Intervista ad Antonio Monda, di Francesco Neri

25 aprile 2024. Siamo a New York City e abbiamo incontrato Antonio Monda, scrittore, critico cinematografico, docente alla NYU ed ex direttore artistico della Festa del cinema di Roma.

                                                                                                       

Buongiorno Antonio e bentornato a New York. Tu sei arrivato in America e in particolare a New York circa trent’anni fa. Come mai hai scelto l’America e proprio New York come luogo in cui vivere? Cosa ti ha spinto e ti ha attratto qui?                                                                                   

Sono arrivato in America, a New York, trent’anni fa precisi: a marzo 1994. Era ed è un paese che mi è sempre piaciuto, mi ha attratto fin da quando ero piccolo.                                                                                                     

Le tue grandi passioni, Antonio, sono fondamentalmente due: la letteratura e il cinema: Le hai sempre avute fin da bambino oppure sono maturate in età più adulta, subito dopo l’adolescenza? Come sono nate?                                                                                                  

Ho sempre amato il cinema, in particolare quello americano, soprattutto quello della fine degli anni Settanta e degli anni Ottanta. E di New York mi ha sempre affascinato il fatto che fosse la città più popolosa del mondo. Anche se oggi non lo è più, il fatto che fosse la capitale del mondo. In quel periodo, una trentina d’anni fa, stavo preparando un documentario su Isaac Singer e quindi letteratura e cinema sono passioni che ho sempre coltivato. Ho perso mio padre quando ero un ragazzino di quindici anni e l’amore per il cinema e per la letteratura nascono dall’amore che avevo per mio padre che mi portava spesso al cinema. Continuare a occuparmi di letteratura e di cinema è stato un modo per continuare a celebrare mio padre.                                                                                                              

Ho letto che all’università quando eri studente in Italia hai fatto giurisprudenza e non lettere o lettere con indirizzo storia del cinema. Eri destinato a una carriera da avvocato che però non amavi particolarmente e per la quale  non avevi la vocazione?                                              

All’università ho fatto giurisprudenza su consiglio di mia madre: mio padre faceva l’avvocato e quindi c’era lo studio avviato in famiglia. 

                                                    

Tre registi, non necessariamente italiani o italoamericani, che apprezzi molto e tre che non ami particolarmente.                    

La mia trilogia sicuramente è composta da Federico Fellini,  Charlie Chaplin e John Ford. Quelli che non amo molto sono  Jean Luc Godard, Michelangelo Antonioni e Alain Resanis. Invece i miei tre scrittori preferiti sono Isaac Singer, Ernest Hemingway e Jorge Louis Borges.         

Ti va di dirmi tre cose che ti piacciono dell’America e di New York?  

Dell’America e di New York mi piacciono soprattutto le cose che non ci sono in Italia e a Roma, il fatto che sia un set naturale: la sensazione per chiunque vi arrivi per la prima volta di conoscerla già. L’architettura e quindi i moltissimi grattacieli che non ci sono in Italia. E poi l’energia che pervade la città e che è sempre presente.                                                       

Il tuo ultimo romanzo Il numero è nulla è il nono romanzo di una saga – potremmo dire – composta da dieci volumi in ognuno dei quali tu hai raccontato l’America. Come ti è venuta l’idea di questo progetto? Possiamo dire che tutti questi dieci volumi poi alla fine compongono un unico grande volume sull’America con molte storie che si intrecciano?      

I miei dieci romanzi su New York e sull’America sono e compongono un unico grande romanzo come hai detto tu: un unico grande volume composto da dieci libri ognuno dei quali rappresenta un capitolo.                

In uno dei tuoi primi libri La magnifica illusione, Fazi 2003, che non manca nella mia biblioteca, ti soffermi, tra gli altri, su due film che hanno avuto molto successo ma che sono stati molto controversi e suscitarono molte polemiche quando uscirono: La passione di Cristo e Fahrenheit 9/11La passione di Cristo, di Mel Gibson 2004, dalla cui uscita in sala sono passati vent’anni, forse ancora oggi è l’opera religiosa sul grande schermo più controversa e più discussa che ci sia mai stata. Ricordo che Furio Colombo scrisse: “è un film pornografico che dovrebbe essere vietato ai bambini…che si segnala più alla storia della psichiatria che a quella del cinema…” Un film che fu definito da Furio Colombo oltrechè pornografico anche blasfemo. “Blasfemo soprattutto in questo: invece di lavare i peccati del mondo, in questo film la interminabile tortura di Cristo serve a elencare a una a una le colpe degli ebrei e la loro inevitabile condanna…”   Per quanto riguarda invece il film Fahrenheit 9/11 di Michael Moore, uscito nel 2004, si tratta, forse, di una pellicola che ha cambiato il modo di fare cinema, almeno per quanto riguarda gli action movies nell’uso delle immagini, delle inserzioni, dei ralenti.                                                                                                    

Per quanto riguarda The Passion sicuramente bisogna dire che è costruito mettendo in evidenza la sola sofferenza fisica. Poi capisco la critica di Furio Colombo perché in effetti Mel Gibson dopo il film pronunciò frasi francamente antisemite. Per quanto riguarda Michael Moore bisogna dire che ha sempre avuto uno sguardo critico sulla società americana ed è sempre stato un regista provocatorio.                                                             

In questi giorni ci sono manifestazioni di studenti in tutte le università, anche alla Columbia University. A novembre ci saranno le elezioni per il Presidente. In genere gli intellettuali, gli scrittori, gli artisti in queste circostanze prendono posizione e organizzano iniziative. Come si sono organizzate e quali iniziative stanno facendo “le voci del dissenso” – per usare un’espressione di Fiamma Arditi di qualche tempo fa in un suo libro Fazi – Le voci del dissenso – che in genere sono voci non allineate che raccontano un’altra America, quella creativa, desiderosa di pace e che cerca di combattere con l’arte e con l’impegno civile quello che una volta veniva definito l’imperialismo di molti suoi governanti?                                                 

Io credo che sia importante dare voce a qualunque tipo di dissenso, che si possa criticare senza problemi il governo di Benjamin Netanyahu, ma non accetto l’idea che dalla critica al governo Netanyahu si passi antisemitismo.                                                                                       

Grazie Antonio. Alla prossima!

                                                                                                  Francesco Neri

Francesco Neri è giornalista professionista dal 2002. Ha frequentato la scuola di giornalismo della Luiss di Roma. Ha lavorato come redattore per la casa editrice Editalia, per il quotidiano Il Manifesto, per Il Diario della settimana di Enrico Deaglio, per le pagine romane del quotidiano La Stampa, per l’agenzia Adnkronos. Collaboratore della rivista online Transizione.net. Docente a contratto presso l’università La Sapienza. E’ stato direttore responsabile del giornale POLIZIA E DEMOCRAZIA, versione cartacea e online. Ha lavorato e lavora per la RAI, Giornale radioUnomattinaBallaròLa Grande StoriaCaterpillar estate, Prima Pagina, Tutta la città ne parla. E’ inoltre autore Rai, televisivo e radiofonico, e conduttore delle trasmissioni della Rai  Passioni  e  Vite che non sono la tua  in onda su Rai Radio Tre. Ha curato il volume Dal nostro inviato, uscito da Editori Riuniti e ristampato da Bulzoni. Ha firmato, insieme al magistrato Catello Maresca, il libro uscito da Garzanti  L’ultimo bunker, la storia della cattura del capo dei capi del clan dei Casalesi Michele Zagaria, successivamente raccontata in televisione dalla trasmissione  La tredicesima ora di Carlo Lucarelli e dalla fiction televisiva di Rai Uno Sotto copertura 2.

Francesco Neri: Il numero è nulla di Antonio Monda (Mondadori)

Una nazione, una città, un luogo può essere raccontato in molti modi. Se quel luogo è Lammerica, gli Stati Uniti, New York City il compito può essere difficile e facile allo stesso tempo: difficile perché sono moltissimi i punti di vista possibili e infinite le sfaccettature. Facile per lo stesso motivo: la città che non dorme mai offre infiniti spunti, infiniti scenari, infinite storie vere o verosimili. Se poi quella città la si conosce molto bene come nel caso di Antonio Monda che ci vive ormai da tre decenni allora scrivere un romanzo ambientato tra Washington Square e Gramercy Park o tra Cobble Hill e l’Empire State Building non è un’impresa ardua e complicata. “Il numero è nulla” (Mondadori, 271 pagine, 19 euro) è il recente romanzo di Antonio Monda che, come ha detto lo stesso autore, racconta “la città che mi ha adottato trent’anni fa”. E costituisce il nono capitolo di una saga di dieci volumi iniziata con il libro ‘Nella città nuda’ del 2013 che, peraltro, ricorda il titolo del film di Jules Dassin ‘La città nuda’ del 1949.

Ogni romanzo precedente dedicato da Monda a New York affronta  un decennio del Novecento. “Il numero è nulla” racconta gli anni Trenta, il decennio del presidente Franklin Delano Roosevelt, il periodo che segna la fine del proibizionismo, la fine della Grande Depressione e l’inizio della rinascita che vedrà New York diventare la capitale del mondo. Però quelli sono anche anni di grande violenza e di grande corruzione in cui le regole della criminalità si imponevano nelle strade e nei quartieri più malfamati. In questi ambienti corrotti, violenti e degradati Antonio Monda immagina un personaggio, un killer professionista, assoldato da un famigerato malavitoso realmente esistito, Bugsy Siegel. Che aveva un profilo del tutto particolare: era un pericoloso criminale ma al tempo stesso aveva una grande visionarietà, una grande capacità di vedere il futuro e di forgiarlo persino. Aveva ciò che gli americani chiamano  ‘vision’. Fu lui a concepire e a inventare Las Vegas, la città nel deserto. Amava vestire bene e amava la bella vita. Era un dandy. Tutte caratteristiche tipiche del boss mafioso che ricordano alcuni tratti tipici di don Vito Corleone nel film ‘Il Padrino’.  Il killer assoldato da Bugsy Siegel vive in una sorta di alone misterioso dovuto anche al fatto che l’autore sapientemente non dice mai il suo nome ma solo il suo soprannome: il Vescovo, che ha un padre pio, onesto e religioso. Il quale aveva sognato per il figlio una carriera ecclesiastica, immaginandolo non cardinale o Papa perché gli sembrava eccessivo ma vescovo. Un vescovo gode del rispetto della collettività, viene chiamato ‘eccellenza’ e ha anche un certo potere. E in effetti l’uomo che lavora per Bugsy Siegel il rispetto e il potere se lo conquista: uccidendo. Di lui non sappiamo molto. Sappiamo che è un italoamericano che viene da genitori siciliani, originario di Lercara Friddi, lo stesso paese da cui venivano i genitori di Frank Sinatra e da cui veniva Lucky Luciano. 

Il personaggio del Vescovo, che non è un eroe ma un antieroe in quanto criminale, non riesce a suscitare nel lettore un totale e definitivo senso di ripulsa. Anzi si può cogliere in questo personaggio certamente non un senso di redenzione ma un certo senso del sacro: quando uccide, il Vescovo cerca sempre lo sguardo delle sue vittime. In una sorta di etica personale e criminale cerca di non uccidere mai alle spalle. Lo fa solo una volta. Vuole vedere l’ultimo sguardo della persona che uccide, vuole vedere il momento della morte perché lì risiede ‘l’autenticità’. E quel momento ultimo, definitivo e drammatico in quanto autentico ha qualcosa di sacrale.

‘Black is the color, none is the number’: ‘il colore è nero, il numero è nulla’ cantava Bob Dylan. New York è una città violenta, dura, spietata eppure meravigliosa che ha dato vita a grandi scrittori e a grandi artisti. Viene in mente il verso, bello, accattivante e malinconico, di Fabrizio De Andrè “…dai diamanti non nasce niente, dal letame nascon i fior…” così è New York che, pur essendo violenta, dura e spietata ha dato vita a opere memorabili  come, solo per fare qualche  esempio, l’Empire State Building, il Chrysler, il Cotton Club. Questo romanzo “Il numero è nulla” – in cui ci sono riferimenti molto belli a posti realmente esistenti come il pub Dorian’s Inn accanto all’Empire, a Luchows sulla quattordicesima, a Scarpato’s a Coney Island, a Venerio’s la famosa pasticceria dell’East Village o Delmonico  primo ristorante di Manhattan nel Financial District – non è solo una storia di criminalità ma è una dichiarazione d’amore di Antonio Monda per la città che lui ha scelto e che lo ha scelto.                 

                                                                                                  Francesco Neri

Francesco Neri è giornalista professionista dal 2002. Ha frequentato la scuola di giornalismo della Luiss di Roma. Ha lavorato come redattore per la casa editrice Editalia, per il quotidiano Il Manifesto, per Il Diario della settimana di Enrico Deaglio, per le pagine romane del quotidiano La Stampa, per l’agenzia Adnkronos. Collaboratore della rivista online Transizione.net. Docente a contratto presso l’università La Sapienza. E’ stato direttore responsabile del giornale POLIZIA E DEMOCRAZIA, versione cartacea e online. Ha lavorato e lavora per la RAI, Giornale radioUnomattinaBallaròLa Grande StoriaCaterpillar estate, Prima Pagina, Tutta la città ne parla. E’ inoltre autore Rai, televisivo e radiofonico, e conduttore delle trasmissioni della Rai  Passioni  e  Vite che non sono la tua  in onda su Rai Radio Tre. Ha curato il volume Dal nostro inviato, uscito da Editori Riuniti e ristampato da Bulzoni. Ha firmato, insieme al magistrato Catello Maresca, il libro uscito da Garzanti  L’ultimo bunker, la storia della cattura del capo dei capi del clan dei Casalesi Michele Zagaria, successivamente raccontata in televisione dalla trasmissione  La tredicesima ora di Carlo Lucarelli e dalla fiction televisiva di Rai Uno Sotto copertura 2.

Francesco Neri: Istantanee di Caterina De Mari (Terra Somnia Editore)

ISTANTANEE (pag. 69, 10 euro, collana “fuoripista” Terra Somnia Editore) è l’esordio narrativo di Caterina De Mari che è una pittrice. E in effetti questo libro è formato da molti racconti, da ventuno racconti, che hanno l’agilità e la rapidità di una pennellata. La forma racconto, la narrazione breve, la corta distanza è tutt’altro che facile perché richiede la capacità non comune di concludere in uno spazio molto limitato una storia che, come tutte le storie, deve cominciare, svilupparsi e finire. E Caterina riesce egregiamente a misurarsi con le ristrette dimensioni narrative imposte dalla forma racconto. Non è un caso, non credo sia un caso, che anche il titolo del libro ISTANTANEE che compare su una copertina evocativa e delicata, rimandi alla stessa agilità e rapidità. Che cos’è infatti un’istantanea se non una rapida foto, un fermo immagine, un frame bloccato e messo a fuoco e poi offerto allo spettatore che in questo caso diventa lettore?

E allora forse non è un caso che la pittrice Caterina De Mari, abituata a maneggiare i colori e ciò che ‘si vede’, decida per il suo libro d’esordio un titolo che rinvia in modo scoperto al campo visivo, al campo del visibile. E infatti questi racconti di Caterina De Mari, brevi, addirittura fulminanti e certe volte persino crudi – penso a Il pavone, L’attimo, Vernice, L’attimo molesto (brevissimo), Tu prima di me – offrono al lettore scene e situazioni che sembrano fissarsi proprio negli occhi di uno spettatore che guarda: il lettore e lo spettatore, il lettore è lo spettatore, dal lettore allo spettatore mi verrebbe da dire.

E credo che non sia un caso che l’esordio narrativo di Caterina De Mari che come già accennato nasce come pittrice avvenga con dei racconti, con la forma racconto perché così come in genere un quadro lo si comincia e lo si finisce senza lasciarlo a lungo sul cavalletto allo stesso modo un racconto lo si comincia e lo si finisce, a differenza di un romanzo per esempio che richiede all’autore in genere un impegno di scrittura prolungato nel tempo. E allora l’importanza del suo lavoro di pittrice, l’importanza che ha il ‘visivo’ nel suo abituale lavoro con i pennelli e con i colori si riflette in questo libro in cui si riverbera l’atto del dipingere.

Un libro che aderisce alla realtà – penso in particolare ad alcuni racconti: Come tutte le famiglie, Troppo presto, Il velo insanguinato, La spiaggia, Sottovuoto, Il richiamo, Il pigiama – e restituisce al lettore la realtà, una realtà dura, a volte drammatica in quanto descrive rapporti e relazioni tossiche di cui le cronache quotidiane, purtroppo, sono piene. Ma in fondo Caterina con questo suo libro, con questi suoi racconti che non sono consolatori e che hanno il merito di non voler adulare o, peggio, accarezzare il lettore bensì di scuoterlo, sembra dirci che la scrittura e le parole possono avere una funzione importante, possono in qualche modo farci prendere consapevolezza, possono essere di ammonimento, possono persino trasformarsi in uno strumento di emancipazione della soggettività. Mi venivano in mente le parole di Susan Sontag, la scrittrice, filosofa e fotografa americana di New York – autrice del bel saggio “Sulla fotografia” pubblicato da Einaudi nel 1977 – convinta che le fotografie ci diano una grammatica e un’etica del vedere di una società diventata ‘moderna’ nel momento in cui si è posta come obiettivo quello di produrre e consumare immagini: “Le fotografie – scrive Sontag – sono forse i più misteriosi tra gli oggetti che formano, dandogli spessore, quell’ambiente che noi definiamo moderno. Esse sono in realtà esperienza catturata…fotografare significa infatti appropriarsi della cosa che si fotografa. Significa stabilire con il mondo una relazione particolare che da una sensazione di conoscenza…”

Ecco questi racconti di Caterina De Mari sono “esperienza catturata”, sono il modo attraverso cui l’autrice si appropria di ciò che racconta e il modo attraverso cui stabilisce una relazione con ciò che ha deciso di catturare con le sue ISTANTANEE, un volume che per tutti questi motivi vale la pena leggere e sfogliare come se si trattasse di un album fotografico composto, appunto, da tante istantanee.     

                                                                                Francesco Neri

Francesco Neri è giornalista professionista dal 2002. Ha frequentato la scuola di giornalismo della Luiss di Roma. Ha lavorato come redattore per la casa editrice Editalia, per il quotidiano Il Manifesto, per Il Diario della settimana di Enrico Deaglio, per le pagine romane del quotidiano La Stampa, per l’agenzia Adnkronos. Collaboratore della rivista online Transizione.net. Docente a contratto presso l’università La Sapienza. E’ stato direttore responsabile del giornale POLIZIA E DEMOCRAZIA, versione cartacea e online. Ha lavorato e lavora per la RAI, Giornale radioUnomattinaBallaròLa Grande StoriaCaterpillar estate, Prima Pagina, Tutta la città ne parla. E’ inoltre autore Rai, televisivo e radiofonico, e conduttore delle trasmissioni della Rai  Passioni  e  Vite che non sono la tua  in onda su Rai Radio Tre. Ha curato il volume Dal nostro inviato, uscito da Editori Riuniti e ristampato da Bulzoni. Ha firmato, insieme al magistrato Catello Maresca, il libro uscito da Garzanti  L’ultimo bunker, la storia della cattura del capo dei capi del clan dei Casalesi Michele Zagaria, successivamente raccontata in televisione dalla trasmissione  La tredicesima ora di Carlo Lucarelli e dalla fiction televisiva di Rai Uno Sotto copertura 2.