Un romanzo è un romanzo, un’autoanalisi è una noia
Dal millenovecento e novantuno al duemiladiciannove: ventotto anni di lavoro all’estero con immersione in contesti spesso distanti anni luce da quello cui appartieni, sono più che sufficienti per perdere il contatto con la produzione letteraria italiana.
Anche se la lontananza è interrotta da qualche rientro.
Anche se il tuo lavoro consiste nel promuovere la cultura italiana all’estero, ovvero: qualche concerto, qualche mostra d’arte soprattutto antica o contemporanea ben sponsorizzata, qualche grande nome della nostra letteratura: da Dante a Boccaccio, da Tomasi di Lampedusa a Dacia Maraini.
Già invitare i Wu Ming a Nairobi è stato un azzardo, per non parlare del festival del romanzo storico inventato da Sugarpulp, una delle poche fucine di idee geniali e intelligenti che si stiano muovendo da qualche anno sul suolo patrio.
È chiaro che alcuni dei mondi attraversati – Mosca e Atene, in filo diretto con Berlino, ma anche Nairobi che è pur sempre rimasta una realtà anglosassone – ti danno qualcosa di nuovo, se lo vuoi ricevere, ma è con il rientro nel Belpaese che ti trovi ad affrontare una realtà abbastanza destabilizzante.
Per te che sei partita accompagnata dalle parole del tuo libraio di fiducia – Non si vende, dottoressa, non si vende. Non so quanto riusciremo a resistere. – e da decine di articoli su quotidiani e riviste, in cui ci si interrogava su cosa sarebbe diventata la massa dei giovani non/leggenti, ritornare in Italia è come sbarcare su un altro pianeta.

Come descrivere in poche parole, il mondo dei libri e dei lettori che mi si è parato davanti, nel mio percorso per ritornare a essere lettrice di questo Paese?
Devo fare un passo indietro per poter produrre un paragone abbastanza efficace.
Nella “mia” Tehrān degli anni ‘90, appena uscita dalla guerra con l’Iraq, esisteva un solo negozietto dove si potevano acquistare generi occidentali: pasta, affettati, caffè, biscotti e poco altro. Tutto tranne vino, ma quello ce lo facevamo, e comunque era una festa: cibo italiano per il pranzo della domenica. E così negli altri Paesi, con le solite eccezioni.
Tornare in un mondo di supermercati sovrabbondanti e sovraffollati non è una gioia ma una noia: una gigantesca cornucopia che erutta prodotti a non finire, di ogni marca e di ogni prezzo, talmente tutti uguali che ne basterebbe uno per categoria merceologica.
Nel mondo, mi correggo nel mercato, dei libri la situazione non cambia, cibo per la mente trattato alla stregua di cibo per cani: i persuasori occulti ti spiegano che senza un cane non sei nessuno; il veterinario ti spiega che senza gli opportuni ammenicoli sanitari parasanitari e ludici il tuo cane è una persona infelice; l’informazione via stampa video audio e web ti convince che optare per la marca X renderà migliori te e il tuo cane; il delizioso negozietto di petfood, comodissimo e giusto all’angolo, ti garantirà l’acquisto di ció di cui ormai hai bisogno. È fatta.
In un momento che non mi è chiaro, tra il 1991 e il 2019, qualcuno nel mondo si è accorto che il libro è un oggetto facile da produrre e facile da vendere. Allora, perché non si vende? Perché bisogna cambiare strategia.
Come nel caso delle meravigliose calze di vera seta delle nostre bisnonne, sparite da oltre un secolo perché costavano troppo e duravano per sempre, quindi invendibili.
Quindi sostituibili con calze di nylon.
Torniamo ai libri: per leggerli, bisogna saper leggere, e per capirli bisogna saper pensare.
Amarli è un altro discorso, bisogna che entrino a far parte di te e questo non è programmabile.
Saper leggere: l’introduzione della scuola media inferiore unica obbligatoria, nel 1962, ha fatto si che gli adolescenti italiani, anche quelli che non avevano libri in casa, potessero usufruire di una lettura guidata perfino dei grandi classici; la riforma della scuola superiore, avviata nel 2008, ha rafforzato questo processo; la modifica della struttura e dei contenuti dei corsi di laurea, c.d. “riforma Berlinguer”, ha offerto gli strumenti e aperto la strada a una massa di lettori e di possibili scrittori.
Scrittori in nuce, cui si provvede a garantire le competenze necessarie grazie alla istituzione di appositi corsi di laurea e di specializzazione a livello universitario, o corsi professionalizzanti privati. L’apertura della Scuola Holden, finalizzata alla formazione di narratori e guarda caso intitolata a un personaggio della letteratura statunitense contemporanea, segna un punto di non ritorno.
Nel 1991, quando ho lasciato l’Italia, chi parlava di struttura e strutturalismo era comunista. Oggi, sul concetto di “struttura” si regge la didattica del romanzo.
La massa di clienti, che era fino ad allora mancata al mercato dei libri, si definisce grazie a uno sdoppiamento che viene immediatamente recepito dalle nuove generazioni di potenziali lettori/scrittori: se leggo posso scrivere, se voglio scrivere devo leggere.
Attenzione: se voglio essere letto, devo scrivere ció che richiede il mercato.
Enunciazione, questa, solo apparentemente lapalissiana, giacché non sempre gli scrittori sono stati sottoposti alla necessità o all’obbligo di venire incontro ai desideri e agli interessi del lettore, quantomeno non fino al XVIII secolo dell’Illuminismo e della Rivoluzione francese, e al XIX secolo delle letterature nazionali, secoli in cui davvero si scriveva per liberare e allargare l’area della coscienza.
È nel ventesimo secolo che si ritorna a una produzione letteraria condizionata, dal fascismo e dall’antifascismo, ma anche da fenomeni che non hanno nulla a che fare con regimi e ideologie, ma rappresentano comunque una forma di penetrazione teorica, ideologica ed economica estremamente ben riuscita. Vale a dire l’ingresso in Italia della psicanalisi, databile più o meno al 1925, con la fondazione della Società Psicoanalitica: più ancora delle dottrine politiche, questa tecnica influenzerà profondamente la produzione letteraria italiana.
Con questo lungo prologo arrivo a due riletture, che si situano alle estremità di un arco temporale che va dal 1963, anno in cui è stato pubblicato Un amore del poliedrico e ormai affermato Dino Buzzati, al 2014 quando un giovane Matteo Strukul, non ancora arrivato ai successi odierni, pubblica La giostra dei fiori spezzati.
Entrambi i libri sono definiti romanzi, entrambi ruotano intorno al mondo della prostituzione.
Nel 1963 non avevo più di otto anni, ma ricordo bene l’agitazione che provocó nella piccola comunità padovana che usava trascorrere le vacanze estive nel Bellunese, la pubblicazione di Un amore di Dino Buzzati. I libri proibiti, a casa mia, erano chiusi in una vetrinetta, sotto chiave: a ogni compleanno, più o meno, me ne veniva concesso uno ma Un amore da quella vetrinetta non uscì mai. Superata l’età dei divieti, gli interessi rivolti altrove, non mi vergogno di confessare che pur avendo letto e amato varie altre opere di Buzzati, la forza della censura genitoriale aveva espulso quel libro dai miei orizzonti di lettura. L’ho letto ora, quindi a voler essere precisi non si tratta di una rilettura ma della ripresa di un autore amato in nuova veste, diciamo così.
Ed è stato un libro che non mi è piaciuto, come non mi sono piaciuti La coscienza di Zeno di Italo Svevo, Il male oscuro di Giuseppe Berto, Io e lui di Alberto Moravia, Le libere donne di Magliano di Mario Tobino.

Forse l’esito sarebbe stato un altro se queste opere fossero state presentate come Memorie piuttosto che come Romanzi; forse avrei riconosciuto loro un diverso valore linguistico e letterario se fossero stati diversi i titoli: Buzzati: Io, io, io e Laide; Svevo: Io e il fumo; Berto: Io e il profondo me stesso; Moravia: Io io io e lui; Tobino: Io e le mie matte: ritratti.
Non so, forse la lettura sarebbe risultata comunque alquanto noiosa, come sempre lo è l’accostarsi a testi in cui all’autore non interessa comunicare ma semplicemente mostrarsi. D’altra parte, questi poveri autori non ne portano nemmeno tutta la responsabilità.
Di fatto, tra le molte strategie adottate dalla civiltà occidentale per contrastare la diffusione del collettivismo sovietico, l’adozione della psicoanalisi appare particolarmente significativa: formalmente definita sulla base del mito greco di Edipo, questa pratica geniale è tutt’ora impegnata a diffondere il principio secondo il quale se ti senti a disagio nella vita il problema é tuo, perché non hai ancora imparato a vivere nel modo giusto.
Da qui il proliferare di produzioni letterarie in cui l’Autore si presenta con determinate caratteristiche, e queste rimangono sostanzialmente invariate dall’inizio alla fine di una narrazione, che si muove totalmente al di fuori di quei meccanismi di mimesi/imitazione e catarsi/purificazione i quali, secondo Aristotele, generano nello spettatore piacere e sollievo.
Immaginate la raffigurazione del Buddha che si guarda l’ombelico: la comunicazione avviene tra lo scrittore e se stesso, il lettore é un accessorio utile all’ego di chi scrive ma non necessario.
Se ne puó fare a meno – secondo gli scrittori di cui sopra – insieme a tutti gli elementi che contribuiscono a creare l’effetto mimesi: struttura, personaggi, ambiente, colore e suono delle parole. Leggendo Un amore, ad esempio, ci troviamo sommersi e oppressi da una sovrabbondanza di aggettivi distribuiti a pioggia, come si sparge a terra il sale per sciogliere il ghiaccio e il fango che produce ti sporca le scarpe. La sensazione è che non creino un mondo ma servano a riempire spazi vuoti.
Personaggi, invece, pochini pochini oltre a Buzzati/Dorigo: la Laide, come la vive l’autore, e la signora Emmelina in veste di maitresse o Caron-dimonio-traghettatore. I colleghi di lavoro, gli incontri casuali esistono in funzione di Dorigo, come scene fisse nella messa in scena di un monologo.
Buzzati, peró, ha scritto anche il Il deserto dei Tartari.
Ammettendo che il protagonista di Un amore (1963) non sia cambiato rispetto a Il deserto dei Tartari (1940) – Dorigo è Dogo? – la differenza tra le due opere è tanto semplice quanto smisurata: Il deserto è un romanzo, Un amore non lo è. A me appare così e ho cercato di capire perché, dando per certo che non mi si sarebbe posto alcun interrogativo se Un amore fosse stato scritto prima del deserto.
Scrive Graham Greene, ragionando su Il console onorario, che lui giudica il migliore dei suoi romanzi:«Quando scrivi un romanzo, non devi mai includervi qualcosa che è capitato a te senza modificarlo in qualche modo.»
In effetti, anche ne Il console troviamo storie di uomini che non avrebbero bisogno di bordelli per innamorarsi ma inevitabilmente sviluppano una passione per una prostituta. Quanto ci ricorda la Laide di Dorigo, quella Clara amata dal console e dal dottore? Non molto: non ha la sua indipendenza, la sua strafottenza, la sua volgarità anche. Sembra che il suo maggior desiderio sia accontentare il console Fortnum e il dottor Psarr: loro – cioè la presenza di due innamorati – sono ció che fa di questa storia un romanzo. Loro sono il conflitto, Antagonista l’uno dell’altro. Quel conflitto che in Un amore avviene tra il protagonista e se stesso e quindi non porta a nulla.
E Drogo, laggiù, di fronte al deserto? Drogo non è preso da amore, questo è sicuro.
Nel momento in cui arriva alla fortezza Bastiani, il tenente Giovanni Drogo inizia la sua vita da adulto: da ragazzo che era, convinto di poter recedere da una decisione sbagliata solo dicendo «Non mi piace più», vede la vita scappargli davanti senza che lui riesca a raggiungerla. Come da sempre qualcosa appare e qualcosa scompare, una vita finisce, la neve cade e la primavera spunta e gli uomini attendono una vita migliore. Giovanni – come quanti di noi? – aspetta il momento di poter scegliere, di potersi provare.
Di vincere, alla fine, come in effetti gli riesce di fare, solo e proprio di fronte all’Invincibile.
Il sorriso di Giovanni di fronte alla Morte è la cifra dell’umanità.
Lo sguardo di Dorigo che passa dalla Torre Nera alla piccola squillo, segna il passaggio dall’essere al possedere, quasi un biglietto d’ingresso per le feste di Villa Certosa.
segue
Considerazioni di una lettrice fuori tempo/2
Un romanzo è una giostra
Francesca Chiesa

Francesca Chiesa, classe 1955, laureata in filosofia.
Ha lavorato per il Ministero degli Affari Esteri in Iran, Russia, Grecia, Eritrea, Libia, Kenia. Dal 2019 vive col marito prevalentemente a Syros, nelle Cicladi.
Pubblicazioni recenti:

Dalla Russia alla Persia – storia di un viaggiatore per caso: Peripezie di un marinaio olandese al tempo di Alessio I Romanov e Suleiman I Safavide, La Case Books, 2023
Una storia di donne persiane: Il romanzo di Humāy e Nahid, La Case Books, 2023.
Il suo ultimo lavoro è Diversamente sole, Edizioni Open, 2025.


