Didier Eribon: “Vita, vecchiaia e morte di una donna del popolo” (L’orma, Roma 2024), di Francesco Ferrari

Il capitale si dice in molti modi. Non consiste soltanto di soldi – risparmiati, immobilizzati, o investiti. Non è fatto, quindi, solo di case, negozi e mura, immobili per definizione. Tutto questo è “capitale economico”, che può essere contato, e che conta moltissimo. Capitale è anche l’apprendimento, scolastico e pratico; la propria esperienza di sé e del mondo, che matura in chiarificazioni dell’esistenza, riflessioni e strategie per risolvere problemi. Questa seconda forma di capitale diventa “capitale culturale”, dove “cultura” non è un inerte deposito di nozioni, ma conoscenza che si ricava attivamente dalla vita vissuta (e con cui, non meno attivamente, le si va incontro). Capitale è infine non solo che cosa si conosce, ma chi si conosce: persone che diventano contatti, contatti che diventano reti. Questa terza forma di capitale, non meno indispensabile, costituisce il “capitale sociale”.

Al sociologo francese Pierre Bourdieu dobbiamo l’articolazione di questo “triangolo del capitale”, con cui la diade marxiana struttura (economica) – sovrastruttura (cultura, “spirito”, storicità delle forme di vita) riceve feconda linfa empirica senza per questo essere sconfessata. Tutt’altro. Il capitale economico rimane sempre e comunque la base, la struttura marxianamente intesa, su cui poggia l’intero triangolo. Il modello di Bourdieu ci offre però una risorsa formidabile per comprendere la sofferenza sociale di molti esseri umani, perlomeno del cosiddetto Nord globale. La loro esistenza può essere letta come il desiderio di rendere il triangolo il più equilatero possibile, di portare ovvero in armonia i tre lati del capitale. È questo, se vogliamo, il caso di un allievo particolarmente brillante di Bourdieu (e di Michel Foucault) come Didier Eribon.

Tanto in Ritorno a Reims quanto nel più recente Vita, vecchiaia e morte di una donna del popolo (trad. Annalisa Romani), Eribon dà voce al dolore che si sprigiona dall’essere nato e quindi stato socializzato in condizioni di ristretto capitale economico e di non meno esiguo capitale culturale (intendendo qui il termine nel senso più “scolastico” del medesimo) in seno alla classe operaia della provincia francese, e dal suo sentirsi altro, estraneo, diverso, rispetto a tale ambiente – il che condurrà Eribon medesimo a diventare, a discapito di ogni determinismo socio-economico, professore universitario di sociologia, e, con ciò, un vero e proprio “transfuga di classe”.

Vi è infatti una fuga, una migrazione, tanto concreta quanto interiore, che avviene tra il venire al mondo in un preciso milieu sociale, e l’anelare e spingersi verso ambienti che distano anni luce da esso. Si genera una tensione peculiare, in cui l’individuo si trova a lottare, non senza un certo eroismo tragico, contro pressioni sociali d’ogni sorta. Il succitato determinismo socio-economico sorveglia e schiaccia ogni eccezione che abbia l’ardore di sfidarlo. Quella di Eribon diventa allora una storia di successo a fronte, per usare un altro termine di Bourdieu, della “riproduzione” intergenerazionale (padre ricco-figlio ricco, padre povero-figlio povero), con cui tutto, nel campo sociale, pare dire: “Stai al tuo posto!”

La peculiarità di Vita, vecchiaia e morte di una donna del popolo sta nel dare voce a “storie che non fanno la Storia” (per dirla con un altro stimolante testo, appena uscito, di Carlo Greppi). Nel raccontare la vicenda biografica di una donna, la madre del sociologo, esponente del proletariato industriale novecentesco, che mai avrebbe affidato il proprio vissuto a un resoconto scritto, Eribon compie un gesto di altissimo valore ermeneutico e civile. Egli incarna il compito dell’intellettuale nel senso gramsciano del termine, come colui che dà voce ai senza voce, e, raccogliendo le loro testimonianze, cerca di comprendere gli anelli che non tengono delle nostre strutture sociali, depositando, proprio in tale sforzo interpretativo, il seme per far nascere il nuovo, ovvero, per un mondo più giusto.

Senza infingimenti, con una sensibilità millimetrica per il singolo gesto, Eribon apre per noi stanze di vita quotidiana che rimangono solitamente serrate, in quanto privatissime o irrilevanti. Ci consegna i commenti razzisti borbottati da una donna ottuagenaria della campagna francese (sua madre) davanti alla televisione, allorché vi vede delle persone nere, e quelli sessisti di un uomo cinquantenne (suo fratello), che si rifiuta categoricamente di sortire i vestiti dall’armadio della madre defunta, in quanto compito da lui reputato incongruo al suo status di maschio. Ma il libro di Eribon offre anche, al tempo stesso, una capillare denuncia delle condizioni inumane delle case di riposo, e pone il dito in una piaga di cui le nostre società non vogliono farsi carico, neanche mentale: il processo d’invecchiamento, e, per dirla con Norbert Elias, “la solitudine del morente”.

Al tempo stesso, il libro si segnala come un tentativo, accorato ma mai patetico, di riconciliazione. Laddove Ritorno a Reims poteva essere letto come un processo di riconciliazione con sé stesso, con cui un intellettuale omosessuale parigino compie un viaggio a ritroso che lo condurrà a fare i conti con la provincia operaia da cui il suo itinerario di vita e pensiero avrebbe preso le mosse, sottraendosi alla “riproduzione” socio-economica, Vita, vecchiaia e morte di una donna del popolo mantiene palpitante la tensione riconciliatoria del precedente volume, e la amplia, rivolgendola a quell’altro-da-sé sui generis che è colei che ci ha ospitati per nove mesi e dunque gettati nel mondo. Nei confronti della madre, Eribon vuole, in qualità di autentico uomo della conoscenza, innanzitutto capire. Capire: non sentenziare né assolvere. Capire anzitutto quali sono le condizioni di possibilità e i limiti della massima di Sartre “noi siamo quello che facciamo – di quello che ci è stato fatto”, che in casi fortunati (come il suo) si volge in agency, ma innanzitutto e perlopiù si traduce invece in forme di (per dirla invece con Adorno) “vita offesa”, in cui non si diventa affatto quel che si è, e il proprio romanzo di formazione si torce in un triste racconto di de-formazione.

Ci troviamo allora dinnanzi a due socio-biografie, in cui il testo della vita della singola persona diventa il pre-testo per comprendere un’epoca storica e i suoi dispositivi socio-economici e cultural-spirituali. L’individuale diventa il luogo di rivelazione del generale, a partire dal particolarissimo di minimi gesti quotidiani. La grande Storia universale, dicevamo prima, s’incarna di volta in volta in singole storie particolari, che non fanno la Storia. Eppure, si capisce probabilmente di più il secondo Ventesimo e il primo Ventunesimo secolo leggendo Didier Eribon che attraverso molte analisi quantitative in terza persona. La circostanza odierna, per cui “i ceti subalterni votano contro i loro interessi”, per riprendere una sentenza che viene lanciata, come vero e proprio gemito sofferente, da un altro anziano morente, interpretato da Silvio Orlando in Un altro ferragosto di Paolo Virzì, affligge sicuramente molti lettori del Randagio, e resta sovente, non meno dolorosamente, senza risposta. Dalle pagine di Vita, vecchiaia e morte di una donna del popolo non traiamo risposte universali e necessarie, ma scopriamo cosa porta una esponente in carne ed ossa delle classi sociali più svantaggiate a dare il proprio consenso politico a movimenti che invocano un autoritarismo di matrice fascista, alternandolo a quello assegnato a partiti più (apparentemente) rispettabili. E scopriamo come l’attuazione di policies neoliberiste e la conseguente erosione dei diritti del lavoro fondamentali attuata dai secondi (risoluta è la critica di Eribon al Presidente Macron in tal senso) costituisca la condizione fatale di possibilità dei primi.

La riflessione di Eribon innescata dalla vicenda sociobiografica di sua madre diventa allora estremamente eloquente, ancor più se la si collega ad alcuni termini chiave di un certo pensiero liberale, veri e propri miti del tardo Ventesimo secolo, che l’autore in vero non tematizza esplicitamente, ma che ci aiuta, con i suoi scritti, a mettere nella giusta prospettiva. Pensiamo a vocaboli-mantra come “autorealizzazione”, “meritocrazia”, “resilienza”. Questi termini, dall’apparenza emancipatrice, sono in realtà assai sovente nient’altro che lusinghe sottilmente mendaci. il primo suona: “Da grande potrai fare tutto ciò che vuoi!” – ma non tiene conto degli ostacoli sistemici lungo il cammino, su tutti la succitata riproduzione. Il secondo esorta: “Se uno è bravo alla fine ce la fa!” – ma in realtà appiattisce l’essere al fare, ovvero alla riuscita professionale, per cui accetta tacitamente che un essere umano è il mestiere che fa, il che è fonte di quella lancinante sofferenza descritta in Ritorno a Reims. Il terzo insiste: “Se vuoi, puoi” – ma in realtà è un ulteriore dispositivo di controllo, con cui si chiede al lavoratore, già abbastanza precarizzato e sfruttato, financo di sorridere, come un provetto ballerino, mentre cerca di fare l’impossibile affinché “tutto rimanga come esattamente è”, oppure, senza scomodare il buon vecchio Gattopardo, per rimanere a galla.

Francesco Ferrari 

Francesco Ferrari è ricercatore e docente presso l’Università Friedrich Schiller di Jena; è coordinatore dello Jena Center for Reconciliation Studies; è autore di tre monografie dedicate al pensiero di Martin Buber e di vari saggi su e traduzioni di autori della filosofia e della cultura ebraica del XX secolo (tra cui Arendt, Buber, Derrida, Landauer, Scholem, Zweig); svolge attività di ricerca sul concetto di riconciliazione dopo Auschwitz, ed è editore dell’epistolario di Martin Buber nel progetto Buber-Korrespondenzen Digital.

https://www.jcrs.uni-jena.de/about/team/dr-francesco-ferrari
https://francescoferrari.academia.edu/

Cosa succede quando visitiamo i luoghi di memoria dell’altro?

“Vi darò un cuore nuovo e metterò in voi uno spirito nuovo; Toglierò da te il tuo cuore di pietra e ti darò un cuore di carne” (Ezechiele 36:26). Questa immagine biblica, particolarmente significativa per ebrei, cristiani e musulmani, fa comprendere le questioni centrali di questo libro: come possa realizzarsi una maggiore disponibilità alla riconciliazione tra individui e gruppi che sperimentano la “sofferenza dell’altro”, anche nel bel mezzo di un conflitto prolungato come quello israelo-palestinese. Questo libro offre una raccolta di saggi scritti dai membri del team di un progetto transdisciplinare DFG tra l’Università di Jena, l’Università Ben Gurion, l’Università di Tel Aviv e il Wasatia Academic Institute.

Tra il 2013 e il 2021 ha avuto luogo il progetto tedesco-israelo-palestinese “Hearts of Flesh – not Stone: Encountering the Suffering of the Other” (“Cuori di carne – non di pietra: incontrare la sofferenza dell’altro”).

Con sede centrale presso l’Università Friedrich Schiller di Jena, sotto la direzione del Prof. Martin Leiner e la coordinazione del Dr. Francesco Ferrari, esso si è svolto in collaborazione con l’Università di Tel Aviv, l’Università Ben-Gurion del Negev, e il Wasatia Academic Institute. Un team trilaterale (tedesco-israelo-palestinese) ha studiato gli effetti della visita ai luoghi di memoria sulla volontà di riconciliazione tra gruppi. In particolare, nel contesto del conflitto israelo-palestinese, si è esplorato in che modo la visita di studenti palestinesi a campi di concentramento e sterminio come Buchenwald e Auschwitz, e di studenti israeliani ai luoghi della Nakba, possa avere conseguenze per i processi di riconciliazione tra questi due gruppi. 

Un simile assunto, si badi bene, non ha alla base la volontà di creare comparazioni livellatrici tra eventi storici che, in quanto tali, sono incommensurabili. Si tratta invece di riflettere, con i più accreditati metodi delle scienze umane e sociali, sul significato dai traumi collettivi che sono alla base di numerose identità di gruppo. Questo diventa particolarmente rilevante se si considera la spirale discendente che, partendo da un conflitto in corso, passa attraverso il misconoscimento della memoria dell’altro gruppo, conducendo alla disumanizzazione dell’altro (il che si lega sovente con il consolidamento della propria identità di gruppo) sancendo, in definitiva, il rinfocolamento delle ostilità. 

Incontrare la sofferenza dell’altro, visitare i luoghi di memoria su cui si basa la sua narrazione di gruppo, può allora spezzare tale spirale discendente – e aprire impensate risorse di pace e riconciliazione. 

Nel corso del progetto “Hearts of Flesh – not Stone” sono emersi diversi aspetti rilevanti per i processi di riconciliazione, che sono stati analizzati in profondità. Ad esempio:

  1. In che misura le narrazioni di gruppo siano importanti per la costruzione dell’identità di gruppo e non di rado portino a una tensione tra l’identità individuale e l’identità di gruppo; 
  2. In che modo l’empatia per la sofferenza dell’altro gruppo sia ostacolata dalla lealtà al proprio gruppo; 
  3. Come l’adozione della condizione di vittima come identità sia il risultato di un trauma culturale – e in che misura la competizione tra vittime influenzi un conflitto prolungato; 
  4. Perché la volontà di riconciliazione non possa essere separata dal riconoscimento dei bisogni fondamentali delle vittime e dei carnefici (nelle loro specifiche differenze).

A tal riguardo è sorto un volume collettaneo, “Encountering the Suffering of the Other: Reconciliation Studies amid the Israeli-Palestinian Conflict”, che qui presentiamo nella recensione del Professor Vladislav Dimitrov.

Francesco Ferrari 

“Encountering the Suffering of the Other: Reconciliation Studies amid the Israeli-Palestinian Conflict” (Vandenhoeck & Ruprecht, Gottinga 2023, 317 pagine).

“Encountering the Suffering of the Other: Reconciliation Studies amid the Israeli-Palestinian Conflict”, ovvero: “Incontrare la sofferenza dell’altro: Studi nel mezzo del conflitto israelo-palestinese” è un volume che approfondisce le intricate dinamiche del conflitto israelo-palestinese e le sfide della riconciliazione. Il libro, curato da Francesco Ferrari, Martin Leiner, Zeina M. Barakat, Michael Sternberg e Boaz Hameiri, offre una raccolta di saggi e prospettive che esplorano le complessità dell’incontro con la sofferenza dell’altro in questo conflitto di lunga data. In questa recensione, discuteremo i temi chiave, i punti di forza e le debolezze di questo contributo significativo agli studi sulla riconciliazione. 

Questo volume riunisce una gamma diversificata di studiosi, esperti e professionisti per esaminare gli aspetti multiformi dell’incontro con la sofferenza dell’altro nel contesto del conflitto israelo-palestinese. Il libro esplora le complessità della riconciliazione e il ruolo dell’empatia, della comprensione e del dialogo come possibile ponte tra israeliani e palestinesi. Attraverso vari casi di studio, analisi teoriche e narrazioni personali, gli autori mirano a far luce sulle sfide e sulle possibilità di riconciliazione in questo conflitto di lunga data.

Un primo tema-chiave è l’umanizzazione dell’altro. Il libro sottolinea la necessità di umanizzare entrambi i gruppi, riconoscendo la loro sofferenza e le loro esperienze condivise. Esplora come l’incontro con la sofferenza dell’altro possa portare a una maggiore empatia, comprensione e riconoscimento dell’umanità comune. Gli autori approfondiscono quindi il concetto di riconciliazione come potenziale guarigione delle ferite storiche e costruzione della fiducia tra israeliani e palestinesi. Esplorano vari approcci che mirano a promuovere la riconciliazione e a facilitare una pace sostenibile, tra cui: le iniziative di dialogo tra gruppi; il ruolo dei movimenti radicati nella società civile; i meccanismi di giustizia transizionale. 

Il libro affronta quindi i dilemmi etici e le sfide incontrate negli sforzi di riconciliazione nel conflitto israelo-palestinese. Esamina dunque questioni come la presenza di divergenti narrazioni storiche, di non coincidenti politiche della memoria, di squilibri di potere e di attori esterni, facendo luce sulla rilevanza di queste sfide nel perseguimento della riconciliazione. Il volume riunisce i contributi di una serie di studiosi, professionisti ed esperti, offrendo un’esplorazione multidisciplinare del conflitto israelo-palestinese. Questa gamma di prospettive diverse arricchisce l’analisi e fornisce una comprensione completa e articolata delle complessità legate all’incontro con la sofferenza dell’altro.

Il libro presenta quindi una serie di casi di studio. Questi offrono esempi di vita reale, illustrando le complessità del conflitto e mostrando gli sforzi e le iniziative che sono state intraprese per promuovere la riconciliazione. Il libro è in equilibrio tra le discussioni teoriche e le considerazioni pratiche. Non solo approfondisce i quadri teorici e l’analisi concettuale, ma incorpora anche intuizioni pratiche ed esperienze di prima mano di persone e organizzazioni impegnate negli sforzi di riconciliazione. Questo equilibrio aumenta la rilevanza e l’applicabilità del libro sia per gli studiosi che per i professionisti. 

Tuttavia, sebbene il libro copra un’ampia gamma di prospettive all’interno del contesto israelo-palestinese, possiamo intravedere un paio di limiti del medesimo. L’inclusione di una gamma più ampia di voci, comprese quelle dei palestinesi e degli israeliani che vivono al di fuori della regione, potrebbe arricchire ulteriormente l’analisi e fornire ulteriori approfondimenti. Il libro si concentra inoltre principalmente sugli sforzi di riconciliazione nell’ambito della soluzione dei due Stati. Sebbene questo sia un approccio prevalente, sarebbe stato utile includere narrazioni e prospettive alternative esplorando visioni diverse per la pace e la riconciliazione, ampliando la portata della discussione.

In conclusione, “Encountering the Suffering of the Other: Reconciliation Studies amid the Israeli-Palestinian Conflict” offre un contributo significativo al campo degli studi sulla riconciliazione. Attraverso la sua variegata raccolta di saggi, il libro fornisce un’esplorazione sfumata delle complessità legate all’incontro con la sofferenza dell’altro all’interno del conflitto israelo-palestinese. Offre preziose intuizioni sulle sfide e sulle possibilità della riconciliazione, sottolineando l’importanza dell’empatia, della comprensione e del dialogo nella costruzione di una pace sostenibile. Anche se il libro potrebbe beneficiare di una gamma più ampia di prospettive e di narrazioni alternative, il suo approccio transdisciplinare, gli approfonditi casi di studio e la miscela equilibrata di teoria e pratica lo rendono una risorsa preziosa per gli studiosi, gli operatori e le persone interessate alle complessità della riconciliazione nel conflitto israelo-palestinese.

Vladislav Dimitrov

Vladislav Dimitrov è un ricercatore di media e comunicazione\teosofia\scienze politiche. Ha conseguito il dottorato di ricerca presso l’Università di Kiev, Ucraina con la tesi su “Il management come oggetto di riflessione filosofica”. Attualmente è professore associato della New Bulgarian University, Sofia, Bulgaria, e professore associato all’Istituto di Kiev of Business and Technologies, Kiev, Ucraina ed è anche ricercatore ospite del Centro Jena per gli studi sulla riconciliazione (Università Friedrich Schiller, Jena). I suoi interessi scientifici riguardano la comunicazione, le scienze politiche, le campagne di pubbliche relazioni, le lobby e il concetto di riconciliazione religiosa nei paesi post-sovietici e si concentra sugli attuali scopi, obiettivi e compiti di riconciliazione utilizzando prospettive moderne. Ha collaborato con Erasmus Plus, British Councill, Freie Universität Berlin, Jena Center of conciliations Studies. Politologo con esperienza pratica elettorale. Ha pubblicato più di 50 articoli scientifici.

Francesco Ferrari è ricercatore e docente presso l’Università Friedrich Schiller di Jena e l’Università Goethe di Francoforte; collabora con l’Accademia di Scienze e Lettere di Magonza; è coordinatore dello Jena Center for Reconciliation Studies; è autore di tre monografie dedicate al pensiero di Martin Buber e di vari saggi su e traduzioni di autori della filosofia e della cultura ebraica del XX secolo (tra cui Arendt, Buber, Derrida, Landauer, Scholem, Zweig); svolge attività di ricerca sul concetto di riconciliazione dopo Auschwitz, ed è editore dell’epistolario di Martin Buber nel progetto Buber-Korrespondenzen Digital.