“La danza inizia dove le parole non esistono più”. Con questa famosa affermazione Pina Baush voleva sottolineare il valore espressivo della danza come linguaggio universale, il suo potere di sintesi che ispira altre forme d’arte e spesso ne è ispirata.

E’ esattamente quello che succede con il poema di Stephane Mallarmé: “L’après midi d’un faune” (Il pomeriggio di un fauno), che ha creato intorno a sé, già dalla sua prima apparizione nella seconda metà del XIX secolo, un movimento artistico non indifferente coinvolgendo teatro, musica e danza, creazioni che vengono eseguite ancora oggi nei teatri lirici più importanti. L’après midi d’un faune, poema composto da centodieci versi alessandrini e opera più famosa di Mallarmé, è considerato una pietra miliare del simbolismo nella storia della letteratura francese. Il poeta Paul Valery, già fervente discepolo dell’autore, lo considerava addirittura il più grande poema francese di tutti i tempi. La versione iniziale fu scritta da un giovanissimo Mallarmé (appena ventitreenne) tra il 1865 e il 1867, periodo in cui, fresco di lettura di “Les fleurs du mal” subì maggiormente l’influenza di Baudelaire e la trasferì nei suoi poemi. Definito il più baudelairiano dei poeti simbolisti, elaborò un suo concetto secondo il quale la poesia pura era l’unico strumento per poter accedere all’assoluto e non aveva altro scopo che creare un mondo ideale. Il poeta non doveva riprodurre ciò che l’uomo già conosceva né raccontare il mistero, ma semplicemente evocarlo in un linguaggio poetico che non avesse nulla a che fare col linguaggio quotidiano. Mallarmé si affidava alla tecnica della suggestione per allontanarsi progressivamente dalla realtà; per lui il testo poetico non poteva essere chiaro o lineare, per cui l’ermetismo era fondamentale. La versione definitiva del poema “L’après midi d’un faune” vide la luce nel 1876 e suscitò grande scalpore sia per la forma che per il contenuto. I versi infarciti di termini rari o desueti, i vocaboli eccentrici, la sintassi disarticolata, il ricorso continuo al simbolo, descrivevano le esperienze sessuali di un fauno appena sveglio che raccontava in una sorta di monologo sognante delle ninfe che aveva incontrato o forse sognato. Frequenti le metafore a sfondo erotico in un’ambientazione bucolica tipica del classicismo, ma con uno stile completamente nuovo.

Il poema, pubblicato con frontespizio e illustrazioni di Edouard Manet, fu fonte di ispirazione per artisti della generazione successiva come Claude Debussy, che circa venti anni dopo scrisse la composizione per orchestra “Prélude à l’après midi d’un faune”, a sua volta Vaslav Nizinskij, che su quella musica creò nel 1912 la coreografia che prende il nome dal poema. Fu lo stesso Nizinskij a interpretare il ruolo del fauno nella prima all’Opera di Parigi della produzione che fu una grande novità per l’epoca. Per il balletto, nel quale un giovane fauno incontra diverse ninfe, amoreggia con loro e infine le rincorre, fu scelto uno stile deliberatamente arcaico. La melodia di Debussy serviva da paesaggio sonoro alla scena, mentre i movimenti dei ballerini diventavano violenti e discontinui, proprio come la sintassi del poema. La rottura con la danza classica, con il tecnicismo a cui i ballerini russi erano abituati, alla leggerezza dei passi, apparve molto forte, ma aprì la strada ad una nuova tendenza.

Inizialmente il balletto, a causa degli articoli negativi pubblicati su Le Figaro, non ebbe una buona accoglienza da parte del pubblico, scandalizzato, né della critica. Il pubblico rimase sconcertato da una danza molto differente da quella che era solito vedere; stupì anche il costume molto aderente, ma fu specialmente la mimica finale dell’atto sessuale che causò lo scandalo. Ciononostante rimase nel repertorio per molto tempo e per molto tempo ancora restò pressochè invariato, mantenendo uguale anche il costume del fauno. E’ stato più volte coreografato in nuove edizioni negli anni successivi fino ad arrivare alla versione più famosa, quella di Jerome Robbins nel 1953, riproposta in questi giorni al Teatro San Carlo di Napoli. La coreografia di Robbins è sicuramente più snella e scorrevole, allestimento scarno e scenografia ridotta al minimo, tutto il balletto è affidato al passo a due dei protagonisti, al San Carlo interpretati da Karina Samoylenko ed Emanuele Torre nel primo cast, poi Claudia D’Antonio e Stanislao Capissi, e ancora Martha Fabbricatore e Raffaele Vitozzi. Un pezzo molto piacevole, dove la perfezione tecnica si sposa benissimo coi virtuosismi musicali della splendida composizione di Débussy, che a sua volta ricorda agli appassionati i versi straordinariamente innovativi di Stéphane Mallarmé.
Serena Cirillo

Serena Cirillo: già consulente per la comunicazione istituzionale al Consolato Americano di Napoli. Giornalista pubblicista, traduttrice, scrittrice, ghost writer. Laureata in lingue e letteratura, specializzata in didattica della lingua italiana agli stranieri. Esperta di letteratura, arte e spettacolo; scrive, anzi narra, di teatro, musica, arti figurative e soprattutto di balletto classico. Ha pubblicato racconti in antologie e ha in cantiere un romanzo ambientato nel mondo della danza. Scrive sulla pagina culturale del quotidiano Cityweek e della rivista Le Sociologie

