
Condividere ciò che è oscuro**
“Potrebbe sembrare un’idea eccentrica e, per certi versi, malaugurata quella di parlare di carcere a preadolescenti e adolescenti. Da una parte perché la prigione è uno dei luoghi più orribili delle nostre evolute società e, dunque, presentarla ai minori rischia di avere un effetto depressivo e di confermare una concezione minacciosa e intimidatoria della giustizia. Mentre sarebbe bello poterla immaginare, la giustizia, come uno strumento di affermazione della libertà e del diritto. Il pericolo è, insomma, che il solo parlare di carcere e carcerati rafforzi un’idea oscurantista e vendicativa della pena. Dall’altra parte, è vero che tra ragazzi e prigione non c’è quella siderale distanza che si può ipotizzare. Non mi riferisco solo al fatto che nel nostro sistema penitenziario da decenni si trovino reclusi alcune decine di bambini dai 0 ai 3 anni e che questi innocenti assoluti sembrano destinati irrevocabilmente a restare reclusi in una cella con le proprie madri. Non si limita a questo la presenza dell’infanzia e dell’adolescenza nelle nostre carceri, escludendo quanti siano detenuti negli istituti minorili.
Complessivamente, si può stimare intorno ai 120-130 mila i minori che, nel corso di un anno, entrano in contatto con l’ambiente carcerario: sono i figli e i nipoti dei detenuti che, con una certa regolarità, visitano il proprio parente. Il che pone immediatamente dei problemi di notevole significato: come vengono accolti questi minori all’ingresso dell’istituto? Quale rapporto si instaura in quel tempo così ristretto e coatto destinato al colloquio? Quale immagine del genitore ne riporteranno? Problemi giganteschi che, a quanto so, nessuno ha mai pensato di affrontare. Fin qui si è parlato di quei minori che hanno un qualche rapporto diretto con il carcere, ma la stragrande maggioranza, evidentemente, non ne ha alcuno. Questo libro si rivolge a loro e ai volontari, ai maestri, ai docenti, ai mediatori culturali, ai giornalisti, agli assistenti sociali, agli psicologi, alle sorelle e ai fratelli maggiori e ai genitori. Vuole offrire parole e concetti adeguati al livello di età e conoscenza dei giovani lettori; ed è pensato per una lettura che non sia fatta in solitudine, bensì in circostanze che consentano scambi di opinioni e giudizi e apprezzamento o dissenso, comunque condivisione.
L’intento di questo libro è quello di consentire a questi bambini e a questi ragazzi di “familiarizzare” col carcere. Può sembrare una prospettiva del tutto superflua e, per certi versi, temibile. Perché potrebbe portare alla costruzione di un immaginario capace di aggiungere angoscia ad angoscia. Ma ciò che conta è accrescere la consapevolezza che il carcere non è qualcosa di estraneo alla vita dei cittadini, un angolo oscuro della società da cui prendere le distanze. Una discarica sociale da tenere ai margini e oltre i margini delle comunità. Al contrario: il carcere è una parte integrante della collettività e, si può dire, di noi stessi. Il luogo dove vengono segregati i cattivi per impedire loro di fare ulteriore male e per tranquillizzare la nostra buona coscienza inducendoci a pensare che il fatto di non vederli più – perché chiusi dietro quelle mura – possa rendere più ordinata e sicura la nostra vita sociale. Di conseguenza, rompere il tabù e abbattere le mura è la prima operazione da fare.
Personalmente ho avuto modo di osservare quanto l’incontro di un detenuto o di un gruppo di detenuti con gli studenti di una scuola abbia portato a straordinari risultati di conoscenza. Una conoscenza, anche, per così dire “sociologica”: apprendere quali siano gli ambienti e i percorsi di vita che portano al reato può essere un’importantissima occasione di crescita intellettuale e morale per giovani e giovanissimi. Sapere che la pena, lungi dal maturare, può contribuire alla regressione di coloro che la subiscono è un motivo prezioso di riflessione. Imparare che il male espresso dal reato non è qualcosa di estraneo e di inimmaginabile e nemmeno di inevitabile e fatale può contribuire, come poche altre esperienze, allo sviluppo della personalità. Il libro di Valentina Calderone e di Marica Fantauzzi ha un pregio particolare: si impegna a dire la verità, senza censure e senza alcuna cosmesi. La rappresentazione del carcere che propongono non viene in alcun modo abbellita o addolcita: è una macchina che produce all’infinito crimine e malattia, sofferenza e morte. Ed è questa la ragione per la quale si dovrebbe lavorare per la sua progressiva estinzione. E far sì che il carcere, inteso come cella chiusa, non sia più necessario e diventi superfluo, sostituito – se non in casi di straordinaria gravità – da altre forme di sanzione e di pena. Anche di questo si deve poter parlare ai ragazzi e questo libro lo fa, nella speranza che i nostri figli e i nostri nipoti siano abbastanza maturi e liberi dai pregiudizi da poter immaginare e realizzare un sistema delle pene che, a differenza di quello attuale, non mortifichi e umili la dignità della persona.”
**per gentile concessione di Luigi Manconi


Un pensiero riguardo “Luigi Manconi: “Condividere ciò che è oscuro” – postfazione a “Il carcere è un mondo di carta” di Valentina Calderone e Marica Fantauzzi (Momo Edizioni)”