimento del potere e del governo: se l’uomo non si riconosce tra simili non riesce a dare un nome ai propri bisogni. Un uomo che non riconosce i propri bisogni non possiede il vocabolario della democrazia. I cittadini diventano un gregge mansueto che non ha contezza di vivere una situazione di dittatura. Il governo riesce a far presa su di loro perché si propone come un liberatore dal dubbio e dalla sofferenza derivanti dalle scelte che dobbiamo compiere ogni giorno, anche le più semplici come il pranzo o la cena, e dalla trattativa continua nelle relazioni. Il governo riesce a imporsi perché si professa vicino al cittadino, un risolutore e un facilitatore della loro vita e, di conseguenza, qualcuno che lavora per la felicità e la riuscita di ognuno. Ma mentre in DF riesce a farlo con un sotterfugio, un vaccino che viene iniettato di nascosto ai bambini e che addormenta il sentire e l’empatia, nella nostra società l’arma utilizzata è quella della propaganda attraverso la televisione, della paura, dell’omologazione, dei continui stimoli immediati e passivi che portano a considerare l’arte come un vezzo borghese noioso e inutile. La letteratura non ha attrattiva, il tempo è sempre più veloce e bisogna inseguirlo.
Anche la nostra società punta a produrre: non decidono il nostro lavoro ma ci costringono fare delle scelte che seguano il mercato. Io me li ricordo gli articoli in cui si indicavano le professioni del futuro, le professionalità più ricercate e quelle umanistiche hanno sempre il numero in negativo. Possiamo aggiungere a tutto questo l’età pensionabile sempre più alta, la gavetta dei giovani sempre più lunga in attesa di qualcosa che non arriva e che neanche vogliamo ma ci troviamo a desiderare, l’odio di classe e le pubblicità sull’orologio biologico delle donne. Per fare solo qualche esempio banale. A DF anche il linguaggio è condizionato e la socialità è condizionata. Ridotta ai minimi termini, solo qualche convenevole e battute di spirito con conoscenti, colleghi e moglie/marito assegnato. A DF le televisioni sono tanto più grandi quanto più è alta la classe di appartenenza. Indicativo di come questo mezzo abbia inciso su di noi e sul nostro modo di parlare e di pensare, così come sul rapportarci agli altri: molto spesso, troppo spesso, gli scambi tra persone riguardano proprio programmi televisivi come soap opera, talk show e reality che entrano completamente nella nostra realtà. Creano una comunità. Superficiale. Tutto è viziato, qui e a DF, votato a rassicurare.
Ma in tutti gli Stati qualcuno sfugge alle regole. Nel romanzo le Brigate Sentimentali agiscono in segreto e spacciano di tutto: cibo, vestiti, musica e libri. Imporre delle novità che stridono con l’abitudine non sempre sortisce gli effetti sperati. A DF accade proprio questo perché “per costruire emozioni bisogna averne il vocabolario mentre i cittadini di DF sono analfabeti. Volete raccontare una bella storia a gente che non capisce la vostra lingua”. Anche se oggi l’arte non è scomparsa, viene comunque considerata come non necessaria, da istituzioni e cittadini. Bisogna educare le persone, educarle al bello. È facile, disse Fausto Albini, educare la gente al brutto, basta lasciarla cadere e poi farla strisciare e rassicurarla che è normale, educare alla bellezza significa aprire il cuore e farci entrare tutto dentro, come la bocca di un balena in fondo all’oceano, entra il bello certo e ci entrano certi pezzi di vetro ed entra l’aria ispida e entra tutto e non ci possono essere filtri nelle branchie di un popolo che ha disimparato a respirare. Permettetemi di dire che nelle arti non tutto rientra nel bello e, rimanendo nell’ambito letterario, banalmente, ci sono i libri belli e i libri brutti. Educare al bello significa certo educare a riconoscerlo, a goderne, a stupirsi come riescono solo i bambini e come succede a Fausto Albini la prima volta che legge un libro in ospedale, di nascosto, scoprendo altri mondi altre idee, un altro possibile. Che poi è questa la forza della letteratura no?
A DF però chi mostra uno scostamento dalla rotondità affettiva, senza spigoli da smussare per creare spiragli dall’intorpidimento, viene descritto come malato, o ancora diverso. Le Brigate Sentimentali, una volta uscite allo scoperto, fanno notizia e sui giornali, anzi il giornale, si spreca inchiostro. Le loro foto vengono modificate per sembrare più scure, e loro più sinistri. Diventano altro. Questo altro è pericoloso, un terrorista, il colpevole su cui riversare tutta la rabbia. Perché a un certo punto il governo, per combattere le Brigate Sentimentali, decide di riportare la paura nei cittadini. Una paura illogica che viene instillata dall’alto e che porta al sospetto e istiga alla vendetta. Una paura che viene utilizzata per accrescere il potere del governo, salvatore dei cittadini. Una paura quindi del diverso e di qualcuno che vuole espropriare loro beni e benefici. Lo scostamento va risolto, curato nel senso più invasivo. Anche nascosto. A me ricorda proprio la paura che fanno crescere in noi per chiunque non sia italiano o non sia bianco. Andando ad allargare la visuale, penso a come si nascondano le carceri, fuori dalla vista non esistono, non sono parte della città. Ma qui il discorso è ampio.
La scrittura di Giulio Cavalli è perfetta per un racconto così duro e lucido di una società che potrebbe diventare la nostra società se non ci diamo una svegliata. Estremizza situazioni esistenti con parole precise e mai strabordanti, enfatizza la ripetitività, l’aridità, la superficialità e l’inutilità di una vita volta alla produzione descrivendo minuziosamente le abitazioni tutte uguali o i colori bianchi e grigi segnalati da numeri per definire sfumature inesistenti. Sembra una scrittura pacata e piatta come la vita a DF e ma si avverte un movimento sotterraneo. È una linfa che scorre inarrestabile quella dell’individualità, della libertà, della curiosità e dell’amore, in continuo mutamento e ricambio. Però Giulio Cavalli ci frega. Ci parla di rivoluzioni ma anche di una società senza violenza e a cui tutti possono contribuire e in cui vivere con dignità. Siamo sicuri che, se ci fosse un referendum, voteremmo per l’arte, la violenza, la trattativa, la sofferenza e non per una calma piatta? Chissà che il Nuovissimo Testamento non indichi una nuova venuta.