Lorenzo Marone: Sono tornato per te (Einaudi), di Bernardina Moriconi (foto di Ciro Orlandini)

Se mi fosse dato di descrivere  con una parola “Sono tornato per te”, l’ultimo romanzo di Lorenzo Marone per Einaudi, quella parola sarebbe profondità: la profondità del bene e del male, della saggezza e della fede religiosa di quei semplici che nulla hanno degli umili manzoniani ma che pure comprendono e applicano nella prassi quotidiana, anche in modo inconsapevole, il messaggio di Cristo; e, ancora, la profondità degli affetti – domestici, amicali e soprattutto dell’amore -, la profondità della rabbia e della capacità di resistere e, grazie a questa, di continuare a esistere. 

Tutto questo mi pare, infatti, ottimamente rappresentato attraverso una narrazione ricca di eventi al punto che, come spiega lo stesso autore nella postilla conclusiva, l’opera sembrerebbe contenere  due romanzi scissi, a sé stanti, se non fosse per la brevissima introduzione, in cui incontriamo Cono Trezza, il protagonista, intento a tirare pugni e a schivare quelli dell’avversario in improvvisati e appassionanti incontri di boxe all’interno del Lager nazista in cui si trova prigioniero: una premessa che fa diventare tutta la successiva prima parte del romanzo una lunga analessi, attraverso la quale viene raccontata adolescenza e prima giovinezza di Cono in un paesino di poche case a ridosso del fiume Tanagro, nella zona del Vallo di Diano. Soprattutto, questa parte della narrazione ci mostra in fieri il formarsi di una salda coscienza nutrita di dignità e coraggio che gli derivano in primis dall’esempio domestico e presto anche dall’amore per Serenella, che sarà la motivazione forte a tornare, a non essere sopraffatto nell’inferno del campo in cui il giovane protagonista resta internato per un anno e più e che costituisce incandescente materia narrativa della seconda parte dell’opera.

Un romanzo quindi articolato e che si snoda su due piani tematici distanti eppure consequenziali. Nella parte iniziale lo scrittore napoletano ci trasporta in una realtà rurale e povera della seconda metà degli anni Trenta: un mondo che ricorderebbe un po’ il Verga novelliere, per quei soprannomi più significanti dei nomi di battesimo, per il contatto diretto, costante, a volte affettivo con le bestie che diventano parte della famiglia, per la ruvidità di una esistenza di ristrettezze e di fatica quotidiana subordinata ai cicli atmosferici e alla volontà dei padroni e anche per una certa ineluttabilità della sorte umana cui è difficile scampare: “la storia è un carnaio, a qualcuno va bene e a qualcuno va male, e di tutte le strade percorribili da quella sera Cono imboccò la più disgraziata”. Eppure, in Marone il rapporto con l’ambiente naturale del luogo -i campi, il fiume, l’intero paesaggio che avvolgi con lo sguardo – conserva un tratto se non bucolico certo rigenerante e vivificante, addirittura poetico se cogliamo i rimandi sparsi qui è lì al  Montale di “Meriggiare pallido e assorto”, al Cardarelli di “Autunno”, addirittura al Leopardi della “Quiete dopo la tempesta”:  il tutto, accentuato dal contrasto con la grigia realtà dei tempi in cui gli aspetti più truci del regime trovano modo di affermarsi anche in un piccolo centro di campagna apparentemente lontano dai grandi eventi storici che precipitavano vorticosamente verso la catastrofe.

Nello stesso tempo, proprio in forza di quella permessa iniziale, il lettore non può fare a meno di domandarsi cosa possa accadere al protagonista, quale successione di eventi di lì a poco lo renderanno un prigioniero costretto ad assistere e a sperimentare la ferocia degli aguzzini nazisti.

Ed è in questa successiva sezione del romanzo che Marone conferma una ormai pienamente matura capacità di padroneggiare la materia narrativa. Perché il racconto del viaggio nei treni piombati e quindi l’esistenza, ch’è poi una sopravvivenza, dei prigionieri nel campo tedesco implica per noi lettori l’inevitabile raffronto con le tante (ormai troppe) narrazioni letterarie e cinematografiche che ci parlano dei crimini nazisti. Eppure, giusto per restare nell’ambito letterario più recente, oltre – ma per altri aspetti – al romanzo “Che cosa c’è da ridere” di Federico Baccomo, mi sembra che pochissimi autori siano riusciti al pari di  Marone a trattare con tanta “medietas” argomenti cosi agghiaccianti, senza cedimenti retorici ma con un tratto di esemplare delicatezza e con la capacità di coinvolgere emotivamente il lettore grazie anche alla vividezza dei personaggi che l’autore ci fa incontrare e diventare via via familiari: ciascuno di essi col proprio bagaglio di ricordi rimpianti speranze illusioni e disillusioni ad accompagnarli nella nudità psichica e fisica con cui macerano quel poco di esistenza che giornalmente viene loro concessa dagli aguzzini: è questo il piccolo mondo di amicizie tenaci e disperate che ruota intorno a Cono. E, ancora una volta, è la profondità, questa volta degli affetti nuovi e imprevedibili, a farla da padrona e a fornire a Cono la forza,  di volontà più che fisica, di inventarsi pugile per sopravvivere e per riscattare con l’esultanza momentanea delle vittorie l’orgoglio dei sommersi. 

Bernardina Moriconi

Bernardina Moriconi: Filologa moderna, Dottore di ricerca in Storia della Letteratura e Linguistica Italiana,  giornalista pubblicista e docente di materie letterarie, ha insegnato fino al 2018 Letteratura italiana e Storia a tecniche del giornalismo presso l’Università “Suor Orsola Benincasa”. Ha pubblicato libri sulla letteratura teatrale e svolge attività di critico letterario presso quotidiani e riviste specializzate. E’ direttore artistico della manifestazione “Una Giornata leggend…aria. Libri e lettori per le strade di Napoli”.

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