Quanto è avvenuto lo scorso anno sulla spiaggia di Steccato di Cutro col naufragio del caicco “Summer Love”, proveniente dalla Turchia con a bordo 180 vite umane, è relativamente facile da tracciare, basandosi sulla agghiacciante essenzialità dei numeri: 94 morti, dei quali 35 minori, alcuni dispersi; due inchieste della Procura di Crotone che riguardano la prima l’identificazione e le responsabilità degli scafisti e la seconda quello che non ha funzionato nel dispositivo di sorveglianza delle coste, con un imbarazzante rimpallo di responsabilità tra l’agenzia Frontex, Guardia Costiera e Guardia di Finanza italiane. Per ora c’è stata una condanna, a vent’anni, in primo grado, di uno dei quattro accusati di far parte dell’organizzazione.
Al di là del codice penale, però, la discussione, le polemiche e il dolore riguardano il modo in cui il nostro paese ha deciso di affrontare questa emergenza. Il “decreto Cutro” istituzionalizza una visione poliziesca che ribalta quanto era stato pensato ed attuato in un passato ancora abbastanza recente ma ormai percepito come “remoto”. In quel periodo ebbi l’opportunità di seguire una missione di salvataggio a bordo della nave “Diciotti” davanti le coste della Libia. In tre giorni trascorsi in mare furono portate in salvo quasi 200 persone. E il clima era di soddisfazione, di fierezza, per aver compiuto una azione eticamente robusta, in linea con i principi e gli ideali di fratellanza che animano il nostro Paese e la nostra Costituzione.

Oggi è tutto cambiato e sono quasi sicuro che gli uomini in divisa bianca o in divisa grigia non si arrischierebbero ad esprimere entusiasmo per il soccorso ed il salvataggio di disperati che accettano di sfidare il Mediterraneo per regalarsi una chance di vita migliore. C’è timore di passare per “amici degli scafisti”, per “terzomondisti”, per avversari della “linea dura” propugnata dalle autorità di governo.
Meglio rimanere nei porti, per quanto è possibile, meglio applicare le disposizioni alla lettera, meglio non rischiare di fare un passo in più. Credo che questo sia l’atteggiamento che ha causato quella catena di distrazione ed equivoci che ha portato al mancato intervento di salvataggio nelle acque di Calabria. Voglio specificare ancora meglio: molti esponenti politici ritengono che andare a recuperare esseri umani poco al di fuori delle acque territoriali dei paesi del Nordafrica costituisca un “pull factor”, un fattore di attrazione per quei migranti che si trovano sull’altra sponda. Un atteggiamento come quello adottato nel caso di Cutro (ma anche in molte altre occasioni) fungerebbe, invece, da “push factor”, ovvero da fattore di dissuasione. E fa il parallelo con quel “pacchetto” di norme che ha colpito le ong che schierano in mare le loro imbarcazioni: porti di attracco sempre più lontani e possibilità di effettuare un solo salvataggio, pena multe salatissime e sospensione dei periodi di navigazione.

A Cutro, un anno fa, non funzionarono i soccorsi. A Cutro, oggi, non funzionano le promesse fatte un anno fa, specialmente quelle relative ai congiungimenti familiari. E resta una ferita di credibilità che riguarda tutti gli italiani, che debbono essere consci di una quasi, tragica, certezza: ci saranno altre Cutro, ci saranno altri bambini che, come il piccolo siriano Sultan, rischieranno di morire di freddo, in mare o una spiaggia.
Sultan come Aylan. Nomi che si rischia di scordare.
Paolo Di Giannantonio

