Yasmina Khadra: “Cosa sognano i lupi” (Sellerio) e Pedro Lemebel: “Ho paura torero” (Marcos y Marcos), di Valeria Jacobacci

Ancora due libri. Due autori, due mondi, due culture diverse ma significativi elementi in comune: la rivolta popolare, il cambiamento di regime, l’esasperazione che semina morte.  Conosciamo l’algerino Mohamed Moulessehoul  per aver commentato di recente “L’attentato” su questa rivista; anche questo suo scritto, Cosa sognano i lupi? edito in Italia da Sellerio nel 2024, porta lo pseudonimo di Yasmina Khadra, il nome della moglie, per motivi di censura.

L’altro titolo è Ho paura torero del cileno Pedro Lemebel, per Marcos y Marcos nel 2011.  

Mai due stili letterari furono più diversi e mai due Paesi più lontani come l’Algeria e il Cile. In comune hanno i due mostri della storia e della politica, l’autoritarismo cieco e aberrato e il sentimento di ribollente odio che colma la misura e straripa sotto la spinta dell’emarginazione, della miseria e del disprezzo.  

Pedro Lemebel e Yasmina Khadra

E  tuttavia le differenze non tardano a manifestarsi, eclatanti e vistose, non solo nelle narrazioni dei rispettivi autori. L’affermazione democratica del Fronte islamico e il diffondersi dell’islamismo  in Algeria negli anni ’80  e ’90, descrive un cammino a ritroso della psiche dei personaggi, e del protagonista in particolare, costretto a ripiegarsi nella trappola di un carapace, minuscolo per un cervello in evoluzione, dal quale sparare nel mucchio di un nemico senza connotati, spesso avvolto nei macabri drappeggi di abiti insensati.

Di contro, il Fronte patriottico Manuel Rodriguez nel tentativo di rivolta contro Pinochet, si muove con passi di musica e danza in un Cile trasognato, poverissimo e inerme. Santiago è diversa da Algeri ma gli spari e la devastazione sono gli stessi. Le coscienze sono opposte, le aspirazioni dei reietti hanno qualcosa in comune.

Quali aspirazioni? In Algeria, Nafa Walid, un bel ragazzo di vent’anni, nato e cresciuto nella casbah, ha modo di assaporare una vita all’occidentale grazie a una piccola parte ottenuta in un film che gli fa sognare una vita facile, ricca di piaceri e avventure. E’ un giovane dal carattere mite e, dopo varie disillusioni, si rassegna a un lavoro di autista presso una famiglia ricca, in attesa che la fortuna torni a sorridergli. Ma i tempi sono duri, molte cose stanno cambiando, i ricchi sono misteriosi, non comunicano, restano trincerati in distinte solitudini, gli agi e le ricchezze sono solo fonte di vizi e di noia infinita, nessuna coscienza sociale a dare un senso alle loro vite. Nafa si sente un servo invisibile, privo di qualunque valore, buono solo ad assecondare crimini e misfatti, come quando assiste all’incidente occorso alla giovanissima preda occasionale del padrone giovane, morta di overdose. Costretto ad assistere alla scena raccapricciante dello svisamento del corpo per renderlo irriconoscibile, non regge all’orrore e abbandona il suo impiego di autista.

Dall’altra parte del mondo, e in un altro libro, quello di Pedro Lemebel, dove abbiniamo queste infelici “vite parallele”, un travestito pieno di grazia e gentilezza, degno di una madama Butterfly, per l’umiltà e la bellezza del suo amore, accetta di correre un rischio immenso concedendo al giovane di cui è innamorato di nascondere nella sua casa, piena di scialli, ventagli e musica romantica trasmessa dalla radio, un arsenale di armi che serviranno per il golpe in programma. Anche questa grottesca ma sublime “bambolina” sogna una vita radiosa, anche a lei sorride il miraggio di un mondo diverso, ma l’analogia si ferma qui.

Nafa, nell’altro universo, torna nella Casbah di Algeri, alla solita vita; ogni giorno, alla fermata del pullman, vede una ragazza dolce e tranquilla, con un sorriso modesto e sereno. Pur non avendole mai parlato, se ne innamora e sogna di sposarla, tanto più che è la sorella di un suo caro amico. La situazione però precipita: mentre cerca il modo di chiedere la sua mano, il suo amico, testa calda, arrogante e incapace di concepire pensieri in autonomia, è sempre più irretito  dal progetto islamista, catturato dalla propaganda degli sceicchi e degli imam, comincia a detestare la sorella fino ad ucciderla quando la sorprende in una manifestazione di donne che invocano i propri diritti.

La morte di questa fanciulla è simmetrica benché antitetica all’altra. La ragazza morta per overdose è almeno colpevole di essersi data a un uomo in modo sconsiderato, quella di cui Nafa si è innamorato, al contrario, è unicamente colpevole del suo essere donna e di  voler essere riconosciuta come parte dell’umanità. Questa colpa è imperdonabile agli occhi del giovane. Nafa non soffre e non odia neanche l’assassino del suo amore, al contrario, si dona completamente alla causa e diventa un terrorista.

In Cile, l’attentato del Fronte patriottico Manuel Rodrigez  contro Pinochet  non va a buon fine, tuttavia il più è fatto, anche se Pinochet morirà dopo molti anni dopo essere sfuggito ai processi intentatigli per crimini contro l’umanità. I personaggi di Lemebel seguono la propria logica, la “bambolina” non realizzerà i suoi sogni ma avrà i suoi riconoscimenti, l’affetto, se non l’amore, del suo principe, il rispetto del Fronte, il senso della vita che è soprattutto poesia. Come tutti i grandi scrittori Lemebel ha le chiavi poetiche giuste per far ridere e piangere quasi nello stesso momento, sa quindi come raccontare una storia d’amore , di guerra, di odio, di ribellione e di morte. Tra  piume di struzzo, abiti di pizzo, maquillage e veli multicolori, descrive il collettivo di las Yeguas contro la brutale politica di Pinochet. Così  se la “fata ignorante” è innamorata del giovane ribelle, uno studente rivoluzionario, che ricorda il dottor Zivago di Pasternak, è innamorato della libertà del proprio Paese. Un dittatore è innamorato di armi e potere, due attentati al potere e all’amore accomunati dallo stesso esito.

Consigliato: a chi combatte contro ogni dittatura con armi diverse ( poesia, ironia o protesta), a chi lotta con dolcezza, leggerezza e dignità per affermare la propria libertà.  

“Rimaneva solo il riflesso del suo volto nel finestrino, dove gocciolava la pioggerella che cadeva sulla città, piangendo per lei senza il suo permesso”     

“Cosa sognano i lupi?” si chiede nel mio immaginario controcanto l’autore algerino Mohamed Moulessehoul,  firmandosi Yasmina Khadra, col nome di sua moglie, questo, sì, un dato poetico. Per lui la storia non si conclude come uno dei suoi libri, perché è una storia ancora in atto, con la sua inconcludente totale mancanza di poesia. Il protagonista Nafa Walid incomincia la sua carriera di terrorista, e non sa dove lo porterà: “… fece retromarcia, tornò indietro fino agli orti, deviò in un viale costeggiato di ulivi e raggiunse a tutta velocità  la tangenziale per confondersi nel traffico. Quella notte, coricandosi, Nafa temette che un incubo lo tradisse. Invece si addormentò come un carpentiere dopo una dura giornata di lavoro. Del sonno del giusto.” 

Valeria Jacobacci

Valeria Jacobacci, scrittrice e pubblicista, è appassionata conoscitrice di storia partenopea e di biografie, spesso femminili, di donne che hanno caratterizzato i loro tempi. Si è interessata alla Rivoluzione Napoletana, al passaggio dal Regno borbonico all’Unità, al secolo “breve”, racchiuso fra due guerre. Ha pubblicato numerosi articoli, saggi e romanzi. 

Presentazione:

Il 9 maggio alle ore 18 Valeria Jacobacci presenta a Napoli, da ScottoJonno nella Galleria Principe di Napoli, il suo ultimo romanzo La stamperia dei libri proibiti (La valle del tempo). Relatrice la “nostra” Serena Cirillo.

Il nazista e il barbiere di Edgar Hilsenrath: l’epopea grottesca di un voltagabbana, di Gigi Agnano

Il nazista e il barbiere è un romanzo arguto, grottesco e bizzarro il cui autore è Edgar Hilsenrath, un ebreo sopravvissuto all’Olocausto, nato a Lipsia nel 1926 e scomparso nel 2018. Scritto in tedesco negli anni Cinquanta, il libro, per il suo contenuto e per il tono satirico della narrazione, ha avuto una genesi piuttosto travagliata: pubblicato in molti Paesi nel’71, in Italia nel ‘73 da Mondadori, in Germania è uscito  – dopo innumerevoli rifiuti e solo dopo il successo negli Stati Uniti – nel ‘77 con un piccolo editore. Infatti le grandi case editrici sia dell’Ovest che dell’Est temevano le reazioni del pubblico dei lettori, poco disposto a confrontarsi con una commedia a tratti umoristica e burlesca su una delle pagine più tragiche della propria Storia, peraltro narrata in prima persona da un feroce assassino tedesco.

Il romanzo racconta il corso della vita del barbiere Max Schulz, ariano sia per parte di madre che per la parte di uno dei suoi presumibili cinque padri, a partire dall’amicizia con un bambino ebreo suo coetaneo Itzig Finkelstein. Itzig è un ottimo studente e aiuta l’amico nei compiti scolastici; Max invece insegna a Itzig la sua unica abilità: catturare e torturare topi. La famiglia Finkelstein dà rifugio a Max, lo protegge dalle percosse e dagli abusi sessuali del patrigno e di fatto lo adotta. Così accade che Max si comporti come un ebreo: va in sinagoga, parla yiddish e sogna Gerusalemme come ogni ebreo al termine delle celebrazioni pasquali. Passa il tempo, in Germania comincia l’ascesa del nazismo col suo carico di antisemitismo, i compagni di giochi crescono e Max osserva che tra i due è lui a somigliare fisicamente ad un ebreo, laddove Itzig, l’ebreo, sembra di purissima razza ariana:

“Il mio amico Itzig era biondo e aveva gli occhi azzurri, il naso dritto, i denti bianchi e la bocca ben disegnata. Io invece, Max Schulz, figlio illegittimo ma ariano puro di Minna Schulz, avevo i capelli neri, gli occhi da rospo, il naso a becco, le labbra gonfie e bitorzolute e i denti guasti. Potrete ben capire che molto spesso ci confondessero.”

Con la definitiva presa del potere di Hitler, nonostante tutte  le attenzioni, l’amicizia e l’aiuto ricevuti dai Finkelstein, Max, senza alcuna motivazione razionale, diventa membro del partito nazionalsocialista e si arruola nelle SS nelle cui fila commette crimini orribili sia nelle campagne militari che in un campo di concentramento polacco. È proprio lui, Max, il voltagabbana bugiardo e senza scrupoli a raccontarci le sue “imprese” in un tono colloquiale da romanzo picaresco.

A guerra finita, per sfuggire alla denazificazione e alla giustizia, il nostro “eroe” mette in atto un piano che è un capolavoro di ripugnante camaleontismo: si fa circoncidere e tatuare un numero di matricola come fosse un reduce da Auschwitz e assume l’identità dell’amico da lui stesso ucciso con tutta la famiglia. Decide quindi di emigrare  in Palestina  e, ulteriore colpo di scena, diventa un combattente per la costituzione e la difesa dello Stato ebraico prima contro gli inglesi e poi contro gli arabi.

Qui l’ironia di Hilsenrath è estremamente sottile nel mostrare al lettore quanto il linguaggio di Max e dei suoi fratelli sionisti nei discorsi entusiasti sullo sviluppo del nuovo stato ebraico sia somigliante alla retorica nazionalsocialista, quanto i loro slogan la evochino. Quando il suo amico Sigi Weinrauch scherza sul sionismo, Max, l’ex genocida ora perfetto sionista, lo chiama “nemico del popolo” e commenta tra l’adirato e lo scandalizzato:

“Sigi Weinrauch… è un nemico del popolo. Sbeffeggia il sionismo — da noi questo si chiamava ‛deformazione della verità’ — insulta i nostri condottieri — da noi si chiamava ‘diffamazione del Führer’ — e parla sempre di causa persa — da noi si chiamava ‘apologia di propaganda nemica’ e ‘disfattismo’ — ma la cosa peggiore di tutte è che Sigi Weinrauch ama la Germania! Ma ci pensate? Un ebreo che ama la Germania! Nonostante i sei milioni!”

Il romanzo prosegue sviluppando una trama ricca di ulteriori svolte improvvise per arrivare ad un bellissimo finale a sorpresa, l’ennesimo giro di valzer, l’ennesima piroetta, che ovviamente non racconto.

Aggiungo solo che anche al termine della sua vita rocambolesca, Max alias Itzig, antesignano dell’imputato Eichmann a Gerusalemme, non ha rimorsi, si autoassolve, giustifica il suo opportunismo, il suo andare dove gira il vento, attribuendo la responsabilità dei propri crimini ad altri e mai a se stesso, un po’ come hanno fatto alla fine del conflitto tanti gerarchi nazisti e molti cittadini tedeschi. Come Eichmann, Max dice in buona sostanza di aver “solo obbedito agli ordini” come se l’ obbedienza fosse una kantiana virtù morale. E, a tal proposito, nel finale del romanzo viene da pensare alla frase della Arendt per cui “nessun uomo per Kant ha il diritto di obbedire”, ovvero “ogni uomo deve in ogni azione riflettere se la massima che guida il suo agire possa diventare una legge universale”.

Hilsenrath è con ogni probabilità il primo scrittore a fare del tipico umorismo ebraico sulla tragedia dell’Olocausto; è moderno nel prendere in giro una Germania diventata subito dopo la guerra improvvisamente filosionista; ed è attualissimo e profetico nello smascherare posture, frasi e slogan nazisti dietro la propaganda e la politica del nascente Stato di Israele.

Gigi Agnano