Parallelamente alla convergenza dei mezzi artistici con i mezzi di fruizione dello spettacolo, in Occidente, dall’Ottocento in poi, si è sviluppata una classe sociale ereditaria delle corporazioni delle arti e dei mestieri, o gilde, medievali: la borghesia, la quale nasce dalla capitalizzazione dei prodotti dell’artigianato attraverso l’industrializzazione dei suoi tempi e metodi produttivi, ma ben lungi dal trattenersi a dettare soltanto leggi di mercato, ha dettato e detta leggi sociali atte ad intendere l’individuo non più come un essere umano, ma al contempo come fonte di consumo e unità forza lavoro. Da fenomeno meramente sociale ed economico, la borghesia è assurta a ideologia, incarnando così il capitalismo, secondo il quale l’unica realizzazione dell’individuo dovrebbe venire dal lavoro svolto per ore tanto estese da non permettergli una degna ripartizione di tempo necessaria a curare il rapporto con il Sé e con gli altri individui, il tutto finalizzato, al contrario dell’artigianato dove il frutto del lavoro poteva conferire senso e importanza al lavoro stesso, alla produzione di frutti immateriali, ovvero i capitali, frutti non apprezzabili dall’operatore capitalista. Non solo: il capitalismo si alimenta anche di una domanda di beni basata su necessità distorte, cioè di consumismo, ovvero l’offerta e il conseguente acquisto di beni non secondo necessità reali, ma secondo necessità indotte per seduzione dallo spettacolo nelle menti degli spettatori. Bere Coca Cola non è necessario, mangiare cibo spazzatura non è necessario, ma lo spettacolo seduce lo spettatore e lo induce ad acquistare e consumare bevande gassate e cibo spazzatura che, oltre ad essere dannosi per l’organismo, non si rivelano all’altezza delle aspettative create dalla loro pubblicizzazione, essendo in genere questi prodotti scadenti, eppure promossi come se fossero di ottima qualità. La seduzione che induce lo spettatore all’acquisto e al consumo di beni innecessari nasconde la reale, e unica, necessità di chi li produce: la necessità di venderli allo spettatore e di convincerlo del fatto che acquistarli e consumarli sia necessario.

Queste sono consapevolezze consolidatesi di recente, comunque ancora rifiutate dai più, ma venendo ai giorni nostri si potrebbe dire che il castello di vetro del capitalismo cominci a creparsi. Ponendo il lavoro e il consumo come funzioni prioritarie dell’individuo, distorcendo quindi la sua visione di sé e del rapporto con gli altri individui, per poi indurlo a considerare utilitaristicamente gli enti della realtà e i rapporti attraverso i quali interagiscono, siano questi oggetti o persone, il capitalismo si scontra con le peculiarità stesse degli individui e degli oggetti e con la loro funzione originaria. Da un lato vi è un concetto basilare di integrità dell’individuo e degli oggetti della realtà, dall’altro lato invece vi sono le logiche del capitalismo, le quali non scendono a compromessi, ma compromettono. Questa grande inconciliabilità è la causa per la quale il capitalismo, il ceto che lo incarna, la borghesia, e l’ambiente stiano deperendo, giacché il capitalismo ha bisogno, almeno per il momento, dell’uomo per essere alimentato e di spazi naturali compromessi attraverso l’antropizzazione degli stessi, mentre l’uomo e la natura hanno bisogno che il capitalismo venga riplasmato a loro misura. Anche il capitalismo stesso si rivela inconciliabile con l’uomo e con la natura, mossi da logiche antitetiche a quelle capitalistiche. Quindi una forma di compromesso, visto il sistema capitalistico vigente finora, non è stato ancora possibile attuarla e, forse, non lo sarà mai.
Quando si parla di società, ci si riferisce in genere alla società borghese, la cui stragrande maggioranza è costituita da individui facenti parte del ceto medio, erede della borghesia che ha accorpato il ceto medio-basso dal boom economico in poi grazie all’alfabetizzazione di massa e ad una controllata emancipazione economica dello stesso. Tuttavia, le differenze, in termini di possibilità economiche, rimangono: come rileva Mishima nei saggi da lui scritti tra il 1968 e il 1970, ora raccolti nel volume Lezioni spirituali per giovani samurai, se un tempo vi era un concetto di appartenenza ad una classe sociale, connotato anche dalle apparenze, a differenziare gli individui della società, ora non vi è più, ed è facile constatare come gli usi e costumi del ceto medio-basso e delle classi più ricche siano diventati gli stessi del ceto medio. Abolite in gran parte la povertà e l’aristocrazia, le quali entrambe inducevano a possedere usi e costumi distinti da quelli borghesi, ne risulta che gli usi e i costumi dominanti sono quelli del ceto medio. Si constata che in condizioni economiche impari, diversi individui di diversa estrazione sociale possiedano beni di lusso che, come gli usi e costumi del ceto medio dettano, si ritiene necessario possedere, intendendo determinati beni innecessari come beni di prima, irreale necessità, da possedere anche a costo di non soddisfare le prime, reali necessità. Non importa quanto un individuo sia povero o ricco, è probabile vederlo munito di telefoni di fascia alta, elettrodomestici più comodi che utili, talvolta del tutto innecessari come nel caso delle televisioni, e così via, per il semplice fatto che «tutti li possiedono». L’aristocrazia, invece, è stata sostituita dai magnati dell’industria, di estrazione borghese o medio-bassa, quindi di usi e costumi comunque caratteristici del ceto medio.
La spettacolarizzazione persuasiva e pervasiva del ceto medio spiega in parte l’adozione da parte del vecchio ceto medio-basso e da parte dei magnati dei suoi usi e costumi attraverso la televisione, mezzo che, sin dall’inizio, ha subito affascinato e indotto tutte le fasce della società a possederne un esemplare, prima in numero esiguo e con formule di possesso spesso più condiviso che privato e poi in sovrannumero per ogni nucleo familiare. Mentre è poco rilevante denotare quali effetti abbia avuto la spettacolarizzazione del ceto medio sulla borghesia e sui magnati, siccome potevano e possono permettersi di acquistare e consumare potenzialmente ogni bene disponibile sul mercato, lavorare, per il ceto medio-basso, non significò più, dall’avvento della televisione in poi, guadagnare denaro sufficiente per soddisfare principalmente le prime, reali necessità, ma guadagnare il denaro necessario ad acquistare anche gli usi, i costumi e gli averi del ceto medio, a fronte di disponibilità economiche ridotte, talvolta anteponendo le necessità indotte dallo spettacolo a quelle reali. Checché se ne dica, la prima fonte d’ispirazione di ogni artista è il Sé in rapporto con il mondo. Considerato che la maggior parte degli uomini delle società occidentaliste appartengono al ceto medio, è altamente probabile che gli artisti di una società occidentalista provengano per la maggior parte dal ceto medio, ne condividano gli usi e costumi e siano più propensi a rappresentarli. Non solo: gli usi e costumi del ceto medio, oggi, oltre che costituire una tendenza di classe, appaiono organizzati secondo un regime temporale. Nascere, crescere, studiare, fare vita mondana, lavorare, andare in pensione e morire, il tutto entro ritmi serrati. Se nascere richiede un tempo di gestazione biologico più o meno prefissato e morire un tempo indeterminato, crescere, studiare, fare vita mondana, lavorare e andare in pensione sono passaggi organizzati entro tempistiche stagne. La rigidità dei tempi industriali arriva così a regolare il tempo libero di ognuno. Il fatto stesso che le prospettive di vita e i ritmi, inclusi quelli lavorativi e quindi produttivi, siano già incasellati per la maggior parte degli individui, ne pregiudica la produzione artistica, che scade dall’estro, il quale richiede suoi tempi di indeterminata estensione, decadendo nel burocratico. Si considerino inoltre l’influsso delle accademie, siano queste di scrittura creativa, di belle arti, di cinema e così via, le quali stagnano l’atto creativo, e del capitalismo, che induce a prendere mosse dettate dall’andamento del mercato. Tutto ciò riduce l’arte ad una filiera di produzione di massa di opere, se non tra loro identiche, comunque contraddistinte da paradigmi comuni, e quindi di pregio prevedibile. Ne sono la prova i due recenti filoni narrativi dell’editoria italiana, quello dei gialli e quello dell’autobiografismo, i quali, ad oggi, non sembrano aver prodotto opere capitali. Quanto di rilevante è stato scritto negli ultimi anni, di fatto, esula dalla produzione seriale dei suddetti filoni. Un esempio tra tutti è quello di Ferrovie del Messico di Gian Marco Griffi.

Ci si soffermi in particolare sul fenomeno riguardante il recente filone narrativo dell’autobiografismo: con il ceto medio istruito come detto sopra a costituire la maggior parte degli operatori spettacolari e organizzata la sua produzione entro ritmi serrati e finalizzata questa al riscontro economico più che alla libera espressione artistica, si ottiene un’arte che èrappresentazione serializzata e spettacolarizzata del ceto medio. Quella a cui si assiste nelle società occidentaliste è, ancora una volta, la spettacolarizzazione del ceto medio attraverso i suoi prodotti di natura industriale, composti con i mezzi che contraddistinguono la produzione capitalistica, la quale, applicata all’arte, ne compromette l’elasticità conferendole una meccanicità che non le appartiene.
«I problemi della società contemporanea sono tutti di natura sessuale», risponde ad un certo punto il dottor Jacoby (Russ Tamblyn), interrogato dall’agente Cooper (Kyle MacLachlan) riguardo al mistero che avvolge la morte di Laura Palmer (Sheryl Lee) in un episodio della serie I segreti di Twin Peaks. Se non di natura prettamente sessuale, i problemi della società contemporanea potrebbero essere tutti ricondotti quantomeno alle difficoltà che si riscontrano in ambito relazionale con il Sé e con gli altri, problemi riconducibili alla visione delle cose che impone implicitamente il capitalismo, anche attraverso lo spettacolo. Premesso che la società a cui ci si riferisce escluda individui disallineati con il pensiero e l’esperienza comune del ceto medio, e premesso che la stessa società abbia alle spalle del processo di creazione spettacolare per la maggior parte individui appartenenti al ceto medio, si potrebbe aggiungere che lo spettacolo delle società occidentaliste è la rappresentazione serializzata del ceto medio occidentale in crisi, di cui è sintomatico il recente filone narrativo italiano dell’autobiografismo, le cui opere spesso vertono sulla conflittualità che viene a crearsi nei rapporti tra individui e i traumi che questa causa nei personaggi protagonisti, a cui fanno da cornice narrazioni che sono surrogati delle riflessioni di Zeno Cosini. Solo che, a differenza de La coscienza di Zeno di Svevo, l’intento non è satirico, ma serio, troppo serio. L’arte, così, si riduce alla spettacolarizzazione dei rapporti conflittuali e dell’insoddisfazione di fondo che contraddistinguono le vite degli individui appartenenti al ceto medio. Se di arte bisogna parlare in questo caso, allora così si ha una forma d’arte della crisi, che, parafrasando e invertendo un celebre assunto di Carmelo Bene, si fa crisi dell’arte.
Sempre meno spettatori ne fruiscono, sempre meno sono coloro che nutrono interesse per questa forma d’arte. La vita borghese e le sue nevrosi non costituiscono quasi più per nessuno casi affascinanti da analizzare, in parte perché costituiscono esperienze comuni pressoché a tutti e di cui tutti gradualmente si vogliono liberare, dal momento che in gran parte la società è confluita nell’adozione degli usi e costumi del ceto medio e ne sono stati riconosciuti gli effetti dannosi; in parte perché, grazie allo studio delle stesse, si è raggiunto un livello di consapevolezza tecnica tale a riguardo da non volerle approfondire oltre, laddove ci siano ancora aspetti in merito da approfondire. Si è oltre la ricerca e l’individuazione del problema in esse: si è alla loro diagnosi, mentre certi racconti autobiografici appaiono nella loro prevedibilità come la prima seduta dallo psicologo. Ciò che compromette l’interesse e la suspense in certi racconti è che al di là della scrivania si sa già tutto: come potrebbero, si ponga il caso, cento individui che conducono vite identiche e che soffrono di mali affini produrre cento narrazioni singolari tra loro e come potrebbero costituire fonte d’interesse, laddove si sa già per quale viaggio condurranno?
Quale che sia il mezzo espressivo adottato dagli artisti contemporanei, il risultato non cambia: se si appartiene con la testa al ceto medio e alle sue logiche, si è destinati a produrre riassunti di riassunti di altre opere, e con forme già viste. Tutto è stato già detto? Spesso ci si chiede. Mark Fisher, nella sua opera capitale Realismo capitalista, si interroga sulla possibilità del nuovo di emergere nella società occidentalista. Sebbene si dia gran conto al vecchio, sebbene si tenda a paragonare puntualmente le novità con i classici, e questo costituisce un malcostume della critica postmoderna, non è del nuovo che bisognerebbe preoccuparsi, ma del diverso, e per diverso si intende tutto ciò che esula dall’esperienza comune, dal punto di vista comune e dall’imitazione, quindi dalla rappresentazione serializzata del ceto medio occidentale in crisi. Il rischio che si corre non essendo diversi e non potendo di conseguenza creare opere differenti da quelle serializzate è sempre quello di saturare gli scaffali delle librerie con prodotti che, distinti a partire dal titolo, siano tra loro riassunti di riassunti dello stesso racconto. Il lettore, per quanto alle volte frivolo, non è tuttavia così disattento come si crede da non accorgersene. Si è oltre il rischio: una crisi dell’arte è già in atto, dal momento che questi mezzi creativi hanno portato alla sua trasmutazione in rappresentazione serializzata, rappresentazione che ha molto in comune con le logiche industriali e con le logiche spettacolari, ma con l’arte, se non poco, niente.
Fonti:
Yukio Mishima, Lezioni spirituali per giovani samurai, traduzione italiana dal giapponese di Lidia Origlia, SE 2004.
I segreti di Twin Peaks, episodio 1×05, L’Uomo Con Un Solo Braccio, diretta da David Lynch e Mark Frost, 1990-1991 e 2017.
Mark Fisher, Realismo capitalista, tradotto dall’inglese da Valerio Mattioli, Nero Editions 2018.
Antonio Meola

Antonio Meola nasce nel 1999 ad Asola, in provincia di Mantova, da genitori salernitani. Nell’aprile 2021 esordisce con il romanzo di narrativa La fine della notte, Helios Edizioni. Nel settembre 2021 pubblica tre poesie sul numero 9 “Tempo” della rivista I quaderni del Caffè, edita Il Rio Edizioni (La Donna, Passato e Persistenza) e nel giugno 2022 collabora con il collettivo poetico Freesocialpoetry pubblicando tre poesie per la chiamata poetica “Nudes poetici #2” sulla rivista elettronica Crocevia (Muta, Poesia e Ricordo).




