Lo straordinario esordio narrativo di Deborah D’Addetta è un fulmine a ciel sereno nel panorama letterario italiano. Maleuforia (Giulio Perrone Editore) è un romanzo di formazione, poetico e commovente, ipnotico, irriverente, sopra le righe, ambientato in una Napoli crepuscolare sospesa tra ombre e passioni proibite.

Ciao Deborah e benvenuta a Il Randagio. Maleuforia è un ossimoro curioso, ma è anche una parola che non esiste nella lingua italiana, da dove è venuta fuori? E cosa racconta alle lettrici e ai lettori?
Ciao Gabriele e grazie per questo invito. Maleuforia è un neologismo coniato dal mio compagno in tempi non sospetti, quando ancora non ci conoscevamo. Nel corso di questi anni insieme ho colto il significato che lui gli dava e ci ho aggiunto un po’ della mia comprensione delle cose. Quando ho iniziato a scrivere il romanzo gli ho tassativamente proibito di pronunciare la parola per paura che perdesse efficacia. Ai lettori parla di uno stato d’animo vero e proprio, a cui ciascuno assegna una sua propria definizione. Se vogliamo semplificare, è il corrispettivo italiano dell’appucundria partenopea o della saudade lusitana.
Raffaele/Lèmon è un personaggio che entra nel cuore, durante la lettura assistiamo al suo percorso umano e identitario. Com’è nato? Ha qualcosa in comune con te?
Lèmon è un personaggio nato perché da sempre mi interesso al mondo dei femminielli napoletani e negli anni ho collezionato una serie di romanzi, racconti, saggi che trattano il tema del cross-dressing, del transgenderismo, della transizione, dell’identità e orientamento di genere. Mi affascina molto il conflitto interiore di queste persone, il percorso umano, le motivazioni alla base. Lèmon nasce perché dovevo dare un corpo alla maleuforia, che si piegasse ma non si spezzasse. Il suo conflitto intrinseco – quella sé in forma di femmina che sente dentro – è esattamente il punto di partenza della sua maleuforia.
È un romanzo corale, un’umanità multiforme, colorata e atipica, chi sono gli altri protagonisti?
Ci sono cinque voci ben distinte nel romanzo, ognuna con le sue peculiarità, il suo tono, le sue cose da raccontare, tutte in prima persona: Lèmon, di cui abbiamo parlato, Linda e Cleo, le sue due migliori amiche, femminielli come lei, Maria, la santa puttana che introduce Lèmon nel bordello di Donna Sofia, e infine il Cavaliere, nel suo ruolo di pigmalione. Tutte le voci sono state pensate per creare un puzzle, uno sguardo collaterale che arricchisce di punti di vista la visione di Lèmon.

Il tuo libro è implicitamente anche un’appassionata dichiarazione d’amore a Napoli. Una città perennemente in bilico tra i suoi contrasti, sacro e profano, miseria e nobiltà, poesia e monnezza: qual è il suo ruolo nella tua opera?
Sarebbe stato molto facile rendere Napoli la protagonista del romanzo, ma io volevo assolutamente evitarlo. Non perché io non ami Napoli, al contrario: proprio perché ne sono innamorata da tanti anni non volevo cadere nell’errore di raccontarla in modo banale, piatto, oppure – peggio – rappresentarla come un insieme di cliché. Per questo motivo, la città, seppur massicciamente presente nel romanzo, viene relegata quasi in modo esclusivo in spazi chiusi: la casa d’infanzia di Lèmon, il bordello di Donna Sofia, la villa di Posillipo del cavaliere, il vascio di Linda e Cleo, lo strip club di Mergellina. Inoltre, più che reiterare una dicotomia ormai esausta che viene spesso usata per descrivere la città, quella di luogo in bilico tra sacro e profano, io insisto nel dire che Napoli oscilla tra osceno e benedetto. Il suo ruolo quindi, all’interno del romanzo, è quello di fondale teatrale: nel romanzo non pronuncio mai la parola “Napoli”, ma le persone capiscono perfettamente dove ci troviamo.
I femminielli nella cultura partenopea sono quasi figure mitologiche e ancestrali, già raccontate magistralmente anche da Giuseppe Patroni Griffi e Annibale Ruccello. Eppure sei riuscita a decodificare il tema e a renderlo attuale senza cadere mai nell’anacronismo. Ci spieghi come hai fatto?
Non so se effettivamente io sia riuscita in questa impresa, ma la guida imprescindibile di Patroni Griffi con il suo Scende giù per Toledo, di Annibale Ruccello con Le cinque rose di Jennifer, nonché Pedro Lemebel con Ho paura torero, hanno dettato un canone da seguire. Non potevo fare a meno di leggere le avventure erotiche di Rosalinda Sprint né andare a vedere a teatro Ruccello. Il modo di rendere attuale il tema è stato attraverso la trasformazione fisica di Lèmon: lei non si accontenta di rimanere un femminiello, ma intraprende un percorso che oserei dire “contemporaneo” di vera e propria metamorfosi.

Questo libro è frutto di un lungo lavoro antropologico di ricerca. Quali sono state le tue bussole per orientarti in questo mondo inesplorato?
Oltre alla ricerca di tipo accademico – quindi romanzi, saggi, testi che trattavano il tema della transizione di genere e della cultura dei femminielli, delle case chiuse, dei quartieri a luci rosse di Napoli e Genova – ho pensato che la cosa migliore da fare per cercare di capire un mondo a cui non appartengo fosse calarmici. Ho parlato con donne trans, con prostitute, le ho intervistate, mi sono fatta raccontare la loro storia, le ho fotografate. Ho tentato di immedesimarmi nei loro percorsi di vita. Lèmon, Cleo e Linda sono il risultato di queste conversazioni.
Il sesso è molto presente tra le tue pagine, a volte è gioioso e spudorato altre squallido e veniale. Che importanza ha l’eros nella tua scrittura? Secondo te come mai non riusciamo ancora a parlarne liberamente?
Mi è stato detto che ogni cosa che scrivo, dal romanzo ai racconti agli articoli ai pezzi saggistici (e mi trovo d’accordo), è attraversata da una corrente erotica facile da catturare. Il genere erotico, che sia nella letteratura, nel cinema, nell’arte, nella fotografia, mi interessa da quando sono adolescente e mi era proibito di indugiarvi. Trovo sia molto superficiale e ingiusto relegarlo a genere di serie B e questo per una questione molto semplice: scrivere erotico non è facile. Si cade nel grottesco, nel comico, nel surreale. Eppure abbiamo esempi di letteratura erotica di livelli eccelsi: pensiamo a Lolita di Nabokov, ad Apollinaire, lo stesso Lemebel, a De Sade, a Anaïs Nin, Angela Carter, nonché (quelli che personalmente preferisco) autori giapponesi che del genere erotico hanno fatto arte, come Kawabata, Mishima, Tanizaki. Di erotismo parliamo, ma male e con i termini sbagliati: l’erotismo si confonde con la pornografia e una mera questione di sesso. Non è così. Il problema è che, nel nostro Paese (e non solo), tutti fanno tutto ma si nasconde la polvere sotto il tappeto. È un’ipocrisia bella e buona: la solita facciata pulita del “si fa ma non si dice” e poi, nel privato, com’è giusto che sia, si consumano le migliori perversioni. Si dovrebbe essere più sinceri.
Maleuforia ha una struttura circolare, finisce come inizia. Perché?
L’incipit del romanzo, che ho riscritto circa trenta volte, si aggancia all’ultimo capitolo, o forse sarebbe meglio dire il contrario: l’ultimo capitolo riprende la stessa identica ambientazione per chiarire i connotati fumosi del principio. Non è chiaro a tutti quello che succede non appena il romanzo inizia. La chiusa serve, intanto, a sigillare un cerchio e questo perché amo particolarmente i romanzi circolari, e secondo, perché risolve degli irrisolti. È come una cerniera: i due lembi – l’incipit e la conclusione – fisicamente imprigionano la storia di Lèmon nei loro denti.
So che scrivi racconti, puoi consigliarci tre racconti imprescindibili?
Sì, amo molto i racconti e le raccolte di racconti. Posso consigliare di più, tre raccolte i cui testi brevi sono tutti capolavori: La foresta in fiore di Yukio Mishima, cinque racconti giovanili dell’autore giapponese che trattano temi come le divinità, l’introspezione profonda, le tradizioni; Puttane assassine di Roberto Bolaño, credo non abbia bisogno di presentazioni; e infine, I pericoli di fumare a letto di Mariana Enriquez, una delle mie autrici contemporanee preferite, dodici storie brevi che intrecciano perturbante, weird, realismo magico e oscura eleganza.

Deborah D’Addetta, è nata in Puglia nel 1986, vive a Napoli. Fa parte del collettivo Spaghetti Writers, per cui scrive racconti ed è redattrice, recensisce libri per Critica Letteraria ed è contributor di varie testate, tra cui Italy Segreta, Mar dei Sargassi, City News – Napoli Today. Molti suoi racconti e scritti di natura saggistica sono stati pubblicati su riviste letterarie. Vince il premio letterario “L’Avvelenata” con “Blam” 2021. Maleuforia è il suo romanzo d’esordio, pubblicato nel maggio 2024 da Giulio Perrone Editore.
Gabriele Torchetti

Gabriele Torchetti: gattaro per vocazione e libraio per caso. Appassionato di cinema, musica e teatro, divoratore seriale di libri e grande bevitore di Spritz. Vive a Terlizzi (BA) e gestisce insieme al suo compagno l’associazione culturale libreria indipendente ‘Un panda sulla luna‘.

