L’incipit di “La solitudine del maratoneta” di Alan Sillitoe, trad. di Vincenzo Mantovani (Minimum Fax)

La solitudine del maratoneta

Appena finii al riformatorio mi misero a correre la maratona. Immagino pensassero che avevo proprio il fisico adatto perché ero lungo e magro per la mia età (e lo sono ancora) e in ogni caso non mi dispiaceva troppo, a dirvi la verità, perché nella nostra famiglia si era sempre corso molto, soprattutto per sfuggire alla polizia. Sono sempre stato un buon corridore, veloce e dotato di un’ampia falcata: l’unico guaio fu che, per quanto corressi, e vi garantisco che tenevo una buona andatura, anche se me lo dico da solo, la cosa non mi impedì di farmi prendere dai poliziotti dopo quel colpo al panificio.

Potrebbe sembrarvi piuttosto strano che al riformatorio ci siano dei maratoneti, pensando che la prima cosa che farebbe un podista una volta sguinzagliato fra quei campi e boschi sarebbe scappare fin dove lo porta la sua pancia piena della brodaglia che danno al riformatorio: ma vi sbagliate, e vi dirò il perché. Anzitutto quei bastardi che ci tengono i piedi sul collo non sono scemi come sembrano quasi sempre, e inoltre io non sono così scemo come sembrerei se cercassi di evadere durante la maratona, perché darsi alla latitanza per poi farsi acciuffare è solo un progetto da babbei, e io non mi lascio mettere nel sacco. Ciò che conta nella vita è la furbizia, e anche quella devi usarla nel modo più accorto possibile; diciamolo francamente: loro sono furbi, e io pure. Se solo «loro» e «noi» avessimo le stesse idee fileremmo d’amore e d’accordo come due innamorati, ma loro non la pensano esattamente come noi e noi non la pensiamo esattamente come loro, così stanno le cose e così staranno sempre. L’unica verità è che siamo tutti furbi, e per questo non ci possiamo soffrire. Insomma loro sanno benissimo che io non cercherò di scappare: se ne stanno come ragni là in quel maniero cadente, appollaiati sul tetto come arroganti cornacchie, a sorvegliare campi e viottoli come generali tedeschi dalla torretta dei loro carri armati. E anche quando io sparisco al piccolo trotto dietro un bosco e loro non mi vedono più sanno che in capo a un’ora la mia testa rapata riapparirà ballonzolante sopra la cima di quella siepe e io mi presenterò al tizio che sta al cancello. Perché quando in un crudo mattino di gelo io mi alzo alle cinque e poso i piedi sul pavimento di pietra, tremando verga a verga, e tutti i miei compagni hanno ancora un’altra ora di sonno prima che suoni la campana, e sgattaiolo da basso attraverso tutti quei corridoi fino al portone col mio permesso in pugno, mi sembra di essere il primo e l’ultimo uomo sulla terra, l’uno e l’altro insieme, se credete a quello che sto cercando di dire. Mi sembra di essere il primo uomo perché sono mezzo nudo e vengo scaraventato sui campi gelati in maglietta e calzoncini: anche il primo povero bastardo caduto sulla terra in pieno inverno sapeva confezionarsi un vestito di foglie o scuoiare uno pterodattilo per farsene un cappotto. Io invece sono là, paralizzato dal freddo, senza niente per scaldarmi tranne un paio d’ore di maratona prima di colazione, neppure una fetta di pane e antiparassitario. Mi stanno allenando a dovere per il gran giorno delle gare, quando tutti quei signori e signore con il muso porcino e la puzza sotto il naso – che non sanno quanto fa due più due e non saprebbero neanche allacciarsi le scarpe se non avessero gli schiavi sempre pronti ai loro ordini – vengono a farci tanti bei discorsi sullo sport che è proprio quello che ci vuole per ricondurci a una vita onesta e tenere i nostri polpastrelli impazienti lontani dai lucchetti delle botteghe e dalle maniglie delle casseforti e dalle forcine per scassinare i contatori del gas. Ci danno in premio un pezzo di nastro azzurro e una coppa dopo che ci siamo spompati a furia di correre o saltare, come cavalli da corsa, solo che noi non siamo ben curati come i cavalli da corsa, questo è il fatto.

Eccomi qua, dunque, ritto sulla soglia in maglietta e calzoncini, senza neanche una crosta di pane secco nelle budella, che guardo i fiori coperti di brina ai miei piedi.

Alan Sillitoe: “La solitudine del maratoneta”, trad. di Vincenzo Mantovani (Minimum Fax)

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