Intervista a Michele D’Ignazio autore di “Fate i tuoni”, di Cristina Marra

A volte è necessario incresparsi come il mare e diventare tumultuosi come il cielo per evitare l’indifferenza e seminare poesia”.

Con “Fate i tuoni” (Rizzoli)  Michele D’Ignazio torna in libreria e racconta la storia corale di un paesino della Calabria affacciato sul mare che farà incontrare i due giovani protagonisti Murad e Zaira. Col suo stile unico e il suo giocare con le parole l’autore ci invita a scatenare tempesta, a farci sentire e ad allargare le braccia per accogliere come fa il mare quando si lascia raggiungere dai piccoli di tartaruga Caretta Caretta che in questa storia sono un esempio da seguire e un patrimonio da proteggere.  

    

Michele benvenuto su Il Randagio. La prima domanda ti calza a pennello: quanto ti senti un autore randagio?

Tanto. Oltre che scrivere mi piace molto viaggiare. Ho un passato un po’ fricchettone, di viaggi fatti con amici, spendendo poco o quasi nulla. Sono stati un grande insegnamento per me, una palestra di vita, un’inesauribile fonte di ispirazione. Adoro i cani e ogni volta che vedo un randagio ammiro la loro libertà e il loro vivere alla giornata.

La storia di “Fate i tuoni” comincia da un frammento di barca?

Esatto. È un dono che mi hanno fatto alcuni anni fa e io lo considero un amuleto, per due motivi: innanzitutto, osservandolo e toccandolo, è come se mi facesse vedere ciò che è successo su quella barca, come se fossi stato lì, durante il lungo viaggio sul mar Mediterraneo e nei momenti concitati dello sbarco. In secondo luogo, perché mi ha tenuto ancorato a questa storia: a volte me ne allontanavo, seguendo tanti altri progetti, ma quel piccolo frammento di barca mi ricordava che dovevo scrivere questo libro. 

La storia del romanzo rimanda a una celebre frase di Carlo Levi a te cara “Il futuro ha un cuore antico”. Il passato deve servire per costruire bene il futuro? 

Io volevo raccontare una storia bella, così come è stata l’accoglienza degli abitanti di Badolato quando, nel lontano 1997, avevano ospitato nelle case del paese vecchio tantissime persone sbarcate con la nave Ararat. Davanti a ciò che è successo a Cutro rimane un senso di amarezza e rabbia, perché non tutti, purtroppo, hanno avuto il destino felice di Murad, uno dei due protagonisti di “Fate i tuoni”. Non tutti, su quella barca, sono riusciti a raggiungere la costa.

In questi ultimi anni, si sono fatti dei passi indietro e la mia speranza, e uno dei motivi per cui ho scritto il libro, è che si possa tornare a quello spirito solidale e a quella genuinità che hanno ispirato “Fate i tuoni”, rispecchiandosi nelle persone che vivono d’amore, in Calabria, e non solo qui, e che tutti i giorni, lontani dai riflettori, fanno sì che il mondo sia un posto bello e accogliente, un posto dove i bambini possano sorridere e giocare. 

La tua è una storia di terra e di mare?

Sì, c’è un continuo scambio tra il mare e la terra. Vengono lanciate in mare 302 bottiglie con dentro un messaggio e dopo pochi giorni sbarcano 302 persone. Con la schiusa delle uova, 92 piccole tartarughe raggiungono il mare e, dopo pochi attimi, 92 persone raggiungono la costa. Tutto è collegato. Tutto, a suo modo, comunica. Accoglie e restituisce. In un mondo che va troppo di fretta e sembra essere unidirezionale, a volte ce ne dimentichiamo.

Prologo, diviso in tre parti e con Epilogo, il romanzo può considerarsi anche a finale aperto, in progress?

Io amo i finali aperti. Questo in realtà, rispetto ad altri miei libri, lo considero abbastanza compiuto. In ogni caso, non so ancora se ci sarà una continuazione. Non lo sapevo quando ho pubblicato “Storia di una matita”, che poi ha avuto due seguiti. Così come non lo sapevo quando è uscito “Il secondo lavoro di Babbo Natale”, anch’esso poi diventato trilogia. Vedremo…


Sei anche un grande lettore, quali sono i libri che ti hanno segnato e ai quali non rinunceresti mai?

Ce ne sono tantissimi. Forse uno di quelli che mi ha segnato di più è “Martin Eden” di Jack London.
Racconta la vita di Martin Eden, un passato da marinaio, senza aver frequentato mai una scuola, che un giorno legge per caso un libro di poesie. E gli piace, gli piace tanto. E si mette a scrivere. Scrive cose belle, ma vengono rifiutate da ogni editore. Scrive ancora e manda agli editori e viene sempre rifiutato, per lo più perché fuori dagli ambienti letterari. Accumula rifiuti e viene respinto anche dalla ragazza di cui è innamorato. È una vita di rifiuti. Il mondo, tutto il mondo che ha intorno, gli sembra sbagliato, ipocrita. Però la cosa incredibile è che Martin Eden anziché demoralizzarsi, acquista forza da questi rifiuti, sembra che tutte le sfortune gli diano sempre più forza. Si fa in quattro, in otto, lavora come un matto di giorno e scrive senza pause di notte. È stupefacente! Quando lo lessi, intorno ai 24 anni, mi immedesimai totalmente in quel personaggio, vissuto 100 anni prima di me, in California. E ne trassi forza! Mi insegnò il coraggio, a volte l’ostinazione. E la grande fiducia nelle proprie capacità. Infine, per concludere, va detto che ha un finale sconvolgente. Un libro da leggere ancora oggi, soprattutto oggi, in un’epoca in cui spesso si cercano (e vengono esaltate) facili scorciatoie.

A quale dei personaggi che racconti senti di somigliare di più?
Direi a Nik, un’artista che mette la sua arte a disposizione della comunità e che crede in un mondo migliore.


“Fate i tuoni” ha tante parole conchiglia, ne regali una ai lettori de Il randagio?
Le parole-conchiglia sono quelle parole che, a poggiarci l’orecchio, scopri che contiene in sé il suono dolce di un’altra parola. Vi regalo “abbandono”: dentro accoglie la parola “dono”. Quasi una contraddizione! Chi può pensare all’abbandono come a un dono? Eppure il paese vecchio che descrivo nella storia, ormai abbandonato, può essere donato. In qualche modo, può diventare un regalo. Ma per chi?

Cristina Marra

Intervista a Michele D’Ignazio

Michele D’Ignazio, calabrese dalla folta chioma classe ’84 del secolo scorso, è noto ai piccoli lettori per Lapo – il protagonista di Storia di una matita del 2012, Storia di una matita. A scuola del 2014 e Storia di una matita. A casa del 2018 – e per la trilogia di un singolare Babbo Natale, iniziata con Il secondo lavoro di Babbo Natale (2019), seguita da Babbo Natale fa gli straordinari (2020) e da Babbo Natale e l’inaspettata Neve (2021). Nel 2016 ci aveva portato in Brasile con Pacunaimba, L’avventuroso viaggio di Santo Emanuele. Il suo lavoro più recente è l’autobiografico Il mio segno particolare, pubblicato da Rizzoli così come tutti i suoi libri precedenti. Nonostante le tredici traduzioni nel mondo, gli spettacoli teatrali, i podcast e la radio, gli adulti, in genere più prosaici, lo conoscono meglio come gestore di “Il Vicolo, Vineria” nel centro storico di San Nicola Arcella. L’ha incontrato per noi Viviana Calabria.

Le storie sono un universo enorme e infinito che ci circonda. Le storie sono ovunque, in ogni dettaglio, e ognuno di noi ne racconta ogni giorno. Qual è il segreto delle tue storie?

In questa domanda ci sono tre parole che mi piacciono molto: dettaglio, universo, infinito. Spesso, quando racconto una storia, parto da un dettaglio, apparentemente insignificante. Dal dettaglio, quindi da qualcosa di particolare, cerco di arrivare a un senso più profondo, universale, che accomuna. A volte, lo faccio con lentezza e dolcezza. Come scriveva Sam Savage nel suo romanzo “Firmino”: un romanzo è lenta accumulazione di senso. Altre volte, questi dettagli deflagrano in un senso più ampio all’improvviso, un universo di emozioni capace di dare andare oltre anche il senso del tempo. Essere infinito. Io credo che una delle grandezze della letteratura risieda in questo segreto. Un segreto da custodire e da divulgare, soprattutto in un’epoca, quella contemporanea, sempre più composta di narrazioni “mordi e fuggi”, istantanee che non sfociano quasi mai in un senso più grande, che ci possa riempire.

Il mio segno particolare è la tua storia personale, o almeno una parte della tua vita. Quando e perché hai deciso di raccontarti?

La scintilla c’è stata una mattina ben precisa, durante uno dei tanti incontri a scuola. Vedo una bambina. Sul suo viso ci sono tanti piccoli nei. È fine settembre, ha i pantaloncini e anche le sue gambe sono costellate di puntini. Mi emoziono. Mi riconosco. È stato in quel momento che ho deciso di scrivere la mia storia. Perché anche io, come quella bambina, sono nato con tanti nei sul corpo. E ne avevo anche uno molto grande, che un medico di Roma definì “a mantellina”, perché partiva dalle spalle e finiva sulla schiena. Anche qui cerco di andare dal particolare all’universale. È la mia storia, ma potrebbe anche essere la tua.

I bambini, lo sai, sono schietti e diretti, non usano giri di parole. Tu che ne incontri tanti da anni sicuramente ti avranno chiesto dei tuoi “segni particolari”. Cosa rispondevi?

I bambini hanno questo dono: la sincerità. Ed è davvero un grande insegnamento. Per un po’ di tempo, prima che iniziasse la mia avventura di scrittore, cercavo di fuggire la loro curiosità. Inventavo scuse, allenavo la mia immaginazione. Ero diventato un arrampicatore di specchi professionista. Ma poi ho capito che sbagliavo. Ed è successo all’improvviso, con la pubblicazione del mio primo libro Storia di una matita. Come se la scrittura e l’arte di raccontare mi avessero fatto questo regalo: la sincerità. Un regalo prezioso, che cerco di tenere sempre a mente.

Il tuo racconto fa capire che hai avuto una gran famiglia con te. Molti bambini sono soli ad affrontare i loro segni particolari e spesso attirano atteggiamenti respingenti o di scherno. Tu malgrado famiglia, amici nonni… sei mai stato ferito da coetanei?

No. Non sono mai stato preso in giro o apostrofato in maniera indelicata. Quello che a volte mi imbarazzava, durante il periodo dell’adolescenza, erano gli sguardi. La curiosità è una caratteristica molto bella, ma non bisogna superare una soglia. Gli sguardi insistenti hanno fatto nascere in me una rigogliosa timidezza. Che però mi ha fatto scoprire i libri. Nella vita, tutto ha un senso.

Dal tuo racconto si evince l’importanza che gli incontri con i piccoli lettori hanno per te. Sembra quasi che i bambini abbiamo insiti in loro dei superpoteri che non derivano da segni particolari e difficoltà che incontrano nella loro vita come le tue. Sembra che il loro essere bambini sia già un superpotere.

È vero. In loro rivedo la forza e l’entusiasmo che avevo anche io alla loro età. Osservano, chiedono, si meravigliano, fanno commenti, ma senza malizia. E neanche giudizio. Anzi. Sono attratti da ogni tipo di particolarità. E questo è già un grande superpotere.

Nel tuo racconto parli spesso di scherzo della natura: ti definisci tale per le particolarità fisiche con cui sei nato. Eppure spesso questo è un modo dispregiativo di parlare di una persona. Che cosa è per te uno scherzo della natura, e direi anche lo scherzo e la natura nella loro purezza.

Lo scrivo nel libro. Di tutte le frasi che i miei hanno dovuto ascoltare, quando ero bambino, quella che mi ha incuriosito di più è sicuramente questa: «Si tratta di uno scherzo della Natura!» A dirla è stato uno dei tanti medici incontrati, facendo spallucce e cercando di trasmettere un sentimento di pacifica accettazione. Mi piacciono queste due parole: Scherzo Natura. Messe insieme fanno qualcosa di potente. A me piacciono i fulmini a ciel sereno. Così come la pioggia quando c’è ancora il sole, la neve in primavera o il gran caldo a Natale. Sono anche loro Scherzi della Natura. Qualcosa di inaspettato, di incredibile, che va al di là della nostra immaginazione. Qualcosa che ci fa sentire piccoli, ma che ingigantisce il nostro stupore.

Riesci, nel tuo romanzo, a trattare tematiche non leggere in maniera un po’ ironica (ammetto che alla fine della storia un po’ di commozione c’è stata). Quanto è stata ed è importante l’ironia nella tua vita?

Importantissima. E anche la leggerezza. Come scriveva Italo Calvino: planare sulle cose dall’alto, senza avere macigni sul cuore.

Grazie ai tuoi libri giri molto nelle scuole, racconti e ti diverti a inventare laboratori pratici. Cosa, secondo te, funziona con i più piccoli per far nascere interesse e curiosità nei libri?

Torniamo al punto di prima. La sincerità. I bambini si rendono conto se il libro non è scritto con sincerità. Se è stato scritto perché richiesto da una casa editrice. Oppure senza la giusta sapienza. Se si trovano davanti una persona che si inebria nel dire “Io sono uno scrittore”, ma non ha tante storie da raccontare. Se non sei sincero, umile e generoso, i bambini se ne accorgono subito. E anche questo è un superpotere.

E negli adulti? Credi che le nuove tecnologie possano incentivare? Penso ai podcast, anzi parlaci proprio del podcast del tuo libro Il mio segno particolare.

Tutto può incentivare. La narrazione ha tante forme diverse: i libri, il teatro (anche lo spettacolo teatrale tratto dal libro è un progetto che curo molto) e sì, pure i podcast e i racconti radiofonici. Sono uno strumento molto bello. Il rischio, come tutto, è che diventi una moda. È in parte già lo è. Per chi è alla ricerca di storie emozionanti e intense è più difficile trovarle. Ma credo nella forza del passaparola e rimango sempre fiducioso che tutto ciò che è bello, prima o poi, arriverà all’animo delle persone buone.

Questo è il sito dove si trova un po’ di tutto: info sul libro, lo spettacolo teatrale e il link al podcast: www.ilmiosegnoparticolare.com.