Intervista a Elvio Carrieri per “Poveri a noi” (Ventanas, 2024), di Gabriele Torchetti

Quando un ventenne al suo primo romanzo viene proposto da Valerio Berruti al Premio Strega, il lettore selvaggio s’incuriosisce e il Randagio corre a cercarlo. Elvio Carrieri, barese del 2004, scrittore e musicista, ha pubblicato “Poveri a noi” con Ventanas, un lavoro scritto in una settimana, un capitolo ogni notte, mentre nell’estate 2023 sosteneva l’esame di maturità. Gabriele Torchetti, il libraio della nostra libreria preferita, l’ha intervistato per i nostri lettori.

Ciao Elvio e benvenuto a Il Randagio. Hai poco più di vent’anni, hai un background come musicista e poeta, com’è avvenuto il passaggio alla narrativa? Ho letto che hai scritto Poveri a noi in una sola settimana, un capitolo a notte. Questa cosa fa pensare a una vera e propria emergenza comunicativa, è così?

Il passaggio alla narrativa è arrivato per sana e meravigliosa coercizione, come buttarsi in acqua senza saper nuotare. È avvenuto perché c’è chi mi ha sfidato dopo aver letto e pubblicato alcuni miei versi a confrontarmi con il mondo esterno, quel qualcuno è lo scrittore Francesco Forlani, che ringrazierò sempre piano piano saldando il conto di bottiglie di vino che gli devo. Forlani dopo mesi di pezzi di prosa commissionati, dall’inchiesta al reportage, mi ha lanciato la sfida del boss finale: hai fatto la maturità, ora sai fare un romanzo di novanta cartelle in otto giorni? E io l’ho fatto perché per una volta ho agito in conformità alla mia età anagrafica: con incoscienza. È nato, di fondo, un libro incosciente. E infatti rivestiti i miei panni senili appena ci ho rimesso mano l’ho rovinato, menomale che ho avuto un editing. Altro che emergenza comunicativa…

Noi lettori sfegatati e boomer aspettiamo con ansia le proposte degli amicidella domenica per il Premio Strega, è stata una piacevole sorpresa trovare nella rosa dei titoli il tuo Poveri a noi (edizioni Ventanas). Valerio Berruti tra le parole usate per proporre il tuo libro ha scritto: “un libro profondo per le sensazioni che riesce a risvegliare, per l’ironia e il sarcasmo a volte snobistico dei dialoghi ma anche per la speranza che la cultura e le idee possano salvarci”, ti ci ritrovi in queste motivazioni?

Mi ritrovo molto di più in un altro aggettivo utilizzato da Berruti che mi ha lusingato: implacabile. Quando parla di lingua implacabile io non posso far altro che darmi una pacca sulla spalla. Il plot di Poveri a noi si snoda tanto sulle idee, perché è a suo modo un romanzo di idee (e si noti bene, non di messaggio o morale), quanto sulla lingua. Un barese cinico violento senza sottotitoli volutamente straniante, questo era il tentativo, anzi direi che era l’inevitabile. Mi piace molto anche il ritorno di un aggettivo che era stato già usato per parlare di Poveri e mi aveva fatto sogghignare: snobistico. Valerio Berruti ha centrato, poco da dire se non un grande grazie.

Poveri a noi ha un arco temporale di vent’anni, tutto ha inizio nel cortile di una scuola media nella periferia barese, mentre Plinio viene massacrato di botte da un compagno fascistello, Libero assiste inerme alla brutalità dei fatti. I due protagonisti sono dei ragazzini che successivamente diventano amici, il loro è un rapporto basato sulla protezione reciproca, ma nello stesso tempo soffocato dal senso di colpa di Libero. A distanza di quasi vent’anni continua a rimpiangere il suo mancato intervento in difesa dell’amico. Puoi dirci qualcosa in più su questi due personaggi, chi sono e come evolve il loro rapporto nel corso degli anni?

Si tratta dello stesso personaggio: da una parte l’inazione e la passività e dall’altra il suo svolgersi, il dato fisico che riporta le conseguenze del non agire, del non saper agire. Da una parte Libero, professore che si narra e narra la sua colpa eterna e nevrotica, dall’altra, sempre accanto a lui come una condanna, sto corpo malmenato dell’amico Plinio che si porta appresso. Non è un caso che la descrizione del corpo di Plinio torni sempre per tutto il romanzo come una sorta di leitmotiv della bruttezza. È iperbolico, è grottesco, e genera un senso di colpa altrettanto iperbolico e grottesco. Ma si tratta dello stesso personaggio scisso in due, due che uniti e ricomposti suscitano solo un forte sentimento di pietà.

Nel tuo libro c’è anche spazio per l’amore, quello tra Libero e Letizia. Devo ammettere che ci sono battute (a volte cattivelle) che mi hanno fatto decisamente ridere. Puoi dirci qualcosa in più su questo personaggio femminile e sulla dicotomia ricorrente cittadino/paesano?

Si tratta del personaggio di Poveri più odiato e più amato. Due ragazze in una scuola dove ho parlato di recente si sono scannate su Letizia e in alcuni incontri non mi hanno risparmiato da velate accuse di mansplaining o in generale di poca clemenza nei confronti dei personaggi femminili. Ma io sento queste cose e gongolo. Letizia in narratologia si direbbe un personaggio a funzione motrice, senza di lei l’azione non parte, e Libero rimane fermo a narrare sé stesso in questo uroboro di lettere e colpa. Ma è anche (e questo non mi è stato perdonato) un personaggio a funzione di specchio, quello sul quale vengono scaricate le nevrosi degli altri e che dunque si è meritato un minore approfondimento psicologico. Specchio e motore dell’azione, Letizia è nella mia mente fantasticante un corrispettivo dell’Anna soror virgiliana, non direi una citazione ma una bella coincidenza a posteriori. Questo la salva anche dalla condanna di tutto il libro: lo schifo interiore di ogni attore per qualche motivo non tocca lei, che rimane sullo sfondo come unico personaggio realmente positivo in un mare di merda. Il suo essere paesana e dunque oggetto di scherno da parte dei personaggi metropolitani mi è servito a trattare uno dei grandi temi di Poveri, cioè l’odio che ancora vige e sempre vigerà tra urbe e contado.

A proposito di città, Bari è sicuramente comprimaria nella tua narrazione. Il tuo è un ritratto nitido e amaro, distante anni luce dalla narrazione fiabesca della Puglia e del nuovo trend “Bari”. Innanzitutto ho molto apprezzato il fatto che tu abbia oltrepassato i confini (altoborghesi) del centro al di là della stazione ferroviaria. Qual è il ruolo che gioca la città nel libro e nel tuo privato?

Credo che l’unico tratto autobiografico di Poveri sia nel rapporto con Bari, nel senso che gioca nel mio privato esattamente quello che gioca nel libro: il rimpianto e anche qui un forte senso di colpa. Mettere in prosa la storia tragica delle permute del murattiano raccontatami da mio nonno è stato utile per riappacificarmi con lo schifo urbanistico e architettonico che vedo ogni giorno passando per le vie del centro, per farmi sentire in fondo che qui nasco qui muoio e a questo luogo appartengo. Insomma per farmi sentire un provinciale, proprio così. Questa città non mi molla, ma grazie a Poveri a noi l’ho raccontata nel suo apparato fallimentare e corrotto, altro che trend, e non c’è stato neanche bisogno di tirare troppo in mezzo la malavita, bastava la storia architettonica a parlare da sé come metafora di autodistruzione consapevole.

A proposito di Bari, ogni capitolo si apre con una parola chiave rigorosamente in dialetto: Trmòn, Prfssò e via dicendo. Come mai questa scelta? Senza addentrarci troppo nell’elenco, parliamo soltanto di Trmòn, qual è la sua presunta etimologia e perché sei partito proprio da questa parola?

Partire da Trmòn vuol dire sfidare subito il rischio macchiettistico del folklore come prodotto confezionato per far ridere e strizzare l’occhio a certa prosa di tendenza. Ho dedicato il primo capitolo a questa parola per semplici esigenze affettive: è una delle parole più riconoscibili del nostro dialetto e soprattutto tra le prime che ho imparato a pronunciare correttamente, con questa o chiusa che si apre più sali geograficamente e che scendendo verso il Salento inizia a scomparire dai radar insieme a tutte le altre lettere. L’etimologia farlocca che riporto è il primo esempio della strategia di lingua che applico in tutto il libro. La contraddizione stilistica e lessicale, la convivenza di estremi opposti nei registri fanno sì che un termine così brutale venga riportato alle grazie di Nicolò Piccinni e della sua corte francese elegantissima, che in assenza di cortigiane doveva sollazzarsi “in altro modo-autrement” (da cui trimone, l’atto di masturbazione maschile), durante la trionfale visita di ritorno a Bari dalla Francia, decisione voluta dal maestro in segno di rispetto verso la sua città d’origine.

Ho letto un tuo post che mi ha fatto molto ridere, hai scritto chele interviste sono qualcosa di democristiano e allora torniamo un attimo al libro e in qualche modo al “democristiano”, c’è una figura che viene citata più di una volta, un cameo inconsapevolmente irriverente, quello dell’assessore alla cultura. La tua è una critica impietosa al sistema, secondo te qual è la visione politica, sociale, culturale che manca?

L’assessore alla cultura, un altro leitmotiv di Poveri a noi. In questo caso se il corpo di Plinio era il leitmotiv della bruttezza l’assessore sarà quello della mediocrità culturale? Non necessariamente, perché ti dico pure che quando ho scritto il romanzo l’assessore alla cultura lo stimavo. Certo in Poveri non può che risuonare come monito a ciò che oggi è davvero evidente: la cultura o quello che intendiamo per cultura non dovrebbe avere assessori, non dovrebbe perché non è una cosa da amministrare, non è una cosa che va sempre in accordo con la politica. Neanche l’antropologo riesce ancora a dirci cos’è effettivamente ‘sta cultura e noi invece ci piazziamo subito gli assessori. Per me è un cortocircuito da cui non si riesce a venir fuori, e allora io direi che se proprio la vogliamo amministrare ‘sta cultura sarebbe il caso di fare un reel in meno e formarsi di più in qualunque altro modo, magari interloquendo con chi se ne occupa davvero. È triste prendere atto di quanta arte in Puglia non venga valorizzata e finanziata mentre i fondi si indirizzano verso chi sfrutta il neoumanesimo tiktokiano, roba da uscire pazzi, certamente più remunerativa e strategica rispetto ai nostri poeti, che ci sono e sono vivissimi. Ma la cultura non è affar mio, mi occupo di altro per fortuna.

Nonostante tu abbia poco più di vent’anni, sei riuscito a scrivere una nuova commedia all’italiana, perché il libro è arguto, divertente e nello stesso tempo lascia una nota amara al palato. Chi sono questi Poveri a noi?

Ti ringrazio per il complimento. Poveri a noi sono quelli che come i miei personaggi non sono e non saranno mai generazionali, non edificheranno moralmente mai alcun lettore o alcuna lettrice, non diranno come comportarsi e non indicheranno mai il bene rispetto al male ma anzi sguazzeranno nell’ambiguità etica e concettuale, non useranno le lettere come strumento di posizionamento sociale ma le bestemmieranno e le benediranno ogni giorno, in definitiva non fungeranno mai da specchio.

Chiudiamo con il consueto consiglio di lettura, sei entrato nella scuderia di Ventanas, una casa editrice che pian piano sta proponendo titoli molto interessanti. Hai qualche suggerimento da darci?

Leggete Il commerciale di Rubens Shehu, un vero libro implacabile.

Gabriele Torchetti

Gabriele Torchetti: gattaro per vocazione e libraio per caso. Appassionato di cinema, musica e teatro, divoratore seriale di libri e grande bevitore di Spritz. Vive a Terlizzi (BA) e gestisce insieme al suo compagno l’associazione culturale libreria indipendente ‘Un panda sulla luna‘.

Intervista a Mariella Medea Sivo per “Favole senza finale felice di una ragazza nata negli anni ’70” (Secop, 2025), di Gabriele Torchetti

Mariella Medea Sivo, pugliese, scrittrice, editor e ghostwriter, collabora con blog e riviste e ha all’attivo la pubblicazione di racconti e testi teatrali. Divulgatrice letteraria e attivista impegnata da anni nella sensibilizzazione sui temi della violenza di genere, è curatrice di varie rassegne. “Favole senza finale felice di una ragazza nata negli anni 70” è il suo esordio letterario, inserito in una collana di narrativa, da lei diretta, della casa editrice Secop dedicata alle voci femminili. L’ha incontrata per noi l’inesauribile Gabriele Torchetti.

Ciao Mariella e benvenuta a Il randagio. Medea ormai è parte integrante della tua identità letteraria e artistica. Toglici una curiosità, perché tra tanti personaggi della mitologia greca e della letteratura hai scelto proprio questo nome?

Ciao Gabriele e grazie per questa intervista. Dunque, il mio nome d’arte, Medea, non si rifà alla donna furiosa di amore e gelosia che uccide i suoi figli, che pure ho amato soprattutto nella versione euripidea, ma alla potentissima maga che attraverso filtri e pozioni cura. Ecco, mi piaceva l’idea di una maga capace di curare attraverso le parole, i libri. Medea ha la stessa radice di medicina, medico. Una Medea “buona” insomma.

Da anni lavori incessantemente nel mondo dell’editoria, hai intervistato tantissimi scrittori, pubblicato recensioni per riviste letterarie e siti web, sei editor per case editrici indipendenti, curi personalmente una nuova collana narrativa, nei ringraziamenti finali del libro ti definisci “una lettrice con nessuna voglia di diventare scrittore” e invece eccoti qui con Favole senza finale felice di una ragazza nata negli anni’70 (Secop Edizioni), qual è stata la spinta che ti ha catapultata in prima persona nella scrittura?

Ho voluto misurarmi con la scrittura, con la tecnica legata alla scrittura, dando ascolto alla me più incosciente e scanzonata. Proprio perché non ho velleità da scrittore, che avevo da temere? Nulla! Tendo ad annoiarmi, per cui ho bisogno di diversificare le mie attività. Ok continuare a leggere, che resterà per sempre la mia passione prioritaria, ok lavorare come editor e ghostwriter, ok scrivere recensioni e post su facebook, ma ritengo sia salutare abbandonare la comfort zone per esplorare nuovi ambiti e, chissà, scoprire nuovi talenti. Scherzi a parte, la mia pubblicazione è un vero e proprio sperimentalismo letterario che ruota intorno al mio amore per le donne. E saranno le donne le protagoniste dell’intera collana, ognuna con il suo particolare punto di vista.

Dodici racconti in bilico tra favola e abisso, qual è il fil rouge che accomuna le protagoniste di queste storie? Chi sono queste “ragazze”, le hai conosciute di persona o sono frutto dell’immaginazione? C’è qualcosa di te in loro?

Grazie per aver posto attenzione al sottotitolo che sfugge a molti: tra la favola e l’abisso. Questo sottotitolo è riferito al prologo e all’ultimo racconto, quello in orizzontale, la voce maschile ospitata all’interno del mio carosello femminile. Il prologo è stato scritto dalla me sedicenne, preso dal diario di scuola del 1987. Il racconto è stato scritto invece da mio figlio Gabriele Piccarreta quando pure aveva sedici anni, nel 2014. Mi ha colpito molto la diversa visione dell’utopia che due sedicenni hanno sviluppato a distanza di quasi trent’anni. La mia è incantata, magica, delicata. Quella di Gabriele è molto più cruda, è incentrata sull’assetto politico e sociale, è distopica, un abisso dentro cui sprofondare. Queste due diverse interpretazioni dell’utopia, come una sorta di parentesi, contengono le dodici favole il cui fil rouge è la possibilità, ovvero la finestra sulla felicità che ciascuna di noi ha il diritto e il dovere di spalancare, quanto meno di provarci. Le protagoniste attingono al mio patrimonio autobiografico e biografico, nel senso che sicuramente veicolano particelle del mio vissuto, sia diretto sia indiretto. Mi piace molto ascoltare, sono una spugna, assorbo storie e le faccio sedimentare nella mia testa. Le assimilo e poi le restituisco al mondo in forma di scrittura. L’ho sempre fatto, dapprima in forma privata, sul classico diario personale, questa volta in forma pubblica, accessibile a tutti. Inoltre, quasi tutte hanno il nome che inizia con la emme, che è pure l’iniziale di Mariella e di Medea, di madre, maga, mare, malattia, memoria… La emme  è il mio esserci in ognuna delle donne che sono raccontate in questo libro, che sono quindi degli ibridi, metà me e metà altre. 

Questo è l’incipit poetico del racconto L’ottativo desiderativo: “I suoi fiori preferiti erano le peonie dei grandi e delicati petali disposti a strati, come i classici gonnellini in tulle delle ballerine di Degas, ma lo erano anche i tulipani dall’aspetto marziale. Perfetti per stare insieme. Peonie e tulipani amanti del sole, attrazione irresistibile per le piccole api, delizia per gli occhi”. Spesso diciamo che la realtà supera la fantasia, puoi dirci qualcosa in più su questa “favola” che trae ispirazione da un triste episodio accaduto in Puglia?

A luglio dell’anno scorso mi colpì molto a livello umano la storia di una insegnante di Martina Franca che era arrivata al giorno del suo matrimonio senza che vi fosse lo sposo. “Si era fatta il film”, come diciamo tra noi donne. Ho voluto provare a mettermi nei suoi panni, mi sono seduta accanto a lei, in senso metaforico chiaramente, e ho ascoltato la sua versione dei fatti. Perché capita spesso che si giudichi qualcuno senza capire ciò che lo abbia spinto a determinate scelte e azioni. Quella donna mi ha fatto molta tenerezza, l’ho immaginata circoscritta nella sua solitudine, avviluppata al suo sogno. Da questa empatia è nato il racconto.

Una donna che parla d’amore è sempre vista con sospetto, una donna che parla di sesso ancora di più. In alcune delle tue favole l’eros è un elemento preponderante e imprescindibile nella narrazione. Curiosità, esplorazione, desiderio, Puoi dirci qualcosa in più su questi racconti?

Durante il Covid mi fu chiesto di organizzare una serie di reading dedicati alla letteratura erotica. Presi in considerazione ben venticinque libri, dal Delta di Venere di Anais Nin a La casa delle belle addormentate di Yasunari Kawabata, passando per I cento colpi di spazzola prima di andare a dormire di Melissa P. Vuoi che non mi abbiano lasciato in eredità un certo gusto per l’eros espresso con le parole? Senza parlare del mio amore viscerale per la letteratura greca e romana, nelle quali l’eros è uno dei temi preferiti. Pensa a Petronio, Catullo, Ovidio, Apuleio, a Saffo. L’eros fa parte della nostra vita, è una componente essenziale, per cui ho voluto includerlo tra gli ingredienti delle mie favole. Eros che prescinde dal sesso, dal genere. Eros come seduzione, come l’immaginazione che fa l’amore con le parole. Mi hanno sorpresa le reazioni di alcuni lettori che si sono detti “scandalizzati” da questi racconti. Nel 2025??? In un tempo di ostentazione e pornografia dei corpi? Ci deve far riflettere questa cosa. Sotto gli occhi ci scorrono corpi esposti come capi di macelleria, però esclamiamo “oh!” se leggiamo un racconto in cui una donna fa l’amore. Ho cercato di creare la giusta atmosfera, così da far crescere fisiologicamente la tensione e preparare il lettore a godersi l’eros spogliandolo del suo bagaglio di dubbi e remore moralisticheggianti. Ma non è così facile come pensavo.

La Puglia è probabilmente “la ragazza” più presente tra le tue pagine

La Puglia è protagonista assoluta del primo racconto, il più autobiografico. Un racconto cui sono particolarmente legata perché ha ricevuto l’imprimatur del grande Alessio Viola, tra i miei più sinceri sostenitori. E’ però una Puglia poco turistica, poco patinata, la mia. Sicuramente non verrò assunta dall’Ente Turismo regionale per la promozione del territorio a scopo attrattivo-turistico. Parlo di una terra bella ma tradita dai politici, che sono poco interessati allo sviluppo delle infrastrutture. Per cui anche solo raggiungere una spiaggia che è a dodici chilometri di distanza diventa problematico. Accade, eh. Tutto il mondo si riversa sulle spiagge pugliesi nei mesi estivi, mentre chi vi abita stabilmente non riesce a farsi un bagno al mare perché ci sono pochi pullman che collegano l’entroterra alle città marittime. 

C’è una sorta di ritrosia nei confronti dei racconti, secondo te perché? Tu da lettrice vorace e curiosa che racconti consiglieresti alle amiche e agli amici de Il Randagio?

Siamo ancora legati alla letteratura ottocentesca, ai grandi romanzi. Siamo fortemente condizionati dallo studio della letteratura scolastica. Leggere per noi italiani equivale a creare dei legami affettivi con i personaggi. Noi siamo quelli delle saghe, dei sequel, delle serie. E invece io sono innamorata follemente dei racconti. Ora si usa chiamarli short story, dimenticando che le origini del racconto sono qui. D’altronde le favole stesse possono essere considerate un ottimo esempio di racconto, e così abbiamo anche spiegato il titolo. Ho amato le novelle di Boccaccio, la novellistica siciliana (Verga e Pirandello). Considero La lupa di Verga il capolavoro assoluto del genere. Costruire una buona architettura del racconto non è cosa facile, devi misurare, tagliare, aggiustare, calibrare. Devi trovare il ritmo giusto , la tensione minima che dia vigore alla storia. Ma poi che piacere leggere! Il racconto anche solo per tempistica è compatibile con la vita frenetica che viviamo. Ne leggi uno in treno, durante le attese, prima di addormentarti. Poi chiudi il libro e te ne dimentichi. Ogni racconto ha un suo tempo vuoto attorno. Non resta nulla in sospeso come accade, invece, con il romanzo. I racconti sono per tutti, anche per i lettori occasionali, poco allenati. Posso consigliare, tra i più capaci e brillanti autori di racconti, Luca Ricci. Pisano di nascita, romano di adozione, una sorta di Carver nostrano. Non che sia una copia dell’autore americano, intendiamoci. Lo eguaglia in talento, questo voglio dire. Consiglio di iniziare con la raccolta L’amore e altre forme d’odio. Ve ne innamorerete perdutamente. Crea dipendenza! Poi consiglio i Sessanta racconti di Dino Buzzati, libro che vinse lo Strega nel 1958 e in cui tutto sembra normale ma niente lo è. Vi colpirà lo sguardo di sguincio, la prospettiva, l’inquadratura. Mi piace concludere citando Stephen King che dice che il racconto è come un bacio veloce, nel buio, ricevuto da uno sconosciuto e che proprio nell’intrinseca brevità del gesto risiede la sua speciale attrazione. 

Gabriele Torchetti

Gabriele Torchetti: gattaro per vocazione e libraio per caso. Appassionato di cinema, musica e teatro, divoratore seriale di libri e grande bevitore di Spritz. Vive a Terlizzi (BA) e gestisce insieme al suo compagno l’associazione culturale libreria indipendente ‘Un panda sulla luna‘.