Sulla quotidiana riproduzione tecnica dell’umano e sulla società dello spettacolo, di Antonio Meola

Si è oltre la riproducibilità tecnica dell’opera d’arte. Walter Benjamin definisce la riproducibilità tecnica come «tecnica della riproduzione» che «sottrae il riprodotto all’ambito della tradizione», «moltiplicando la riproduzione», ponendo «al posto di un evento unico una sua grande quantità» e «consentendo alla riproduzione di venire incontro a colui che ne fruisce nella sua particolare situazione», attualizzando «il riprodotto», perciò privando l’originale del suo hic et nunc, della sua autenticità, «quintessenza di tutto ciò che di esso, fin dalla sua origine, può venir tramandato, dalla sua durata materiale alla sua testimonianza storica» e della sua autorità, quindi della sua aura. Dalla stampa, la fotografia, il cinema, la radio, si è arrivati quotidianamente a riprodurre il fautore stesso della riproducibilità tecnica, ovvero l’uomo, a detrimento della sua autenticità. Si potrebbe definire questo l’ennesimo stadio di decentralizzazione dell’uomo da se stesso avviato con le teorie copernicane, con la scoperta di un universo che nemmeno ha come suo centro la Via Lattea, con la messa a punto della psicanalisi e, negli ultimi anni, con la riproducibilità tecnica quotidiana dell’umano. 

Con l’avvento di televisione, internet, social network, e con il parallelo progresso raggiunto nelle altre tecniche di stampa, fotografia, radio, cinema, il confine tra la figura dell’operatore dello spettacolo e dello spettatore debordiani si è fatto labile. L’analisi benjaminiana, sebbene escluda l’avvento di televisione, internet e social network, lungimirantemente non esclude il coinvolgimento attivo dello spettatore che ha avuto luogo e sta avendo luogo tutt’oggi. Sebbene la riproduzione tecnica stessa demolisca l’aura insita nell’oggetto, un tempo possedeva anch’essa un’aura propria. Impensabile comprendere oggigiorno lo stupore che produssero le proiezioni dei cortometraggi di Méliès in quei primi spettatori smaliziati, atecnici. Lo spettatore contemporaneo, per intenzione o per nozionismo, indossa come occhiali la tecnica, poiché l’oggetto postcontemporaneo si pone come un trucco di magia seguito dalla logica e disvelante spiegazione del prestidigitatore dopo la sua esecuzione. Dagli scritti sul cinema dei registi sovietici del primo Novecento ai più pratici manuali e tutorial pubblicati oggi per impratichire l’individuo riguardo a tutto, spesso l’operatore fa seguire al suo operato spettacolare una spiegazione tecnica intelligibile pressoché a tutti, a detrimento dell’aura del suo operato.

Il gruppo Meta, proprietario di Facebook, Instagram e Whatsapp, offre un perfetto esempio di spettacolarizzazione quotidiana dell’umano. Facebook regolamenta i rapporti tra utenti con le amicizie, i Mi piace e le reazioni: gli utenti si inviano richieste tra loro e se uno dei due accetta l’altro si diventa amici, e salvo impostazioni della privacy specifiche, si è in grado sia di contattare l’altro, sia di visionarne le pubblicazioni sulla sua bacheca; le pagine, invece, al pari di blog, possono essere seguite e commentate mettendo loro Mi piace. Instagram, come X, non ragiona per amicizie, ma per seguaci e seguiti. Se nella concezione di Facebook la richiesta è un invito all’amicizia, nella concezione di Instagram si fa richiesta di ammissione ad un seguito. Anche Facebook ha poi integrato il concetto di seguito, ma su Instagram e X è la prima legge: ogni profilo ha il suo seguito, quindi intrinsecamente ogni persona virtuale ha il suo seguito. Si può così paragonare l’iscritto a Instagram, senza distinzioni di ceto o fama, alla star di Hollywood, la cui identità pubblica veniva e viene tutt’oggi ridisegnata per fini commerciali. Pertanto si è portati a comportarsi da star nel sistema Instagram, ma ci si comporta anche da medianoi spettatori nella società dello spettacolo siamo a tutti gli effetti diventati operatori dello spettacolo e spettacolo stesso, in quanto appariamo per come vorremmo apparire, non per come siamo. Debord delinea un passaggio verbale ed esistenziale dall’essere all’avere all’apparire. Nel tempo dei social, si è approdati all’apparire come si vorrebbe apparire. In sé la costruzione di una personalità social ingloba tutta la tecnica della fotografia e del cinema: si offrono determinati punti di vista fisici, intellettuali e morali come inquadrature, e al tutto fa da collante il montaggio, una disposizione tecnica soggettiva e mirata di punti di vista di un soggetto e un oggetto oggettivi, il tutto condizionato dai media onnipresenti sui social: se nel primo star system hollywoodiano la star assurgeva a modello comportamentale attraverso stampa, fotografia e cinema, ora la personalità social assurge a modello comportamentale attraverso il social stesso, ovvero uno strumento che offre potenzialmente, in ogni momento della giornata, tramite contenuti poveramente elaborati, modelli comportamentali. Quindi si appare non solo come si vuole apparire, ma anche come gli altri spettatori e operatori dello spettacolo vorrebbero che si appaia.

Checchè se ne dica, la pretesa rimane quella di avere a che fare con gli umani e si ha a che fare invece con umani tecnicamente riprodotti. Le stesse star comunicano un senso di superiorità e un invito all’avvicinamento irreali. La stessa forma di comunicazione è ora una consuetudine tra gli umani, che genera lo stesso risultato: la personalità social, che trova un antenato nella reputazione dell’individuo e nella sua personalità pubblica, non coincide con la vera personalità del soggetto tecnicamente riprodotto. Liberi delle pose e del montaggio, gli umani si rivelano essere per quel che sono, talvolta al di sopra o al di sotto delle aspettative, per un aspetto o per l’altro, mai coincidenti con queste. Eppure, perché riprodotti, gli umani perdono aura. Assume maggior grandezza di significato se tutto il mondo è spettacolo integrato e tutti gli uomini spettatori e operatori spettacolari.

Tutti gli attuali “civili” viventi fanno parte dello spettacolo. L’ultima generazione prespettacolare se ne sta andando, dopo aver per giunta nutrito un forte entusiasmo per esso; la prima generazione e la seconda generazione spettacolari si può dire che l’abbiano combattuto negli anni Sessanta e Settanta, conformandovisi poi; le generazioni a venire, inclusa la nostra, difficilmente sanno riconoscere cos’è spettacolo e cosa realtà. Debord, per assurdo, pone la realtà esattamente al contrario dello spettacolo, e per delinearne i meccanismi consiglia la “frequentazione” di uomini prespettacolari. Grande importanza al dialogo con gli antichi la attribuiva anche Seneca. Si può dire che sia una costante di ogni tempo, quella di doverli frequentare tutti per comprendere bene il proprio, ma direttamente il tramandamento generazionale della prespettacolarità, purché liberato dalla retorica del «Si stava meglio quando si stava peggio», a breve, non sarà più possibile.

Tornare indietro è impossibile. Debord stesso, oltretutto, asserisce che una critica alla società dello spettacolo fatta con i mezzi stessi dello spettacolo tramuta in un moto inconscio di adesione ad essa. Deleterio sarebbe anche solo dare adito a discorsi idealistici, in un’epoca dove la morale ha fallito ancora una volta con l’ideologia del Bene. Quello che emerge però è che le generazioni coinvolte sempre più dallo spettacolo abbiano un rapporto più equilibrato con esso, rispetto alle generazioni prespettacolari superstiti e a generazioni neospettacolari come quelle coinvolte nelle grandi contestazioni degli anni Sessanta e Settanta. Uomini e donne di mezza età e anziani mediamente si rapportano al mondo dello spettacolo attribuendogli l’idea del mondo prespettacolare con una fiducia del tutto immotivata. Le nuove generazioni sono più consapevoli di cosa sia spettacolo o meno, seppur con difficoltà: paradossalmente, l’uso che le nuove generazioni fanno dei social è più consapevole, più accorto, basti pensare a quanti uomini di mezza età e anziani cadano facilmente in truffe e disinformazione e giudichino personalità pubbliche con sempre meno giudiziosità di quanto invece i giovani facciano. Questo perché le nuove generazioni hanno più consapevolezza del fenomeno, e con la consapevolezza viene il controllo. Molta consapevolezza di cosa sia o non sia la società dello spettacolo può venire dalla lettura di L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica di Walter BenjaminLa società dello spettacolo e Commentari alla società dello spettacolo di Guy Debord.

Antonio Meola

Antonio Meola nasce nel 1999 ad Asola, in provincia di Mantova, da genitori salernitani. Nell’aprile 2021 esordisce con il romanzo di narrativa La fine della notte, Helios Edizioni. Nel settembre 2021 pubblica tre poesie sul numero 9 “Tempo” della rivista I quaderni del Caffè, edita Il Rio Edizioni (La DonnaPassato e Persistenza) e nel giugno 2022 collabora con il collettivo poetico Freesocialpoetry pubblicando tre poesie per la chiamata poetica “Nudes poetici #2” sulla rivista elettronica Crocevia (MutaPoesia e Ricordo). 

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