Tornare a casa: Marguerite Duras e bell hooks, di Giovanna Senatore

TORNARE A CASA. Marguerite Duras, La vita materiale e bell hooks,  Elogio del margine

Abitare una casa.

Se poser, insediarsi delicatamente, costruire un involucro protettivo, chiudendosi una porta alle spalle; serrato lontano il mondo, con le sue asperità, respiriamo. 

Abitare una casa.

Se poser, insediarsi delicatamente, trovare riparo in un’isola di senso, dove far crescere le idee e, attraverso una geometria di relazioni, spalancarsi al mondo.

Due modi di abitare che hanno in comune la casa come focolare ma che divergono nell’attimo in cui la porta chiusa alle spalle diventa zattera con cui traghettare verso un oltre da costruire.

Due modi del posizionamento delle donne in quel margine/periferia che è la casa, luogo crudele e tenero al contempo, attraversato senza posa da cure materne preoccupate di dar vita a un nido caldo.

La casa come microcosmo, cellula emotiva, luogo identitario, rifugio e prigione insieme. 

La casa come spazio di resistenza, di opposizione al sistema per non lasciarsi assalire e assimilare.

Marguerite Duras e bell hooks, hanno decostruito il discorso sul focolare domestico, donandoci punti di vista destinati a incrociarsi e divergere nello stesso tempo.

Due autrici radicali che hanno tessuto la loro vita con la scrittura in una continua presenza a se stesse per cui ogni parola resa tra case abitate, cinema, aule universitarie, interviste, riflette il gioco acrobatico di non lasciarsi mai chiudere in forme stereotipate, nei poteri delle accademie o dei gruppi politici, accettando la sfida di essere oltre, parlando di amore, e di conflitto, del nostro corpo che invecchia, della morte ma anche della vita, perché la parola e la costruzione politica nascono nelle pieghe della nostra esistenza nelle cose che ci accadono e nei nostri sogni e desideri.    

Marguerite Duras ha ricapitolato in se stessa il ‘900: il colonialismo, due guerre mondiali, la Resistenza, il femminismo, le avanguardie artistiche; gli uomini e le donne voracemente frequentati, gli amici da Godard a Lacan; il successo letterario e cinematografico; gli anni terminali devastati dall’alcol. Una vita lacerata, sempre inchiodata a un dolore non medicabile, la relazione con una madre che amò e odiò disperatamente per esserci stata, per non esserci stata. E di questa relazione è densa la casa tratteggiata in La vita materiale. Essa porta scalfita l’impronta materna, si fa spazio utero che accoglie, che nutre; arruffata e morbida, piena di angoli per ospitare, ha come centro la cucina e i suoi attrezzi, i ciuffi di lavanda seccata, le macchinette del caffè, le minestre da cucinare, la verdura da pulire.

“La casa è la casa di famiglia, serve a mettere i bambini e gli uomini per trattenerli in un posto fatto per loro, accogliere il loro smarrimento, distoglierli dallo spirito di avventura, di fuga, di cui sono dotati dall’origine dei tempi. Quando si affronta questo argomento, la cosa più difficile è raggiungere quel materiale liscio, senza asperità, che è il pensiero della donna intorno all’impresa pazzesca rappresentata da una casa. Quella della ricerca del punto di convergenza comune ai figli e all’uomo. Il luogo stesso dell’utopia è la casa creata dalla donna, quel tentativo a cui lei non sa resistere, e cioè di interessare i suoi cari non già alla felicità ma alla sua ricerca.”

La casa che protegge è spazio esclusivo delle donne, teatro di una messa in scena volta a garantire lo star bene dei suoi abitanti; l’impegno nelle faccende domestiche, lungi dall’affondare la donna nella noia, diventa nell’ottica durassiana il tempo dell’ordine; fare la spesa, riordinare la casa, cucinare, dà vita a un ordine esteriore in grado di anticipare e favorire l’ordine interiore.

“L’ordine esterno e l’ordine interno della casa. L’ordine esterno, cioè l’assetto visibile della casa, e l’ordine interno che è quello delle idee, dei livelli sentimentali, dell’eternità di sentimenti verso i figli. Una casa come la concepiva mia madre, era per noi, in realtà. Non penso che avrebbe fatto lo stesso per un uomo né per un amante.”

La casa dentro, la casa materiale deve dare a chi la abita la certezza che, in quel nido caldo e protettivo, niente potrà mai accadere, fin quando a vigilare sarà la donna -madre dispensando tutto quello che occorre “per andare avanti, vivere, sopravvivere.”

Operando sul corpo della casa come un chirurgo col bisturi sul corpo ammalato di un paziente, la donna dovrà renderla sempre accogliente sgombrandola di tutto ciò che la sovraccarica, la ingombra; ma, gettare via, è arte non semplice da conquistare.

Comporta la rinuncia a tutto il dismesso tesaurizzato in armadi, bauli, cantine, dalla contabilità delle bollette pagate, agli abiti non più usati ma che un giorno, (quando?) potremmo rindossare, ai giocattoli, impolverati e speso rotti ma testimoni di un tempo che la memoria colora di magico. Forse, sembra suggerirci Duras, la tensione a inscatolare   nasconde il tentativo di erigere un monumento a noi stesse, “ai nostri meriti”, a quella fatica titanica di dispensare cura irreggimentando il nostro tempo su quello degli altri. Totem fragile, pronto a dissolversi senza lasciare traccia perché la radice profonda nel quale affondano le donne è l’oblio di sé e l’impossibile felicità. 

La casa guscio mostra così, pian piano, il suo lato oscuro, il buco nero nel quale la donna rischia di precipitare quando si fa spazio di torpore, di straniamento, dove corpi e vite vengono e si lasciano governare in una strisciante microfisica di poteri.

“Forse la donna secerne l’intima sua disperazione lungo le maternità, i vincoli coniugali. Forse perde il suo regno nella disperazione di ogni giorno, e questo per tutta la vita. Forse le sue aspirazioni di gioventù, la sua forza, il suo amore l’abbandonano defluendo proprio dalle piaghe fatte e ricevute nella più assoluta legalità. Forse è così. Forse, per la donna, si tratta di martirio. E la donna completamente realizzata nella dimostrazione della sua abilità, della sua sportività, della sua cucina, della sua virtù, è da buttare dalla finestra.”

Se la maternità è l’unico significante femminile, se la casa è il luogo dove coltivarlo, ci dice la Duras che la periferia, il margine da noi abitato è un posto dove si vive male, perché quel bimbo, quella bimba che teniamo in braccio alla fine si allontanerà dal nostro seno e guarderà altrove, vedrà il mondo, vorrà esplorarlo e incontrare qualcun altro e noi ci sentiremo inutili:

 “Nella maternità la donna abbandona il proprio corpo al bambino. E i bambini le stanno sopra come su una collina, come in un giardino, la mangiano, la picchiano, ci dormono sopra e lei si lascia divorare.”

Di questo lungo banchetto cosa resta?

Forse solo lo scandalo della domanda.

La contraddizione tra il sogno di una casa come luogo dove tessere affetti e il bisogno di chi la abita di oltrepassare il limite, di andare oltre verso il mondo esterno, perché quella casa è anche lo spazio della paura e della solitudine trova un nuovo modo di essere declinata in bell hooks.

bell hooks: bell come la madre, hooks, come la bisnonna materna, minuscole entrambe le iniziali.  Nella singolarità della scelta del nome con cui firmare le sue opere e la sua vita di attivista politica, femminista, nera, Gloria Jean Watkins, connota subito se stessa e la radicalità del suo pensiero. Due nomi femminili vengono intrecciati, a sfidare il patriarcale codice dei nomi declinato lungo l’asse maschile per dare vita a una genealogia costruita su “una lunga discendenza di donne schiette e volitive”, da celebrare sottraendole all’oblio.  

Chi sono queste donne cancellate dalla storia? Perché raccontarle?

Per dipanare il filo teorico di bell hoks è necessario partire dal luogo della sua nascita, Hopkinsville, Kentucky, una città come tante del Sud rurale e segregato degli Stati Uniti, nei primi anni ’50. Lì, il sistema di apartheid era disegnato da una ferrovia che tagliava giorno e notte lo spazio. Di giorno i neri attraversavano i binari per andare a lavorare per i bianchi, la notte tornavano da dove erano venuti, al loro posto, in un pendolarismo silenzioso e agghiacciante che disegnava confini e regime economico.

“I binari della ferrovia sono stati il segno tangibile e quotidiano della nostra marginalità. Al di là di quei binari c’erano strade asfaltate, negozi in cui non potevamo entrare, ristoranti in cui non potevamo mangiare e persone che non potevamo guardare dritti in faccia. Al di là di quei binari c’era un mondo in cui potevamo lavorare come domestiche, custodi, prostitute, fintanto che eravamo in grado di servire, ci era concesso di accedere a quel mondo, ma non di viverci.” 

In quella comunità separata, in una famiglia di sette figli, governata da un padre- padrone violento e dal silenzio rassegnato della madre, si costruisce il suo sguardo e la sua posizione nel mondo, nel solco della doppia oppressione che attraversa la comunità dei neri e la sua famiglia: la discriminazione razziale e l’asimmetria tra ruolo paterno e materno, tra parola maschile e silenzio femminile, entrambi espressione del patriarcato capitalista.

“Poiché il sessismo delega alle donne il compito di creare l’ambiente domestico e di provvedere ad esso, è stato soprattutto grazie alle donne nere se il focolare domestico si è costruito come spazio di cura e nutrimento da contrapporre alla feroce, disumana realtà dell’oppressione razzista, della dominazione sessista.”

Qui il pensiero di bell hook erode la storia da sempre narrata, la graffia nelle sue impalcature dando parola e significato politico alla resistenza silenziosa messa in campo dalle donne nere, trasformando la casa nel luogo della cura e della protezione:

“era dentro le case che si produceva tutto ciò che conta nella vita- il calore e la pace di un luogo dove sentirsi al sicuro, cibo per i nostri corpi, nutrimento per le nostre anime. È lì che abbiamo imparato ad avere fede. A renderci possibile questa vita, facendoci da guida e da maestre, sono state le donne nere.”

Maestre non attraverso l’articolazione di principi teorici messi in scrittura (moltissime erano analfabete) ma nel silenzio e nella solitudine delle loro azioni; al ruolo sacrificale da sempre loro attribuito dal sessismo per cui essere madri è solo l’incarnazione perfetta della naturale condizione femminile, hooks oppone la visione della libertà della scelta, e della re-visione tanto del ruolo quanto dell’idea di casa esercitata volontariamente dalle donne nere nella loro pratica.

Non un destino biologico a legarle al focolare faticosamente custodito ma la volontà di erigere luoghi dove tutti i neri potessero lottare per essere soggetti, non oggetti, dove, nonostante la povertà, la fatica, le privazioni, la dignità, che all’esterno veniva negata, potesse essere restituita.

Ripensando alla sua infanzia, alla porta che si chiudeva inesorabile dietro le spalle della madre, costretta come la maggior parte delle donne nere a servire nelle case dei bianchi, hooks scrive:

“Al suo rientro, dopo lunghe ore di lavoro, non si lamentava. Faceva di tutto per farci capire quanto fosse contenta di aver concluso la sua giornata di lavoro, di essere a casa; ma nello stesso tempo ci dimostrava che nella sua esperienza di lavoro come domestica al servizio di una famiglia bianca, in quello spazio di Alterità, non c’era nulla che le togliesse la sua dignità e il suo potere personale.”

Così la casa, àncora per i passi stanchi dei chilometri percorsi dalle donne nere per ritornare dai loro figli, si fa casa radice pronta a dipanarsi su un terreno che non aspetta altro che dare vita a nuovi frutti.

Casa dove accatastare fumo, libri, sciarpe, scarpe, umori, caffè, cibo, risate, pianti. Pareti dove parlare, porsi domande, nodi da sciogliere e riannodare: come sarà il tempo che verrà, come saremo in grado di costruire un mondo comune, come congiungere il pensare a un fare, un cercare una verità sempre da dirsi amalgamata alle tracce di vita che l’accompagnano, una riflessione che sappia abbracciare le azioni materiali, dal cucinare al discutere raccattando bambini che corrono o si accasciano addormentati, stufi della vita dei grandi.

Giovanna Senatore

Giovanna Senatore: laureata in Filosofia, ha insegnato Storia e Filosofia nei licei classici; formatrice in corsi di aggiornamento per i docenti lungo due tematiche: la letteratura attraverso lo sguardo del pensiero femminista, l’uso dello spazio e del linguaggio teatrale. Ha guidato laboratori teatrali in qualità di esperta in vari istituti scolastici. Fonda l’associazione culturale “Le macchine desideranti” curando la regia di tredici spettacoli dove corpi e parole possano colpire nella loro nuda e secca forza. Ha curato laboratori di scrittura a partire da testi incrociati di scrittrici che hanno ricamato tessiture preziose.

Suad Amiry: ‘’Golda ha dormito qui’’ (Feltrinelli, trad. M. Nadotti), di Giovanna Senatore

Chi abita qui?

“se solo queste case potessero raccontare la storia, quello che hanno visto e vissuto, quello di cui sono state testimoni”.

Case protette dal e nel tempo; case piene di luce, filtranti da porte e finestre, spalancate alla vita; case violate, sventrate, saccheggiate, ridotte in polvere; case spettrali, sbilenche, labirintiche. 

Case dense di oggetti che hanno battuto il tempo restando immobili a preservare ricordi: divani segnati dalle impronte dei corpi a lungo sdraiati in cerca di pause, vestiti riposti in armadi densi di odori di chi li ha indossati, caraffe, tazze, bicchieri, gelosamente tramandati.

Case svuotate di oggetti e di memoria, case nude, porose, ridotte a buchi da cui nulla trapela, neanche la luce.

Case, luoghi della memoria reali e non, luoghi di spazi ma anche di sogni, luoghi gomitolo che aprono/serrano il confine tra un dentro e un fuori. 

Case su cui ruotano parole: raccontano amori o solitudini, dolori o gioie, frammenti di vita che chiedono di essere letti e riletti, creando un’isola di senso, lungo i percorsi delle narrazioni, tramandate oralmente o impresse in libri, a garantire memoria.

Libri preziosi perché aprono connessioni impreviste e imprevedibili da scoprire e narrare, dando vita a un puzzle dove il disordine si fa ordine, pronto ad essere scompaginato sotto la spinta del tempo incalzante.

Suad Amiry, scrittrice per caso, architetta di professione, scrive nel 2013 un testo struggente e carico al contempo di uno humor dissacrante e feroce, Golda ha dormito qui

Perché Suad Amiry?

Perché la storia di Suad Amiry, nata a Damasco da madre siriana e padre originario di Jaffa è la storia della Palestina, della perdita dei suoi territori, della violenza colonialista esercitata implacabilmente dallo stato israeliano, volto allo sradicamento del popolo palestinese dalla sua terra. 

Suad Amiry sceglie di raccontarla da una angolatura particolare: l’espropriazione immobiliare praticata da Israele nel silenzio assordante del mondo, all’indomani della cosiddetta, dagli israeliani, prima guerra di indipendenza, tradottasi, drammaticamente, per i palestinesi come l’inizio dell’esilio (la catastrofe, la Nakba,) e l’avvio della lotta per il diritto al ritorno. 

Il 4 maggio del 1948

 avendo onorato la parola data,

 uno stato ebraico sulla Palestina,

  gli inglesi fecero fagotto e se ne tornarono a casa.

  Dissero che sentivano la mancanza della cucina di casa

  roast beef e budino dello Yorkshire

  con contorno di cavolo lesso.

  Salirono a bordo delle loro navi e salparono

  senza una parola di scusa

 o di addio. 

La Sposa non fu mai consultata

non il dicembre del 1917 quando sbarcarono

né tantomeno il 2 novembre del 1917 quando Lord Balfour

fece la sua dichiarazione

quel che Dio non aveva fatto per secoli

Lord Balfour lo portò a termine in sessantadue parole.

Quando arrivarono si chiamava Palestina

quando se ne andarono, era diventata Israele…

Il 4 maggio del 1948

si lasciarono alle spalle due popoli in lotta 

uno più forte, l’altro più debole

il nuovo e potente giubilò e volle di più

“Quel che è mio è mio e quel che è tuo è mio anche quello

mentre il vecchio e fragile, spossessato e disumanizzato,

fu lasciato a piangere e a lamentarsi.      

Suad Amiry scrive partendo dall’inizio del tutto e, subito, colpisce la decisione di alternare alla prosa il verso, lì, dove il dolore della ferita si fa più forte, lì, dove è necessario resistere al pianto e alla recriminazione per poter testimoniare.

La scrittura, quindi, come ultimo baluardo “contro le pratiche disumane e le ingiustizie che sfigurano la storia dell’umanità”, come testimoniava Edward Said.

La Palestina viene raccontata nel momento in cui tutto precipita e ciò che si palesa sono massacri, esecuzioni, bombardamenti senza fine sulle città della costa. Interi villaggi dati alle fiamme, cancellati in modo chirurgico giornali, teatri, caffè, i luoghi identitari di una vita comunitaria.

850 mila palestinesi, metà della popolazione araba della Palestina dell’epoca, furono costretti a darsi alla fuga, o, a emigrare. Quelli obbligati a sgomberare, caricati a forza su camion e navi; chi restava si ritrovava chiuso in ghetti militarizzati, in un paese nuovo di cui non parlavano la lingua, visti e vissuti come nemici.  

Agli esuli restava solo il pianto: 

“Avevano perso la casa, il giardino, il frutteto, il campo, la terra dove erano nati. Persi erano mare e montagne, colli, valli e pianure, laghi e sorgenti e il letto dei fiumi, siti archeologici e campi beduini, villaggi, paesi e città.”

Ma, il cuore pulsante del dolore si materializzava per tutti nella sottrazione di “ciò su cui si regge una vita equilibrata: le fondamenta profonde chiamate casa”.

Il racconto di Suad apre sulle case abbandonate, con gli armadi pieni di vestiti, le fotografie, le tavole apparecchiate, i fiori nei cortili, le piante nel soggiorno, le tazze di caffè e i bricchi ancora caldi di una bevanda lasciata lì in attesa di un ritorno mai avvenuto, e, torte d’arancia pronte ad esser divorate dalle mani ingorde dei piccoli.

I muri rubati impunemente trascinano via anche le anime, la memoria, i gesti, gli affetti in loro racchiusi. Stanze smarrite verso cui si muovono le azioni di chi, appellandosi alla giustizia, cercava di riabitarle, strappandole agli israeliani che le avevano occupate.       

Lotta destinata a infrangersi contro il muro di una legge scandalosa promulgata da Israele nel 1950; con lo scopo di gestire i beni – compresi contanti, azioni, mobili, libri, società, banche e altri beni mobili – di cui erano entrati in possesso in seguito alla fuga disperata dei palestinesi, gli israeliani dichiaravano i legittimi proprietari arabi assenti presenti: esistenti per lo Stato di Israele ma inesistenti quanto a diritti di proprietà. La comunità palestinese fu così costretta a vivere, quotidianamente, l’assurdità di avere qualcuno che viveva nella casa della propria famiglia senza poterci più mettere piede. 

È di questi present absentees, Suad Amiry, lei stessa present absentees, si fa voce parlante, in cerca di storie e appartenenza, da narrare, raccogliendo frantumi di ricordi, fotografie sopravvissute ai pochi album recuperati e salvati dalla distruzione e, storie raccontate da chi cercava, anche nell’angoscia e nel timore, di ricordare per non spegnere la memoria di quanto accaduto.

Suad Amiry sa che è necessario ascoltare con estrema attenzione per poter dar voce a un dolore che non si cancella; e così scorrono uomini e donne con il loro fardello di racconti. Di casa in casa il libro disegna una città scomparsa, giardini tranciati via con i loro profumi, finestre piombate, mura crivellate di proiettili. Eppure, la città scomparsa riappare viva e palpitante, densa di emozioni mai cancellate, quando le storie procedono catturandoci nel labirinto dei loro abitanti, dove riaffiorano libri giocattoli, dipinti, libri di musica, tappetti e foto di famiglia mai più restituiti.

Tra le narrazioni in cui mi sono persa, seguendo il viaggio della scrittrice tra i vicoli di una Gerusalemme a noi sconosciuta, mi fermerò sui ritratti di Andoni, Gabi e Huda Al-Imam.

Andoni, il più celebrato tra gli architetti palestinesi, aveva negli anni ‘30 progettato e realizzato la casa per la sua famiglia, che era solito chiamare Nour Hayati (luce della mia vita). Dopo le espropriazioni del 1948, cercò ogni via legale per riottenere il permesso di tornare ad abitarci. Aveva tutti i documenti legali, tutte le carte e le fotografie che attestavano la sua proprietà, gelosamente custoditi in una cartella rossa. Con questi, nel 1968, si presentò alla corte israeliana che riconobbe senza alcun dubbio la proprietà della casa. La gioia di aver vinto la causa si spense immediatamente perché la corte gli fece notare che non risiedendo nella propria casa era una absentee landlord. 

A nulla valsero le proteste: nell’atrio del tribunale lì dove si raccoglievano le persone per avere giustizia da Israele, Andoni, con il suo corpo immenso che lo faceva svettare sugli altri, comunicò il suo sdegno e la sua impotenza. Non più con parole, ormai, bruciate, inascoltate perché private di senso da una legge insensata ma con la potenza e la violenza annichilente della risata e del silenzio:

Prima si rotolò dalle risate

poi si piegò su se stesso

tenendosi lo stomaco, poi l’addome

quindi cadde a terra, disteso sulla schiena, i piedi in su a  

scalciare l’aria,

quell’aria che traboccava dalle sue risate.

Continuò a ridere, a ridere, a ridere, e ancora a ridere

finché la risata si spense

poi ci fu silenzio

e ancora silenzio 

un silenzio totale

un’immobilità totale

un silenzio di tomba.

12 giugno 1983: inaugurazione del “Tourjeman Post Museum”, il Museo della riconciliazione. In fila per entrare il figlio di Andoni, Gabi: da quando aveva avuto notizia dell’apertura del museo, aveva cominciato a raccogliere ritagli di giornali e di riviste arabe, ebraiche, inglesi, francesi e tedesche che documentavano l’importanza dell’evento, sottolineando che la sede un tempo era stata avamposto israeliano e che le modificazioni apportate all’edificio come le strette finestre blindate, erano state lasciate a testimonianza  della violenza del conflitto e della lotta israeliana contro la prepotenza dei cecchini giordani che, per diciannove anni, avevano fatto fuoco contro le case israeliane dall’altra parte del confine.” per decisione israeliana il danno è stato conservato a testimonianza”. A testimonianza di cosa? Era la domanda che Gabi si poneva mentre lentamente procedeva seguendo la lunga coda. 

Giunto nell’atrio, lo vediamo lanciare, distratto, uno sguardo al salone sulla destra, cancellare i rumori e il chiasso che lo circondava per rimuovere il tavolo di vetro rotondo e risistemare al suo posto un paio di divani Chippendale bianchi e beige, due sedie Art déco in cuoio rosso e un tavolino da caffè in mogano. 

Ma il suo comporre lo spazio veniva interrotto dalla voce della signorina alla cassa che gli chiedeva il pagamento del biglietto.

Pagare per entrare? E mentre la folla protestava per la perdita di tempo provocata dalla sua insistenza a non sottostare all’acquisto del biglietto, i polmoni di Gabi iniziarono a dare fiato a una risata sempre più nevrotica che salendo dall’atrio “raggiunse la foresteria, la sala da pranzo, quindi l’ampia cucina. Si fece strada verso le stanze della famiglia al piano di sopra, infilandosi nella camera da letto dei genitori, nella camera da letto rosa di sua sorella, nella camera da letto blu di suo fratello George e infine nella sua. La risata penetrò in ogni cassetto e in ogni angolo degli armadi della sua stanza, ma gli album di fotografie non si vedevano da nessuna parte”.

Quegli album che testimoniavano il suo passato, la sua infanzia, i suoi ricordi di adolescente erano scomparsi e con essi era stata cancellata ogni prova che avesse mai avuto una vita a Gerusalemme, che avesse abitato in quella casa.

Sì, il museo, dedicato al dialogo, alla coesistenza, era la casa meravigliosa sottratta ad Andoni: nella brochure, nessuna traccia di chi l’aveva progettata, amata, abitata.

Il museo della coesistenza aveva saputo bene insabbiare la verità. 

Huda Al-Imam è l’altra grande voce a cui dà corpo Samir Amyn: 

Quando Huda, il 7 giugno 1967, vide il volto di suo padre inondato di lacrime perché gli era stato impedito di entrare nella sua casa di famiglia a Gerusalemme giurò a se stessa che non avrebbe dato il permesso a nessun israeliano di vivere in pace nella casa di suo padre. Ogni sabato, da quarantacinque anni, teneva fede al voto fatto. Si presentava davanti la sua abitazione, entrava nel giardino, e, immancabilmente, si lasciava arrestare dalla polizia chiamata dai nuovi occupanti. Ormai la polizia conosceva bene Huda, i giudici la conoscevano, e lei conosceva bene tutti i giudici. Ma continuava ad insistere: moderna Giovanna D’Arco, così la chiama Samir Amyn, guidata dalla sua ossessione, era pronta ad organizzare, bastava contattarla, ogni sabato dei tour in cui portava le persone, a volte interi pullman di turisti alternativi, a vedere le antiche case palestinesi. Tra quelle anche quella in cui aveva alloggiato Golda Meir, la madre per il popolo israeliano, l’Israele prepotente e bugiardo che aveva occupato una terra non sua. Huda non lasciava scorrere via, nei racconti con cui accompagnava le visite, che la Meir nel prendere possesso della “sua villa, si assicurò che la scritta araba fosse sabbiata per occultare il fatto che il Primo ministro di Israele abitasse in una casa araba”.

In Huda risuona tragicamente l’ossessione di non potersi fermare, perché, come precisa Samir Amyn, la maggior parte dei palestinesi, perseguitata dal passato e torturata dall’iniquità del presentenon può essere libera, perché è la Palestina ad occupare ogni pensiero:

Mi lascerai mai andare?

Per una vita

Un anno

Un mese

Un’ora

Un minuto

Anche solo un secondo

No”.

Giovanna Senatore

Giovanna Senatore: laureata in Filosofia, ha insegnato Storia e Filosofia nei licei classici; formatrice in corsi di aggiornamento per i docenti lungo due tematiche: la letteratura attraverso lo sguardo del pensiero femminista, l’uso dello spazio e del linguaggio teatrale. Ha guidato laboratori teatrali in qualità di esperta in vari istituti scolastici. Fonda l’associazione culturale “Le macchine desideranti” curando la regia di tredici spettacoli dove corpi e parole possano colpire nella loro nuda e secca forza. Ha curato laboratori di scrittura a partire da testi incrociati di scrittrici che hanno ricamato tessiture preziose. Venerdì 23 maggio, al teatro Bolivar di Napoli, va in scena il suo ultimo spettacolo “mai SUPPLICI”.

Barbara Buoso: ‘’Padre terra’’ (Fernandel), di Giovanna Senatore

the capture
the rapture
the rupture
of a soul
( Sarah Kane)

Il libro, tra i mille esposti sugli scaffali di una libreria, sta lì nascosto e divorato da altri libri che si accasciano l’uno sull’altro, senza tregua, in una babele di colori e dimensioni. Mani distratte a volte lo toccano, lo sfiorano per poi lasciarlo ricadere, attratte da altro. Eppure, quel libro è un piccolo scrigno pieno di gemme fatte di parole e suoni, di alchimie intense come i profumi della lavanda e delle rose.

Lo sa chi ne ha seguito il farsi pagina su pagina, e da allora, passando da sguardo a sguardo, ha deciso di prendersene cura; quel libro pian piano emerge dal buio silenzioso, comincia a girare tra mani pronte a sfogliarlo, a segnarlo con matite variegate, pone domande in cerca di risposte. La sua strada viene protetta dal tam tam delle lettrici (tante) e dei lettori, dagli incontri nelle piccole librerie e da recensioni che si affollano liete di dar vita a un banchetto dove le parole invitano ad addentare i mille strati su cui poggia il romanzo.

Io, da lettrice appassionata, le colleziono, quando, terminato il libro in solitudine, avvolta nel silenzio notturno, desidero riattraversare il testo lasciandomi guidare dagli   sguardi di lettrici appassionate con le loro mille sottolineature, angolazioni sghembe, passaggi preziosi, punti di fuga, pennellate di dolore, buio e luce, rosso e bianco, vita e morte. Con loro posso riabitarlo, così come in una nuova casa si prova gioia a legare oggetti della vecchia abitazione con nuovi, scelti con cura, per farla propria e starci comoda.

L’ultima pagina di Padre terra si è chiusa tra le mie mani. 

Riordino, veloce, le note appuntate sui fogli volanti, è tempo che io scriva. 

È tempo che io fissi il flusso dei miei pensieri, Padre terra aspetta le mie parole (mi piace pensare)

Attende la mia lettura (mi piace pensare).

Sa di avermi travolto di domande (mi piace pensare).

Sa che ho cercato le risposte radicandomi nella mia storia (mi piace pensare)

Sa che tenterò di dar vita a una trama a maglie larghe dove l’arte di tessere fili, riannodandoli, non più scollati tra loro, renda possibile mille e mille riletture preziose, simili ad arazzi in fieri (mi piace pensare).

Primo filo: il luogo dove la storia si dipana

Siamo in un piccolo paese del Polesine, lungo le sponde del fiume Adige; un mondo contadino, con i suoi riti legati alla campagna, i lunghi inverni freddi e le estati torride, lo abita. Giovani e vecchi si muovono attraversando la piazza del paese vociferando notizie liete e brutte, animando chiacchiericci malevoli e benevoli, piangendo i morti e festeggiando matrimoni. Tra questi quello di Rosalba e Primo, due giovani, simili a tanti altri, ligi ai comandamenti e alle usanze della comunità. Ma, perché ci sia una storia da raccontare, un evento deve cambiare il lento scorrere uguale della vita: la disperazione in cui cade Rosalba, per l’attesa spasmodica di un figlio che sembra non voler mai arrivare, fermerà la ruota ciclica del tempo invertendone la direzione.

Secondo filo: Rosalba, la Botanica

 Una donna è al mondo per generare figli, nutrirli e farli crescere da buoni cristiani: lo dice il parroco dal suo pulpito domenicale, lo ripetono tra loro le donne del paese che aspettano, cianciando, la notizia che Rosalba non poteva dare. Il suo utero si ribellava ogni mese alla legge che lo voleva gravido, continuando ad espellere sangue rosso e vivido, a bagnare, in segno di sconfitta, i panni che volevano restare bianchi a festeggiare l’impianto di una vita; più il tempo passava, più il suo essere infertile “era ancora peggio di una gamba storta o di un braccio monco”.

Inutile provare preghiere, digiuni e riti, visitare chiese e cattedrali, far dire messa, seguire i precetti della liturgia agreste, dal rito del Corpus Domini alla preghiera dell’Erbo divino. Il miracolo non arrivava, mentre, crudeli, si affacciavano i bisbiglii del paese, le voci maligne rimbalzavano, schiacciando i due sposi sotto il peso di un giudizio che li crocifiggeva all’infertilità.

La linearità della storia, ancora una volta si interrompe, un punto di fuga spalanca una prospettiva altra: la ribellione imprevista di Rosalba al destino che la vuole non madre. Andando contro i dettami della Chiesa e le paure di Primo, la giovane sposa si affida alle pratiche della Botanica, accusata dal paese di essere una stria e, condannata per questo a girare raminga nel paese in cerca di cibo e alloggio. Sarà lei a rivelarle che è il sangue mestruale, quel flusso rosso, interpretato stoltamente come radice di prodigi negativi, a generare la vita, una volta innestato nel grembo materno, insieme a una mistura di erbe sapientemente mescolate. Prima di agire sull’umano è necessario, però, saggiarne la forza attraverso un rituale con regole precise da seguire: piantare intorno alla casa dei gerani rossi e testare su di essi la vitalità del sangue. “Se il sangue mestruale fosse stato buono, fertile, le talee nuove avrebbero attecchito gerani… gerani regali, gerani parigino, gerani odorosi con le piccole foglie frastagliate e aromatiche, ma tutti i fiori dovevano essere rossi come il sangue”.

La forza oscura della natura risponde, Rosalba resta incinta. Il paese si rallegra “non ravvedendo più stranezze in quel matrimonio che finalmente stava portando frutti”. 

Non si aspetta altro che il momento del parto.

Ed è qui che Barbara Buoso ci colpisce violentemente, non grida di gioia, non fiori al Signore per celebrare la nascita, non fiocchi colorati sulle porte del paese ma scene cruente dove il corpo della madre si sgretola, si spacca, si contorce, maciullato in un’oasi di dolore senza fine. L’umano si fa animale, la bocca si storce in “un barrito strozzato e perdurante che negli acuti somigliava a quello del falco che suo padre, quando lei era bambina, teneva prigioniero, legandogli una zampa, e che si era dimenato fino a strapparsela”.

Il rosso si riprende la scena; quel rosso, cancellato dagli scampoli dei panni issati al sole ogni mese come una sconfitta, splendente nei gerani che incendiano anche in pieno inverno la casa, ora svuota il corpo materno, bagna le candide lenzuola stese sul letto per accogliere la vita. “Talvolta si nasce nel sangue, quando il sudario di una donna che mette al mondo un altro essere umano diviene il suo ultimo giaciglio”. (Alessandra Pigliaru)

Rosalba e la Botanica fluiscono via dal racconto lasciando visibili le loro tracce nella parete rosso fuoco che cinge la casa. Primo e, con lo scorrere del tempo, il figlio Giovanni, la proteggeranno dai venti, dal caldo, dalla neve perché possa raccontare di un incantesimo nato tra due donne lontane, per la loro storia, l’una dall’altra.  

Entrambe hanno saputo porsi in ascolto, tessendo una relazione silenziosa fatta di gesti e pratiche millenarie affondanti le loro radici nel linguaggio segreto della natura. Entrambe, nella tensione di potersi dire, una come madre, l’altra come guaritrice, hanno agito senza arretrare, abbattendo ogni tradizione.

La Botanica, stando salda nel suo sapere che affonda le radici in lontani culti trasmessi da donna a donna, lungo un matriarcato di cui si sono perse le tracce, non si è sottratta alla richiesta di aiutare a mettere al mondo una vita. In questo “maneggio di ardimentosa complicanza” il grembo femminile è posto al centro, in continuo dialogo con la natura che lo irrora e nutre. Rosalba ne accoglie la forza, il suo corpo si lascia spossessare, diventa ventre gravido e mammelle turgide, destinate a dare nutrimento.

Ma le due donne sono destinate a non pacificarsi con il loro desiderio; Rosalba scivolerà nella morte e la Botanica, sottraendosi alla furia del paese che la riteneva unica responsabile, riprenderà la sua vita randagia.

Terzo filo: Primo e Giovanni.

La morte di Rosalba, la scomparsa della Botanica consegnano definitivamente il bambino alle braccia di Primo, rimasto solo ad allevare Giovanni, dopo che il paese e anche la nonna materna lo hanno rifiutato ritenendolo frutto di un sortilegio diabolico.

Primo sarà padre ma anche madre. Affettività, cura, accudimento, tenerezza, tutta la sfera del materno sarà accolta da lui; imparerà ad allattarlo “con le maniche della camicia arrotolate, prendeva un asciugamano pulito, se lo metteva sulla gamba e poggiava il piccolino nell’incavo ulnare, quell’ansa naturale che pareva la curva dell’Adige… poi prendeva in bocca il ciuccio del biberon per scaldarlo prima di darlo al piccolino”; a sussurrare nenie, ricamando “sillabazioni onomatopeiche buffe” suggeritegli dal borbottio della pancia, satura di cibo, del piccolo. Saprà pian piano come e cosa insegnargli cercando nella natura la grammatica da trasmettere al figlio riconnettendosi a quel sapere trasmessogli da un padre silenzioso e severo “in quell’incessante discorso che il creato fa ad ogni uomo e che spesso, presi dalla foga della vita, in molti non percepiscono più”. Seguire l’alternanza delle stagioni, curare la terra e i suoi frutti, rispettare i cicli della vita, ascoltare le voci che animano il paesaggio, i richiami e il cicaleccio degli uccelli, lo strisciare degli animali sull’erba, la pazienza e la fatica dell’aratro che avanza rivoltando le zolle, diventa il modo in cui, giocando, Giovanni conosce il mondo. Se il padre gli insegna presto a usare la lingua “legata ai bisogni primari dello stare al mondo come mangiare, dormire e lavorare la terra”, lui tiene per sé l’altra lingua quella con cui dialoga con la madre, ritrovandola nel gorgheggiare delle anatre, nel lamento delle lepri, nel fruscio del vento. “Gli era stato dato in sorte di continuare a percepire l’amore di sua madre attraverso la terra, avvertendo ad ogni istante la gratitudine di essere lì, al mondo”. La madre, però, ha scelto di abitare “in alto molto più in alto dell’ultimo piolo della scala” e Giovanni è certo che lassù, da sola, si annoiava. Come raggiungerla per strapparle un sorriso? Forse basta alimentare un boato tanto forte da salire in cielo e farle visita. Così, in segreto, ogni sera, Giovanni si esercita a far esplodere bombolette spray e aspettare il giorno dopo, per scavare, tra le carcasse annerite, una traccia. 

Un rito consolatorio e salvifico, una corda tesa tra cielo e terra.

Quarto filo: la violenza dei bulli, l’uccisione del maiale, Michele.    

Nell’assumere simbolicamente la funzione materna, Primo ha impedito a Giovanni di assumere una virilità prevaricatrice e violenta, coltivandone la tenerezza e l’ascolto. Scelta che destina entrambi all’esser strano, folle e straniero per la comunità di uomini e donne del suo paese: un padre che è madre al contempo, un bimbo che parla con le piante, il vento, gli animali, due creature mosse e animate dalla cura verso ogni cosa che li circonda.

Ma la violenza del mondo degli uomini bussa presto, non fa sconti.

Barbara Buoso declina le stazioni del dolore, ricordandomi quelle che Cristo scala nella sua salita al Golgota o gli intoppi dei grani del rosario cantati in maggio; ogni scalino, ogni pausa cantata, la scuola, l’uccisione del maiale, la tenera amicizia con Michele le saliremo, le canteremo con lui.

Ogni tappa ci rimanderà un mondo stupido che parla la lingua dell’ignoranza e della brutalità. Un mondo impermeabile che resta sbigottito ogniqualvolta padre e figlio sapranno agire scoprendo una possibilità altra di esserci.

Le stazioni del dolore muovono dalla scuola: un luogo dove Giovanni non verrà mai accolto per il suo essere fuori da ogni schema di mascolinità tradizionale, per il suo amore per la scrittura, capace di volare oltre le parole consumate dall’uso, per librarsi, alla ricerca delle corrispondenze, nelle creature che abitano il mondo umano, vegetale, animale.

Quando, in palestra, giunto alla scuola superiore, Giovanni, come Cristo in croce, verrà picchiato e denudato, non si difenderà ma ergerà il suo corpo fragile e nudo come unico scudo ai colpi violenti che cadono a pioggia su di lui “«Su, datemene ancora». Giovanni scoppiò a ridere, di un riso che gli partiva dal profondo, dai gerani piantati davanti a casa, dal maiale che urlava disperato prima di morire, dal mistero attorno alla fine di sua madre una risata i ragazzi si fermarono stupiti: quindi era vero che era matto. Non serviva opporsi agli eventi la sopraffazione era nell’ordine naturale delle cose”. 

I compagni, incapaci di schiodarsi da una mascolinità tarata, che li rende forti solo se raccolti in gruppo, lo tacceranno di esser matto perché la follia, si sa, non fa male, non smuove domande, basta solo tenersene alla larga. 

La seconda stazione arriva ancora più dolorosa. Giovanni deve uccidere un maiale secondo un rito di iniziazione che ogni ragazzo del paese, compiuti i 13 anni, era spinto ad affrontare per diventare uomo e guadagnarsi un nome tra gli adulti.

Primo, stavolta, si muove lungo il tracciato disegnato dalla comunità; troppo forte risuonava in lui la memoria dei gesti tracciati dal padre, appresi da piccolo, seguendo una pratica collettiva dove ogni movenza rinviava ad un sapere antico, dove ci si riuniva “per condividere anche solo un osso, parte della cotenna, una zampa”. Si faceva festa, si cantava tutti insieme e si celebrava la morte che donava la vita. Giovanni, Primo ne era certo, non poteva sottrarsi alla prova, doveva mettere a tacere una volta per tutte le voci sulla sua strana nascita ed entrare a far parte del mondo degli adulti

E Giovanni? “Non voleva dargli un dispiacere, si rendeva conto di quanto avesse sofferto per le malevoci sulla sua nascita […] e, di quanto lo ferisse, in chiesa, trovarsi davanti a persone che si facevano il segno della croce vedendoli”.

I giorni che precedono il rito passano in una quiete irreale materiata degli oggetti e delle pratiche necessarie per dare la morte:

La meticolosità degli atti da compiere per uccidere il maiale ricordano a Giovanni quelli del parto: “il riscaldamento dell’acqua, la predisposizione della pila di panni bianchi immacolati, le bende da marchese stirate. Al posto della levatrice un norcino”. Una similitudine dolorosa con cui riporta se stesso a quel momento preciso in cui, lanciando il suo primo vagito, portava alla morte la madre. Chissà “se sua madre sul letto di morte, all’idea di poter salvare almeno il bambino, si era sentita come il maiale, pronta a morire sapendo che quel suo gesto le avrebbe garantito il paradiso”. Una delle tante domande senza risposta che si agitano nella mente di chi attraversa la vita da orfano e portatore di morte insieme.  

Quando il sangue che svuota la vita rioccupa, prepotente, la scena e l’accoratoio lungo e appuntito sarà stretto tra le sue mani, Giovanni si ritrarrà, rifiutandosi di compiere un sacrilegio. “Le fronde degli alberi piangenti non gli avrebbero più sussurrato parole, si sarebbero ammutinate, le spighe del grano maturo non avrebbero più palpitato, al calar della sera”.

Ancora un punto di fuga, ancora una prospettiva imprevista, una rottura silenziosa contro la violenza degli uomini, una nuova nascita. “Lì, il seme della cura di Primo si spacca e Giovanni assieme alla storia inizia a cercare la sua fioritura: lì Giovanni si rivela e di lì si rinnova, irradiandosi in ogni direzione”. (Silvia Belcastro)  

La terza stazione si srotola seguendo l’amicizia nata sui banchi della scuola media tra Giovanni e Michele, un ragazzino isolato da tutti, perché fratello di un poco di buono, finito in carcere per spaccio di droga e lì ammazzato in modo misterioso. “I due si capirono subito nei reciproci silenzi… a vederli sembravano due fratelli, come fossero nati da una nassa in mezzo all’acqua, e, come pescigatto con le pance rosolate dal sole guizzavano lesti verso la giovinezza, che pareva essere il loro unico destino”.

Gli sguardi degli uomini del paese cominciano a seguirli mentre leggeri, sfiorandosi appena, si lanciano spensierati a correre nei campi, in una infanzia che vibra verso l’adolescenza, “coi loro volti color miele, coi piedi liberi da lacci e impedimenti, le mani a raccoglier foglie come fossero coriandoli”.    

Gli sguardi diventano bocche che vomitano parole tremende “quei due cueatìna si nascondevano nei campi per fare balletti da femmine in calor”.

L’abbracciarsi, il mettersi le mani addosso nella lotta affannosa dei corpi, il correre nei campi lì dove, invece, doveva aver spazio solo la fatica del vivere era una stranezza da condannare. Toccava al padre di Michele raddrizzare ciò che andava raddrizzato: con la stessa violenza con cui, con l’incudine e il martello, si mettono a posto i chiodi storti, andava estirpata quella amicizia fuori natura, andava tagliata ogni relazione mandando la feminèa a lavorare in Grecia sotto padrone: lì, lavorando fino allo sfinimento, si tornava uomini.

Michele, prima di partire, saluterà il suo unico amico con parole impetuose e cariche di sogni, quasi a rassicurare se stesso, lanciato ragazzino in un mondo di adulti, sconosciuto: la loro amicizia non avrà mai fine, dirà, accumulerà tanto denaro da poter comprare in Grecia una casa dove accogliere le persone a lui care, una casa come porto sicuro, lontano da ogni mareggiata, dove accudire, dar da mangiare e vivere felici. 

A Giovanni le parole suoneranno, invece, come “il vento cattivo di tramontana, o le nuvole minacciose che portano la grandine… però quelle di Michele erano parole umane, uscite dall’alfabeto… parole imparate per poter fare del bene, per esprimere amore, amicizia, bellezza, e che ora gli stavano portando dolore: erano parole che non capiva e non avrebbe mai compreso”.

Michele tornerà.

Ma, vuoto di parole e con un gesto da portare avanti: chiudere la vita dell’uomo che pretendeva di esser chiamato padre.

Su quella famiglia c’è davvero la maledizione del diavolo, commenterà sbigottito il paese, incapace di dare un nome altro all’accaduto.

Ma era maledizione o violenza perpetrata in silenzio? Bastava alzare lo sguardo e soffermarsi sul corpo di Michele per trovare una risposta.    

La sua pelle, non più color del miele ma incendiata dal sole, raccontava l’orrore dello sfinimento nei campi, la solitudine di una adolescenza bruciata lontano da casa, sotto il segno di una sofferenza continua. E il padre, di quei segni, ne era stato fiero: di quelle stigmate doveva ringraziarlo, aveva detto, perché solo spaccandosi la schiena si imparava a stare al mondo.

Quando Michele lo colpirà al cuore e alla gola, muovendosi in un silenzio assordante, come in una placenta lattiginosa, pronta a nutrire la sua ribellione, il sangue del padre schizzerà impetuoso, gorgogliando sulle pareti della cucina, come il sangue del maiale che esce, impetuoso, nel rito che porta alla vita adulta. Perché i ragazzi, diventati adulti, sanno uccidere senza un briciolo di tremore, quando la violenza di chi ti ha messo al mondo e dovrebbe proteggerti, ha bruciato ogni sogno di vita futura. 

“Caro Michele, sono il tuo amico Giovanni. Come stai?”.

Così scriverà a Michele, rinchiuso in carcere, ricucendo il filo strappato.

Sono il tuo amico: una rete di connessioni di consonanti e vocali che sanno di gioco, di corse, di capriole infinite, di attesa, di fiducia, di gelati guadagnati dopo un giorno di lavoro nei campi.

E poi, ancora quasi a voler rompere le sbarre che lo inchiodano per sempre all’impotenza del movimento, — la meraviglia dei suoni, quelli condivisi nella loro estate, “i suoni non si possono imprigionare… se ti metti all’ascolto puoi sentirli. Strisciano sotto le porte, si infilano negli ingranaggi delle serrature, più sottili della sabbia del mare, e ti portano ciò che non puoi raggiungere. Pensa che meraviglia. Frush, frush, frush, frush, frush. (Ti lascio qui il rumore del vento)”: parole salvifiche parole àncora a cui legarsi per risalire a quella luce, che simile a un puntino luminoso fa capolino dal buio profondo.

Quinto filo: la struttura musicale 

Sui suoi quaderni che si allineano preziosi, Giovanni racconta di sé e del suo mondo. Scrivere, ha scoperto nei suoi primi passi scolastici, è incidere segni sulla pagina bianca, intaccare la superfice scura della lavagna con il gessetto. “Alla mattina le lavagne erano bellissime, nere immacolate, con tutti i segni ancora da scrivere, tutte le parole ancora da dire; erano come i galleggianti che progettava per comunicare con sua madre, erano le lenze che avrebbero percorso i cieli permettendo alla voce di rendersi udibile all’orecchio umano”.

Una volta catturata, Giovanni la muove su terreni inesplorati; tradurre i suoni che la natura produce e che l’uomo non sa più udire, travolto dal travaglio, dalla fatica dura e inclemente che la terra richiede per sfamare e sfamarsi dalla terra.

Nel dialogo incessante tra sé e i suoi fogli, annota suoni, onomatopee di lingue sconosciute e, come Pollicino seminava le briciole di pane per ritrovare la strada giusta verso casa, noi seguiremo l’alfabeto creato da Giovanni per non smarrirsi nel nido sicuro della voce del vento, delle foglie che si muovono, degli innumerevoli richiami degli animali. “Fruscio del vento tra i rami di un albero in piena estate quando lei mi vuol fare una carezza: frush, frush, fruuuush, fruuuuusf. Frustata di vento che, improvviso, chiude una porta: stonk. Gioia di una porta che si apre: iupp! Ululare del vento quando la sera si è a letto e c’è un po’ di paura: swoosh, swoooooh, swoooooosch …”.

Una partitura musicale, in cui tutto ciò che fluisce, rimbomba producendo meraviglia.

Una lingua che restituisce l’ascolto, prima ancora del nominare.

Una lingua faticosa da scovare, senza la quale il creato non avrebbe più parola.

Una lingua dell’infanzia, aurorale, capace di volare, di entrare profondamente in noi, di creare un incontro, di riportarci a quella matrice antica, la cui origine dimenticata riaffiora a chi sa prestare ascolto.

Sesto filo: la morte di Primo, la scoperta dell’amore

“Papà non riesco nemmeno a descrivere lo sfacelo della mia vita senza di te”.

Affiora la prima grande smagliatura tra il dover essere – il mondo delle cose, dei doveri, dei progetti da portare avanti – e il bisogno di essere appallottolato, accartocciato, raggomitolato su di sé, senza voler trovare il bandolo da cui iniziare a srotolarsi e vivere.

La condizione di orfano lo ha reso privo della voce rassicurante del padre, dei suoi sguardi protettivi, della comunione delle mani che travagliano, delle abitudini che scaldano il cuore. Giovanni è smarrito, non riesce più a rientrare nelle voci del padre e della madre, diventate silenti. Si sente colpevole, inadeguato, incapace di salvaguardare l’immenso lascito del padre. La natura gli appare ostile, quasi matrigna.

Barbara Buoso dà all’amore il compito di arginare il dolore.

Elisa, che coltiva fiori nel suo piccolo negozio, componendoli in organature volte a dar loro un ordine e una geometria fatta di colori e profumi, riporterà in equilibrio la sua esistenza, lo aiuterà a scoprire la gioia dei corpi che si cercano, delle lunghe camminate, tenendosi per mano, del potersi raccontare senza tema di esser giudicato, del parlare della propria nascita, ritenuta sortilegio. Le bastò dire “che la natura offre le sue magie solo a chi è capace di accoglierle”. Con lei e attraverso lei Giovanni accetterà il suo andare verso la vita adulta, attraversando il dolore della perdita, perché la vita è nutrirsi di sentimenti mai gridati eppure profondi come la radici che si piantano nel terreno e alimentano la crescita, e accettare che pazzia e lucidità, buio e luce, si danno la mano.

Barbara Buoso, Padre terra, Fernandel, Ravenna, 2024 

Giovanna Senatore

Giovanna Senatore: laureata in Filosofia, ha insegnato Storia e Filosofia nei licei classici; formatrice in corsi di aggiornamento per i docenti lungo due tematiche: la letteratura attraverso lo sguardo del pensiero femminista, l’uso dello spazio e del linguaggio teatrale. Ha guidato laboratori teatrali in qualità di esperta in vari istituti scolastici. Fonda l’associazione culturale “Le macchine desideranti” curando la regia di tredici spettacoli dove corpi e parole possano colpire nella loro nuda e secca forza. Ha curato laboratori di scrittura a partire da testi incrociati di scrittrici che hanno ricamato tessiture preziose. Venerdì 23 maggio, al teatro Bolivar di Napoli, va in scena il suo ultimo spettacolo “mai SUPPLICI”.