“L’ultimo treno della sera”, di Roberta Russo Vizzino

Ho conosciuto il mio stupratore in treno.

Avevo i sogni lontani e nessuna idea di come raggiungerli. Solo una certezza: dovevo fuggire. Un giorno. Prima possibile. Al mio paese si fermavano tutti i treni: Milano, Firenze, Torino, Roma, Venezia… E ognuno sembrava inchinarsi a quel borgo di sedicimila anime, contando anche la mia. Caronte che passava a prendere un’orda di disperati. Ma per traghettarli in un buon altrove, dove soldi e libertà non sarebbero più mancati. 

Evitavo il regionale che faceva capolinea al paese. Io corteggiavo i treni che andavano lontano. Prendevo posto nelle carrozze per città che non avevo mai visto, e scendevo dopo pochi minuti, nel solito nulla. Ma per quel quarto d’ora mi sentivo un’altra. Una in partenza. Una che stava andando via. Una con mille ipotesi di vita nuova, in attesa. Minuto per minuto, respiravo la possibilità di non scendere. Di non farmi trovare. Di esistere in un luogo dove nessuno sapesse chi ero. Da che famiglia venivo. A cosa mi avevano destinata. Quella volta mi ero sistemata in una cuccetta. Guardavo fuori. Il buio sembrava liquido. Denso come catrame. L’ultimo treno della sera, ai piedi di un Sud che si auto-dimentica. Poi, una voce.

«Sei seduta lì? Forse ho sbagliato carrozza.»

«No. Io faccio solo una fermata. Mi sono messa in un posto a caso. Vado di là.»

«Resta. Il vagone è tutto vuoto. Mi fai compagnia».

Si era seduto davanti a me. Zaino da trekking, capelli neri, pelle dorata. I suoi occhi color ghiaccio passavano da me alla melma ululante che sembravano i campi dal finestrino. Aveva ventun’anni. Io, “quasi sedici”.

«Quasi… Tra quanto li fai?»

«Otto mesi.»

«E come mai prendi il treno da sola a quest’ora? Che ne sai chi ci trovi?»

Avevo cambiato discorso. Volevo sapere dove andava.  

«Adesso a Roma. Poi da lì prendo l’aereo per Ibiza. Vado a fare il cuoco per la stagione».

Il più bel ragazzo che avessi mai visto. Sembrava sceso da uno schermo del cinema. Quando parlavo si mordeva un labbro o si passava una mano tra i capelli. Gentile. Simpatico. Perfetto.

«E insomma, tu viaggi per finta?»

«Per adesso.»

«E com’è parlare con chi va dove tu non puoi?»

«Te lo dico se mi dai una sigaretta.»

Con uno sguardo complice, aveva chiuso a chiave la porta della cuccetta e tirato le tendine, mentre io aprivo il finestrino. Avevamo acceso insieme dalla fiamma del Bic.

La risposta che serbavo, era banale: mi faceva sentire bene, quel quarto d’ora in treno. Era già una libertà. Fino all’anno prima non potevo neanche attraversare la strada da sola. Scuola femminile, chiesa e casa. 

«Praticamente reclusa.»

«Infatti,» avevo detto sputando il fumo. «Da cellulare, mi mettevo a fare numeri a caso, perché non conoscevo nessuno da chiamare. Se beccavo un ragazzo più o meno della mia età gli chiedevo dove viveva e continuavamo a sentirci per mesi.»

«E quando vi vedevate?» 

La sua voce era vicinissima al mio viso. 

«Mai. Ma qualche volta mi fidanzavo al telefono.»

«Come si fa a fidanzarsi con qualcuno che non vedi?»

«Innamorandosi delle voci e delle storie di posti che non hai mai visto.»

«E non lo fai più?»

«Quante domande…»

Mi aspettavo che mi baciasse. E invece niente. L’annuncio vocale ci aveva richiamati all’ordine. Bisognava prepararsi: stavamo entrando in stazione. Avevamo buttato i mozziconi dal finestrino. Ci eravamo salutati in fretta. Con un cenno della mano. Scendendo in banchina, pensavo: 

“Che peccato”.

Le anime in partenza caricavano sul treno abiti e salami. Latte d’olio buono. Caciotte. Origano. Conserve. Maglioni fatti ai ferri dalle stesse mamme che piangevano accanto ai binari. Chissà come ci si sentiva, a essere amati in quel modo.

«Lucia!» mi aveva chiamata lui. 

Ero tornata indietro di corsa. Il capotreno aveva già fischiato. Il ragazzo mi porgeva un biglietto dal finestrino. “Preso!” Era sicuramente il suo numero. Per sentirci. Per innamorarci al telefono. Lo stringevo forte in un pugno e con l’altra mano ricambiavo il suo saluto. Così, finché il convoglio si era fatto piccolo piccolo, sparendo dietro la montagna. Solo allora avevo aperto il biglietto. Delusa. C’era scritto solo: 

“Sei bellissima, buona fortuna per tutto!”

Nei successivi tre anni mi era capitato spesso di pensare a lui. Mi chiedevo se avesse realizzato i suoi sogni e immaginavo che non mi avesse lasciato il numero per rispetto della mia età. Un bravo ragazzo. La mia anima gemella sfiorata. 

Poi, una sera, una conoscente me l’aveva portato a casa. 

«È in difficoltà, può dormire da te? Solo per oggi.» 

L’avevo riconosciuto subito. Il sorriso, la pelle, gli occhi. Uguali. Perfetti. Avevo detto sì. Mi sembrava che il destino ci avesse fatti ritrovare.

La cosa peggiore che mi ha fatto nel mio letto, non è stato lo stupro, ma togliermi la fiducia che si possa riconoscere chi ci farà del male. Che il male abbia una faccia. Un segnale. Qualcosa. Mi ha tolto la fiducia negli uomini buoni. E, in cambio, mi ha inculcato il pensiero atroce che chi non lo fa, semplicemente non ne ha avuto occasione.

Roberta Russo Vizzino

Roberta Russo Vizzino è nata a Salerno e cresciuta a Villa San Giovanni. Dopo una formazione come attrice, ha progressivamente scelto di privilegiare altri linguaggi espressivi, concentrandosi sulla scrittura e sull’attività di modella d’arte.

Ha vissuto in diverse città, in Italia e all’estero. Attualmente abita a Torino. È laureanda in Arti e scienze dello spettacolo all’Università La Sapienza di Roma.

Pubblicazioni (libri):
2023 raccolta di racconti Io sono onda di mare (Edizioni Dialoghi);
2024 racconto Le chiavi di casa nell’antologia Lingua Madre Duemilaventiquattro, storie di donne non più straniere in Italia (Edizioni SEB27);
2025 raccolta di racconti Di carne e parole (Edizioni Dialoghi), con prefazione di Giuseppe
Manfridi.

Pubblicazioni (riviste letterarie):
2025 racconto Randagi sulla rivista Il Randagio;
2025 racconto Oltremadre sulla rivista Sottopelle.
2025 racconto Oltremadre in traduzione francese, con il titolo Outre-mère sulla rivista L’Épiderme.

Dal 2023 collabora con la rivista femminista Vitamine vaganti, per la quale scrive articoli-saggi su arte e società.

“Randagi”, un racconto di Roberta Russo Vizzino

In quel periodo andavo dietro ai cani. Facevo la volontaria in un rifugio. Volevo salvarli tutti. Quelle povere anime avevano subito ogni genere di crudeltà. Avevano tentato di affogarli. Li avevano tenuti a catena. Li avevano affamati. Li avevano fatti combattere. Erano stati picchiati con oggetti contundenti. Alcuni erano bruciati o menomati. Tutti erano stati abbandonati dopo avergli fatto del male. Tutti loro erano sopravvissuti. Che davanti a una persona si pisciassero addosso di paura o tirassero fuori i denti, erano ancora lì e potevano ancora trovare una famiglia nuova, migliore. Qualcuno li avrebbe scelti e amati incondizionatamente. Mi sembrava che se il più brutto, sporco e cattivo di loro fosse riuscito a trovare una vita e un amore stabile, anche io avrei potuto. Invece, quasi sempre, il casolare scoppiava. Quel rifugio era una discarica di mostri. Le bestie si ammassavano come rifiuti. I cani erano così tanti da perdere ogni identità e poesia. Chiamarli con nomi da peluche era tutto ciò che ci restava per non temerli fino in fondo. Resisteva chi aveva imparato a difendersi meglio. Sia tra loro, che tra noi. Io e le altre volontarie arrivavamo col cibo, a gruppi di due o tre persone. Cento nasi famelici ci fiutavano da sotto la porta d’ingresso riconoscendo ogni odore di corpo e di paura. Si azzannavano tra loro per l’euforia. I latrati sinistri ci afferravano dagli spifferi. Il nostro arrivo li eccitava. Iniziavano a mordersi al solo odore di noi. Il chiavistello di ferro tremava di zampe e di unghie, sotto la catena. Il nostro piano era: riempire più ciotole possibile e impilarcele addosso. Entrare tutte insieme in un lampo. Chiuderci la porta alle spalle. Accucciarci e smistare alla velocità della luce una ciotola sotto al muso di ognuno. Pulire mentre loro mangiavano. Solo così potevamo evitare che si aggredissero tra loro e che aggredissero noi. Se due musi entravano nella stessa ciotola era finita. Io trovavo il coraggio solo se entravo con gli occhi chiusi. Per volerli salvare tutti, ne salvavamo pochissimi. Il rifugio si trovava in collina e non si poteva raggiungere a piedi. La strada era dissestata e immersa nell’oscurità. Nel silenzio cieco delle stradicciole paesane, il ringhio di tenebra dei cani, faceva accapponare la pelle. I pochi abitanti del paese avevano lanciato nel rifugio polpette col vetro. Poi con l’antigelo. Poi con il veleno per topi. Puzzava tutto di carogna. Li avevano decimati. Strisciavamo fuori carcasse quasi ogni giorno. Ma non bastava. I cani si erano assaggiati e la carne fraterna gli era piaciuta. Così avevano iniziato a sbranarsi da vivi. Avevamo trovato un mezzo carlino lanciato per aria. Sanguinava incastrato tra il muro e un tubo dell’acqua sospeso in giardino. Aveva ancora i buchi dei denti sul dorso. Avevamo messo un pezzo di recinto per dividerli in due gruppi più piccoli.  Un cane lupo si era incastrato con la zampa nel cancelletto. Gli era stata divorata fino all’osso da quelli dell’altro lato. Era rimasto vivo, nonostante l’amputazione e – forse – persino più cattivo. Un altro era stato dilaniato all’improvviso. Senza motivo. Tutti ne avevano mangiato un pezzo. Persino il più tenero dei piccoli aveva i baffi rossi e qualche pezzo di budella che pendeva dal musetto. Avevamo lavato sangue dal cotto per giorni. Con le pompe dell’acqua. Coi detersivi industriali. Strofinando con le scope. Tutto inutile: le fughe erano rimaste impregnate. Io non volevo che stessero lì, quelli che trovavo io. Allora provavo a portarli con me, ma era già difficile trovarmi da dormire, trovare per me e un animale era quasi impossibile. 

Un giorno era venuto un ragazzo. Voleva vedere i cani. Indugiava lì insieme a me, anche se sembrava che avesse deciso. Alla fine aveva chiesto di adottare un randagio che avevo salvato io stessa in un torrente. Fogli. Numeri. Firme. Sguardi. Mi aveva chiesto di rivederci ma neanche dieci minuti dopo mi aveva invitata a stare da lui. Si era preso la ragazza e il cucciolo. 

«Avevi gli stessi occhi del cane.» aveva detto.

Roberta Russo Vizzino

Roberta Russo Vizzino è attrice, modella d’arte e scrittrice. Dopo un’esperienza di vita in Lettonia durata due anni, si è trasferita a Roma dove abita tuttora. Frequenta la facoltà di Discipline, arti e scienze dello spettacolo presso l’Università “La Sapienza”.

Nel 2023 ha pubblicato la sua prima raccolta di racconti brevi “Io sono onda di mare”.
Nel 2024, il suo racconto “Le chiavi di casa” viene pubblicato nell’antologia “Lingua Madre Duemilaventiquattro, storie di donne non più straniere in Italia” con la casa editrice SEB27.
Nel 2025, con la casa editrice Dialoghi, pubblica una seconda raccolta di racconti brevi “Di carne e parole”.
Dal 2023 collabora con la rivista femminista online Vitamine vaganti.