Intervista a Orso Tosco per “L’ultimo pinguino delle Langhe” (Nero Rizzoli), di Cristina Marra

Orso benvenuto su Il Randagio. La prima domanda ti tocca e ti cade anche a pennello. Sei un randagio della scrittura, spazi dalla sceneggiatura, alla poesia, ai romanzi fino a questo tuo primo giallo per Nero Rizzoli. Essere randagio cosa significa per te?

Cara Cristina per prima cosa lasciati ringraziare per l’attenzione e la cura che hai scelto di dedicare al mio libro, e grazie a Il Randagio per la preziosa ospitalità. Essere randagio per me rappresenta l’unica condizione grazie alla quale io non finisca per sentirmi un ipocrita. Nascere nell’estremo ponente ligure significa innanzitutto confrontarsi da subito con l’idea artificiale di confine, con la pretesa odiosa di tracciare e imporre dei limiti utili soltanto a pochi, pochissimi, e ingiusti e stancanti per il resto della popolazione. Da questi ragionamenti nasce la mia predilezione per tutti quei personaggi che nelle loro esistenze si sono preoccupati di allargare i confini, arrivando a distruggerli se necessario, pur di scrollarsi di dosso il peso asfissiante e paludoso del potere costituito. Questo tipo di approccio, tanto nella vita quanto nella scrittura, o nella lettura, non può che farti diventare un randagio. 

Da “quel ponente ligure aspro e ripido in cui è nato alla morbidezza delle Langhe. Un trasferimento inaspettato che riporta alla mente un celebre detective, eppure il tuo  Gualtiero Bova, detto il Pinguino, è originale, unico. E’ un personaggio-corale ed è soprattutto il frutto di due territori che solo appaiono esteriormente diversi ma che hanno origine comune. E’ questo il Pinguino? E’ l’espressione di un’appartenenza comune?

Hai perfettamente ragione, ho sempre immaginato il Pinguino come il portatore, magari involontario e persino scocciato, di alcune delle caratteristiche che legano questi due territori, da sempre così diversi e così uniti. C’è in lui una propensione al lirismo, un lirismo che spesso lo conduce alla malinconia o al silenzio più ostinato, ma che per via di un pudore atavico, il pinguino non può che tradurre in una strana forma di sarcasmo. Un sarcasmo che lui rivolge per prima cosa verso se stesso, e che dunque non è un modo per sentirsi migliore o superiore, ma al contrario, è una forma molto pudica e maldestra di affetto. Più passa il tempo e più mi convinco che questo tipo di sarcasmo altro non sia che la forma di empatia concessa ai più timidi.

Il Pinguino è dipendente dalle “gocce” che provocano dentro la sua testa un lavoro sulle parole “raggruppandole di quattro in quattro senza un legame logico tra loro, giusto un po’ di rima”. Sono quelle parole che diventano quartetti il “segreto” delle sue indagini?

Volevo fortemente che il Pinguino avesse un legame viscerale con le parole, ma al tempo stesso volevo che fosse un legame sbilenco, poco ortodosso, lontano dal rigore accademico e dall’aridità del linguaggio giuridico. Le gocce, il loro effetto, rappresentano in questo senso un legame bizzarro e viscerale, il genere di medicina che potrebbe essere al tempo stesso la migliore medicina possibile e un semplice regalo del più comunque effetto placebo. Il Pinguino si affida a loro come altri si affidano ai santi.

Dislessico, ascolta musica hub, fuma la pipa, è uno scrittore mancato, non è un lettore veloce ma ammette di leggere i libri per riempirsi “la testa di un impasto di parole, un po’ come si fa col compost, è un modo per mettere tutto assieme e vedere se ne esce del nutrimento”. Nel romanzo ci sono tanti libri citati in modo più o meno evidente, credo siano tuoi omaggi. Perché un uomo come il Pinguino sceglie di fare il poliziotto?

Paradossalmente per ribellione. Mi divertiva l’idea che qualcuno scegliesse la professione più di tutte legata all’ordine per opporsi ad un ordine giunto dai propri familiari. Infatti il padre del Pinguino, mosso da ideali romantici e anarchici, quando lui era giovane gli disse, nella vita fai quello che vuoi, ma non fare lo sbirro. E lui, proprio per poter contare sull’unico divieto, e dunque su di una libertà quasi assoluta di cui non sa che farsene, sceglie proprio quell’unica strada proibita e la fa sua. Scavando più in profondità credo sia un modo, contorto, elaborato e un po’ assurdo, di non lasciarsi privare di suo padre, ormai morto. Un modo per tenerlo vicino, seppur all’interno di un buffo e taciuto senso di colpa.

Gilda gildina, la bassotta è la sua spalla, la sua compagna di vita, ma anche un bassethound e un capriolo insieme a altri animali compaiono nella storia. Che importanza hanno i personaggi animali nella tua scrittura e in questo romanzo?

Sai, quando nella vita ti capita di chiamarti Orso, credo che ci siano solo due strade percorribili: o degli animali ti disinteressi del tutto, oppure non puoi che accettare l’idea che questo sia un viaggio animalesco condiviso con altri animali. Io ho chiaramente scelto la seconda strada, e devo dire che mi sembra la più ricca e la più credibile. Penso che privarsi di un rapporto il più possibile profondo con gli animali ci renda mutilati e semi analfabeti. 

“E’ sempre vicino alla luce più intensa che le ombre scavano il loro regno profondo”, che rapporto ha Il Pinguino con il dolore e con l’amore?

Temo che abbia deciso di ricevere l’amore e il dolore come si trattasse della stessa sostanza. Io penso che nella vita sia meglio accogliere l’amore e il dolore con due bocche diverse e distinte, pur nella consapevolezza che poi lo stomaco dove finiranno è uno soltanto e lo stesso. Perché questa distinzione, seppur arbitraria e illusoria, ci permette di frapporre un qualcosa tra questi due sentimenti così importanti e lancinanti. Il Pinguino invece, per coraggio o amarezza, difficile dirlo, ha imparato a ricevere i pochi baci e i tanti calci con lo stesso paio di labbra. 

Le indagini scoperchiano un mondo di apparenze e opportunismo. Il Pinguino è “abituato a osservare la vita più che a viverla” e nel romanzo eccentrici, sognatori, sprovveduti, esaltati, ricchi e poveracci scorrono come nei gironi danteschi. Il passato oscuro alle spalle è l’elemento che li accomuna?

Credo che ogni passato, anche il più apparentemente privo di nota, sia in verità un’amalgama incredibile di zone d’ombra e squarci di luce, è il vero legame che ci rende simili e incompleti, è il motivo per cui ci rivolgiamo agli altri con la speranza di comprenderci, o quando la stanchezza o il dolore prendono il sopravvento, di dimenticarci di noi stessi.

 Che rapporto hai tu con i libri, quale il libro o i libri che ti hanno incantato e formato e che consigli ai lettori randagi?

Con la lettura ho un rapporto viscerale e disordinato, procedo per periodi, per innamoramenti che poi vengono sostituiti da nuovi innamoramenti ma che non scompaiono mai del tutto. Grazie al Pinguino e alle Langhe ho riletto Beppe Fenoglio, un gigante, un maestro, l’esempio di una forza e di una sensibilità fuori dal comune e totalmente riversate nella propria opera, senza pose, senza troppa attenzione verso se stesso. Sempre per via del Pinguino e quindi come conseguenza della sua natura “provinciale” ho letto il primo romanzo di Piero Chiara, “Il piatto piange”: meraviglioso. Tornando ai nostri anni, mi sentirei di consigliare alle amiche e agli amici che ci leggono l’ultimo romanzo di Pier Franco Brandimarte, “La vampa”: sono in pochi gli scrittori e le scrittrici in grado di compiere una operazione così ambiziosa e stimolante. E poi sicuramente “Arsenale di Roma distrutta” di Aurelio Picca. Più in generale, qualsiasi libro di Aurelio è un regalo che il lettore si offre. 

Cristina Marra

Lascia un commento