Oggi abbiamo il piacere di conoscere un po’ più da vicino Alessandra Minervini, che da pochi giorni è in libreria con il suo ultimo lavoro “Stellario“, pubblicato da “Revolver”, interessante e coraggiosa realtà editoriale del gruppo “Tabula Fati”. “Stellario” è una raccolta di diciassette racconti dove, come lei stessa dice, “l’aspetto più in comune tra tutti è la manifestazione dell’impossibile nel quotidiano”. Alessandra Minervini, editor e critica letteraria per Repubblica Bari, tiene corsi di scrittura e ha alle spalle un’ampia attività, che va dal romanzo “Overlove” del 2016 ai manuali “Scrivere Storie Fantastiche” (2023) e “Una storia tutta per sé” (2021), nonché ad una guida su Bari del 2020 e ad un volume “A Bari con Lolita Lobosco” (2024) della fortunata collana “Passaggi di dogana” proposta da Giulio Perrone. L’intervista da cui emerge il ricco bagaglio culturale e creativo di Alessandra Minervini è di Gabriele Torchetti.

“Sotto tutto questo sporco il pavimento è davvero pulitissimo”, Stellario inizia con questa citazione di Lydia Davis, come mai questa scelta così specifica?
Questa citazione è “palindroma” rispetto al carattere dei personaggi. È una frase che tutti loro potrebbero pronunciare nei racconti e sembrare tutti credibili. Ma non solo. È una citazione “palindroma” nel senso che tutti i personaggi possono rappresentare lo sporco sotto cui il pavimento è pulito. Ovvero, i personaggi di Stellario non sono positivi o negativi in maniera unilaterale, sono contradditori, sono fragili e sono una cosa e il suo contrario. Sono punti di vista sulle relazioni umane e in quanto tali passano dalla sporcizia alla pulizia senza accorgersene. Poi, senza dubbio, il motivo per cui amo questa citazione è perché amo senza ritegno Lydia Davis, maestra americana contemporanea delle storie brevi sull’umanità. Inarrivabile. Il mio è un omaggio esplicito al suo talento.
In Stellario l’oggetto sacro a forma di stella diventa una potente metafora dell’incontro – e talvolta dello scontro – tra umano, divino, disumano e impossibile. Quello che colpisce è come la tensione emotiva accomuni esistenze così diverse, qual è il filo invisibile che collega i protagonisti tra loro?
Il filo invisibile è appunto invisibile. Le situazioni dei racconti sono sempre molto diverse. Forse l’aspetto più in comune tra tutti è la manifestazione dell’impossibile nel quotidiano. Penso a Il venerdì sono sempre innamorata oppure Superlife. Racconti sull’infanzia “impossibile” eppure più diffusa di ciò che sembra. Tutti i racconti sono immersi nella realtà ma chi li abita è un ospite inatteso e surreale della stessa. La realtà è reale intorno a loro ma i loro sono fuori dal comune. A me interessa tutto ciò che è fuori dal comune. Questa natura anticonvenzionale dei personaggi di Stellario, tragica e divertentissima, unisce i fili delle loro vite.
“Il blues cambia forma nella bocca di chi ascolta il blues. Nella mia sa di mandorla” è il bellissimo incipit del racconto Femminile Futuro. Ma il blues è anche una musica che racchiude denuncia e dolore, qual è il ritmo che hai voluto dare a questa storia?
Il non detto. Questo racconto in particolare, ma non solo anche Dillo a tua sorella oppure Dall’altra parte del mare, sono racconti la cui prima apparenza è l’incompiutezza. Non incompletezza, però. Le storie brevi sono incompiute ma non incomplete. Chi dice tutto in una storia breve rompe il patto con il lettore. Nessuno che io sappia porta a compimento le storie brevi che scrive. Chi lo fa? Carver non lo fa, Salinger non lo fa, Paley non lo fa. Lydia Davis non lo fa. La scrittura breve è la manifestazione, attraverso il simbolico, del non detto. In Femminile Futuro racconto il dolore di due ragazze che si trovano in maniera grottesca a combattere contro la violenza in città a scapito: un dolore del genere che “compiutezza” può avere? Io credo che l’immagine di una percezione sensoriale sia l’unica cosa che possa mostrare l’orrore delle violenze che le due hanno subito. Vivono in un continuo contrasto con il ritmo naturale della vita quotidiana, dove tutto perfino i sapori più semplici sono alterati per sempre.

Il protagonista del racconto La puzza di lavoro vorrebbe che la sua esistenza somigliasse al film Lost in translation di Sofia Coppola, puoi dirci qualcosa in più?
Quando ho pensato ai personaggi e alla storia di questo racconto, che in una prima versione si intitolava RogerMoore, l’emozione che provavo nel processo creativo, che mi ha obbligato a metterla a confronto diretto con i personaggi, è l’introversione. Volevo scrivere una storia dove due personaggi si amano dentro un’introversione patologica, determinata a volte da congiunture drammatiche altre da una vita troppo facile. Lost in translation è uno dei film più belli di Sofia Coppola, nel cui cinema l’introversione è spesso un tema preminente manifestato dall’opposto: un eccesso di istrionismo che svela un profondo disagio percettivo. I due protagonisti del film e del mio racconto sono in modi diversi lost in translation, si amano senza una reale affinità, almeno non percepibile a livello superficiale. C’è una lingua segreta che li unisce come siamesi destinati a restare uniti anche nella distanza siderale della paura di non riuscire a capirsi mai davvero.
Nel libro ci sono scene di sesso esplicito, è difficile per un’autrice scrivere liberamente di sessualità? Hai avuto reticenze o dubbi durante il processo creativo?
Mi ricordo che quando frequentavo la Scuola Holden mi dissero che ero molto brava a scriverne e quindi smisi praticamente all’istante di farlo. Probabilmente perché mi vergognavo. Poi è accaduto altre volte, ma non ho mai fatto leggere nulla. Poi è arrivato Stellario. Credo sia il punto più alto della percezione sessuale del corpo e del godimento, che ho raggiunto scrivendo. Me ne sono resa conto soltanto a processo creativo finito. E invece di cancellare, per certi versi senza volerlo, ho proseguito cavalcando il desiderio dei personaggi. Cosa è cambiato? Non lo so. Adesso viene facile citarla, ma io come lettrice devo molto a Modesta de L’arte della gioia di Goliarda Sapienza. Cosa sarebbe quel romanzo senza il piacere dei corpi narrati? Fu proprio leggendo lei, 20 anni fa, sempre alla Holden, che non mollai tutto quando mi dissero che scrivevo in maniera troppo esplicita di corpi. Fu grazie a lei che pensai: esistono altre strade per raccontare l’universo femminile e io voglio percorrerle. Tantissimi anni dopo ho divorato i libri di Winterson, Yuknavitch e ho sempre avuto a portata di mano i romanzi di Rossana Campo che, senza che io potessi mai immaginarlo, oggi la considero la dea ex machina dei racconti di Stellario (compresi i più espliciti). Del resto il corpo scrive le storie più di quanto crediamo. Specie se scriviamo di sentimenti. E io scrivo e voglio scrivere d’amore, compresa la sua assenza.
Il Randagio è una rivista letteraria, rimaniamo in tema: Stellario contiene dei racconti nati in forma embrionale per altre riviste (Effe Rivista, Cadillac, Crack Rivista, Risme, Progetto Apri). In Italia la lettura è in calo, come pensi possano evolvere le riviste letterarie? Hanno ancora un impatto significativo sulla scena culturale e sui potenziali lettori?
Se dovessi atteggiarmi a scrittrice matura, cosa che ovviamente non mi sento e mai mi sentirò, ti risponderei come una scrittrice matura. E cioè che io provengo dalle riviste letterarie, per cui sarei stupida a dire che non sono importanti per chi legge. E in parte è così. Se non avessero selezionato un racconto dal titolo “Dove chi entra urla” per la storica rivista Colla, non avrei più mandato niente per chissà quanti anni. Perciò le riviste letterarie sono importanti nel momento in cui, senza alcun interesse personale, danno spazio a chi ha qualcosa da dire con una voce se non unica, certamente personale. Guai se le riviste letterarie diventassero come la maggior parte delle case editrici italiane, attente solo al livellamento delle storie pubblicate. È importante quindi il lavoro, nella maggior parte dei casi volontario, che fanno queste redazioni. La possibilità di far incontrare ai lettori storie che altrove fanno fatica a essere pubblicate. Quelle da cui provengo, e non solo, hanno il merito di concedere a chi legge e a chi scrive prospettive diverse, punti di vista mai per forza univoci. Le riviste letterarie di impatto sono quelle che fanno parte di una riserva indiana dove ancora contano il talento e la passione.
Lavorare da editor richiede competenze specifiche e un occhio critico nei confronti dei testi. Hai mai difficoltà nel trovare un equilibrio tra visione critica e libertà creativa?
La mia difficoltà viene dalla mia vita di lettrice. Leggo tanto e bene, inutile fingere che non sia così. E spesso il confronto con quel bene è parecchio autosabotante. Invece, il lavoro di editor ha più a che fare con l’essere che con il divenire. Molto più che scrivere, probabilmente. Ho visto autori e autrici fiorire e diventare scrittori e scrittrici. Difficilmente succede il contrario per chi fa l’editor. L’editor è. Editor si nasce. Questo vuol dire che esistono delle competenze primigenie (fiducia, attenzione e cura del prossimo) che facilitano senz’altro la ricerca di un equilibrio. Sono abilità connaturate. Posso stare senza scrivere, anzi senza pubblicare, ma non senza curare le storie altrui. È come avere un arto in più che ha bisogno di attivarsi sempre. Attivarlo, poi, su me stessa è solo il vantaggio finale. È vero che io sono molto critica con me stessa, ma è anche vero che soltanto così quando consegno un testo a qualcuno perché lo pubblichi so che è l’unica versione possibile dello stesso. Per cui è estenuante, ma dopo tanti anni è un privilegio naturale a cui sono grata.
Gabriele Torchetti

Gabriele Torchetti: gattaro per vocazione e libraio per caso. Appassionato di cinema, musica e teatro, divoratore seriale di libri e grande bevitore di Spritz. Vive a Terlizzi (BA) e gestisce insieme al suo compagno l’associazione culturale libreria indipendente ‘Un panda sulla luna‘.

