Vincenzina ora lo sa di Maria Rosaria Selo (Rizzoli) di Vincenzo Vacca

Non voglio anticipare troppo del bel libro di Rosi Selo “Vincenzina ora lo sa”. Mi limito a dire che è una straordinaria storia di solidarietà femminile e di appartenenza a un ceto sociale, quello operaio. Lo scenario è quello dell’ Ilva di Bagnoli. Un luogo esistenziale oltre che un mero posto di lavoro. Con la sua nuova fatica letteraria Rosi Selo racconta la dignità del lavoro, ma anche la sua durezza e i danni mortali alla salute di chi ci lavora.

Uno sguardo al femminile del mondo del lavoro in anni di lotte sociali e di sviluppo del movimento femminista. E uno sguardo femminile non può non narrare i sentimenti, le gioie, gli amori, le delusioni, le relazioni belle e terribili tra uomini e donne. Ho trovato il libro avvincente e per nulla nostalgico, capace di attraversare molto bene i personaggi e il momento storico. A me è sembrato di intuire che la trasformazione interiore dei personaggi nel loro rapporto tra loro stessi e con la fabbrica siano stati stati tale che, pure con la cessazione dell’ attività produttiva, diventa preziosa per la costruzione di una vita futura.

 Il romanzo affronta in modo convincente lo scenario sociale anche all’ esterno della fabbrica, in quanto la dialettica sociale, politica all’ interno della azienda — potremmo dire la conflittualità sociale organizzata- produce degli effetti importanti anche all’ esterno dell’ Ilva. La presenza plurisecolare della plebe napoletana, un problema che non è stato mai affrontato efficacemente dalle diverse classi dirigenti, ha costituito un forte freno alla creazione di una città partenopea nel solco di una comunità cittadina significativamente integrata in un ordine regolare di una vita pienamente civile. Invece, come ben messo in luce dalla narrazione letteraria di Rosi Selo, la presenza della fabbrica con il suo corredo fatto di dialettica sindacale e politica influenza il territorio circostante, perché non solo il lavoro dà una dignità alla persona che lo esercita e crea una coscienza di diritti e di doveri, ma rappresenta un esempio di vita e di impegno civile per il resto della cittadinanza. 

Rosi Selo con il suo libro, pur essendo un romanzo a tutto tondo, ci parla di una straordinaria pagina di storia di Napoli e dell’ Italia, di un protagonismo operaio e femminile foriero di acquisizione di diritti sociali e civili.

L’ autrice, però,  ci trasmette anche tutti i significativi segnali di una epoca che si stava esaurendo e ne nasceva un’altra.

Leggere “Vincenzina ora lo sa” ci offre uno spaccato storico – sociale di anni formidabili e ci dice molto di cosa siamo diventati, ma il libro può rappresentare un passaggio di testimone tra generazioni diverse. 

Vincenzo Vacca 

Cercatori d’acqua di Erri De Luca (Giuntina) di Amedeo Borzillo

“Se la provvista non scende dall’alto, bisogna cercarla nel suolo. Il pozzo è l’opera d’ingegno necessaria.

Deserti e assedi sono metafore ricorrenti nell’epoca attuale. La figura del pozzo, di una sorgente viva, è invece poco adottata.

Trascurato nei nostri giorni riforniti con allaccio a rete idrica. Il pozzo è dotazione strategica durante un assedio. Diverso dalla cisterna che raccoglie acque convogliate, il pozzo attinge alle falde raggiunte dallo scavo. E’ benedizione e dono di una generazione alla seguente, come l’albero.

E’ tappa nel deserto dove permette l’habitat dell’oasi e consente sia la coltivazione che l’allevamento, i mestieri di Caino e Abele. Intorno al pozzo possono convivere.

Intorno a quest’opera dell’ingegno umano si muovono le storie dei cercatori d’acqua in terre aride.”

E’ Tempo di Caccia – Intervista a Jeffery Deaver di Cristina Marra

Ne ha fatta di strada Jeffery Deaver da editor del magazine del liceo a corrispondente legale del Wall Street Journal fino alla pubblicazione del romanzo Il collezionista di ossa nel 1997 che lo proietta nell’olimpo degli autori di thriller best seller in tutto il mondo. Se il suo personaggio più noto Lincoln Rhyme, è tetraplegico ma viaggia con la mente, Colter Shaw è un randagio, si sposta in vari stati americani e macina chilometri per ricercare persone scomparse. Shaw è il cacciatore di ricompense più famoso d’America e con Tempo di Caccia edito da Rizzoli, è al suo quinto caso, apparentemente impossibile, da portare a termine. E’ sempre la sfida a incuriosirlo e a spingerlo ad accettare incarichi rischiosi.  Anche questa volta per annotare storie e piste da seguire non si separa dal suo taccuino nero 13×18 e dalla stilografica delta titanio Galassia  e trova che  quello strumento così elegante, fosse più gentile per la mano rispetto a una penna a sfera. Pure l’inserimento di questi dettagli personali, di cui Deaver è un vero maestro,  denotano il rispetto del protagonista verso i casi di cui si occupa quando accetta un incarico allettato dalla ricompensa ma senza trascurare il fattore umano. Tempo di caccia , tradotto da Sandro Ristori, riporta Deaver in  tour in Italia e il suo protagonista, entrato ormai nel cuore di tanti lettori,  va alla ricerca del prototipo di un rivoluzionario dispositivo per reattori nucleari sottratto all’azienda dell’uomo d’affari Marty Harmon, forse dall’ingegnera Allison Parker, sparita insieme alla figlia Hanna.  Da Ferrington, la nuova città immaginata dallo scrittore, tra sparizioni e fughe, un poliziotto psicotico, un’adolescente ribelle, tanti segreti e straordinarie rivelazioni, la caccia orchestrata da Deaver inizia con una trappola.   

Ciao Jeff e benvenuto su Il Randagio. Nei tuoi romanzi i luoghi vengono sempre descritti molto accuratamente, al punto da non stare sullo sfondo, ma diventano dei veri e propri personaggi al fianco dei protagonisti. Con quale criterio li scegli e perché per Tempo di caccia hai voluto Ferrington?

Ciao ai lettori di Il Randagio. Mi piace che le ambientazioni siano dei personaggi a sé stanti,
per cui mi assicuro di dare loro delle personalità realistiche. Ferrington è un’opera di
fantasia, ma si basa su città vicine a quelle in cui sono cresciuto, che ora sono depresse a
causa del trasferimento delle industrie. Anche i problemi di droga sono abbastanza reali in posti come quello, a causa della disoccupazione giovanile.

Nel romanzo ti soffermi molto sul rapporto tra genitori e figli (Colter e suo padre, Hanna e Allison e John). La famiglia e i suoi equilibri sono al centro del romanzo?

Direi che mi piace esplorare le relazioni tra tutti i membri della famiglia nei miei libri, perché ai lettori piace tanto quanto i crimini di cui scrivo. Mi piace creare tensione nei drammi personali, tanto quanto negli omicidi!

La fuga che racconti è soprattutto fuga da se stessi?

Ottima osservazione. Sì, nel libro le persone scappano dagli assassini, ma scappano anche dal loro passato – o cercano di farlo. Fino a quando si rendono conto che non si può scappare dal passato, ma che bisogna affrontarlo!

Azione, colpi di scena e denuncia sociale restano gli elementi principali dei suoi romanzi?

Sì, scrivo ciò che i lettori vogliono. I libri non riguardano affatto me, ma i lettori. E loro amano la mia specializzazione, i colpi di scena, l’azione e le osservazioni sociali e politiche che faccio.

Che rapporto hanno i personaggi di Tempo di caccia con la verità e il senso di colpa?

I miei personaggi sono sempre fedeli alle persone reali su cui li baso. I cattivi in genere non si sentono in colpa. Purtroppo come molte persone (compresi i politici americani!).

Leggeremo di un incontro tra Colter e Lincoln?

Sì, i due si incontreranno presto in un romanzo.

Faletti e Camilleri. Quanto è importante per lei la narrativa italiana? Quali sono i tuoi libri preferiti?
Sono tanti gli autori italiani che leggo per esempio Michele Giuttari e Gianrico Carofiglio mi piacciono molto. Le altre mie letture vanno da Ian Fleming a John Le Carrè a Conan Doyle fino a Ernest Hemingway. 

Cristina Marra

Cristina Marra e Jeffery Deaver

Intervista a Lorenzo Marone di Bianca Miraglia del Giudice

Il libro è dedicato al piccolo Sergio De Simone, il piccolo bambino vomerese sottoposto, in un lager nazista, a sperimentazione chimica e poi barbaramente ucciso a soli otto anni. Cosa rispondi a chi obbietta che ormai è tutto affidato alla Storia, che è ultroneo continuare a testimoniare le atrocità dei campi di concentramento?
Rispondo che non c’è male peggiore di non continuare a raccontare la Storia, di perdere la memoria. La generazione che ha vissuto quelle atrocità, la cosiddetta Generazione Silenziosa, sta finendo ormai, ma questo non significa che, con loro, debba finire quella che è stata la loro storia. L’uomo senza memoria, senza conoscenza del passato, non ha la possibilità di interpretare il presente e quindi è una grande fesseria!

Due anni fa, hai raccontato di Matteuccia, staffetta partigiana, ne Il bosco di là, Aboca edizioni: è stato, in qualche modo, un prodromo di Cono e Serenella?
Ma no, all’epoca del Bosco di là non avevo ancora idea di scrivere questa storia; è sicuramente un periodo storico che mi affascina e che sento mio, da qualche parte, nel senso che sono i ricordi e i racconti dei miei nonni. Sulla storia di Matteuccia ho il piccolo rimpianto di non averla allargata facendola diventare un romanzo. È un bellissimo racconto lungo al quale sono molto legato, dal tema bello e poco raccontato.

Cono è un ragazzo passionale dominato da forti sentimenti: l’amore innanzitutto, la gelosia, l’intolleranza verso le ingiustizie sociali ed i soprusi messi in essere dal fascismo. Quanto c’è di te in lui? Quanto ti ha coinvolto emotivamente scrivere questo romanzo?
In Cono c’è poco di me, lui è un personaggio costruito perché doveva essere funzionale a quella che è la parte reale storica del romanzo e cioè i ragazzi costretti a boxare nei campi di concentramento, scelti tra quelli più in salute e più prestanti fisicamente. Lui nasce come un personaggio che non si interessa di politica, come anche la sua famiglia, cerca di non farsi notare dal regime, è un contadino figlio di mezzadri, che ama la sua terra, ama Serenella, è un ruspante e per questo viene soprannominato Galletta, non si tiene i soprusi e sa menare le mani; dovevo costruire un personaggio forte capace di resistere in quell’inferno, andando a boxare con le SS. In questo romanzo, io non sono nei personaggi ma nella terra perché è un romanzo sull’amore e sulle radici.

Una storia d’amore, bella come poche, cui fa da contraltare il vissuto terribile nel campo di concentramento; hai scritto tutto di getto oppure hai avuto bisogno di più scritture per trovare la dimensione perfetta di questo romanzo?
Io volevo scrivere una storia d’amore, ma non avrei scritto una storia romantica, non scritta al presente ma al passato; la storia d’amore dei nostri nonni, una storia incentrata su quell’energia intorno alla quale tutto gira, per dirla con Battiato, tutto obbedisce all’amore.
Nel romanzo c’è l’amore di Cono e Serenella, ma anche l’amore di Cono per la sua terra, il suo podere, suo padre, sua madre, sua sorella; ci sono due grandi amicizie, per Briscola e per Palermo. L’amore che tiene in vita e permette di resistere e che si contrappone al grande male. Io non volevo raccontare una storia partigiana, io volevo raccontare la storia di tanti ragazzi di umili origini, anche un po’ ignoranti, costretti a combattere né per la gloria né per la patria, ma, come dice Cono, “per poter tornare a dormire nel fienile con la mia Serenella”.

Nei “Ringraziamenti” posti alla fine del libro, affermi che la memoria serve a dare significato ai valori e, per chi sa custodirla, è essa stessa radici perché restituisce la vita a ciò che non c’è più, a chi non c’è più. Quanto vissuto, sereno o doloroso, occorre per comprendere appieno il significato profondo del ricordare?
La memoria per me è sempre stata un valore fondamentale, sia per il lavoro che faccio, sia perché nei miei romanzi ci sono i miei ricordi camuffati e travestiti, c’è il mio vissuto, ci sono aneddoti della mia vita. Qui l’aggancio con il mio vissuto e la mia infanzia è la terra dove ho deciso di ambientare il romanzo, perché Monte Rianu è un paese immaginario che nasce dalla combinazione di Teggiano e Monte S. Giacomo: sono due paesi a cui sono molto legato perché lì è nata mia nonna, lì d’estate andavano i miei zii e mio padre, perché lì fino ad una certa età mi recavo a trovare nonna Erminia, perché lì sono sepolti due miei zii; è una terra che amo molto che mi riporta al concetto di radici che io ho sempre cercato di rigettare e rifiutare per il vissuto che ho, che non sto qui a dire. Forse, con questo romanzo, sono tornato a far pace con le mie radici.

Bianca Miraglia Del Giudice

Sono tornato per te di Lorenzo Marone (Einaudi) di Vincenzo Vacca

A Cono era stato insegnato a non lasciare la fame al povero, e solo ora capiva che nessuna umiliazione nella vita è grande quanto quella di stare affamato dinanzi a chi affamato non è.

È un significativo passaggio che traggo dall’ultimo libro di Lorenzo Marone, Sono tornato per te. Un romanzo che parla di un ragazzo vivace, non a caso soprannominato “Galletta”, che vive nella zona del Vallo di Diano, tra la Campania e la Basilicata. Si chiama Cono Trezza. Aiuta molto volentieri i genitori a lavorare nei campi assorbendo l’amore per quel luogo e per i suoi abitanti, a eccezione dei fascisti arroganti e violenti. Il ragazzo osserva nei lavori agricoli, oltre il proprio padre, anche il compare Gerardo, detto “Cucozza” per via della testa pelata. Una sorta di secondo padre. A un certo punto della sua giovane vita, Cono si innamora perdutamente di Serenella, figlia di un uomo con idee socialiste. Siamo negli anni Trenta del Novecento, e tutti sappiamo l’orrore verso cui corre l’Italia e il mondo a causa del nazifascismo. Il bel romanzo di Lorenzo Marone narra come si dipanerà la storia d’amore tra Serenella e Cono che dovrà inevitabilmente impattare con gli effetti della seconda guerra mondiale, ma inizialmente con la violenza del regime fascista. Quello che è assolutamente da sottolineare è il fatto che lo scrittore evidenzia un aspetto non molto conosciuto nei lager nazisti, infatti per una serie di vicissitudini il protagonista del romanzo si ritroverà rinchiuso in un campo di concentramento tedesco come prigioniero politico. Dato che Hitler aveva una passione per la boxe, nei lager spesso si organizzavano tornei di pugilato con annesse scommesse ai quali partecipavano sia i tedeschi che i prigionieri internati nei campi. Cono viene scelto come pugile e anche ciò gli darà la forza morale di affrontare la vita abominevole del lager.
Ancora una volta, con questa sua nuova fatica, Marone conferma il suo stile letterario avvincente, arguto, capace di creare una forte, immediata e continua empatia tra i protagonisti del romanzo con i/le lettori/rici. Un libro che parla di sentimenti d’amore, di dignità, di comprensione, di insofferenza per le ingiustizie, ma anche di come l’uomo può essere capace di produrre il male. Marone ci parla degli orrori del “secolo breve”, ma anche della capacità di resistere in nome della bellezza della vita fatta soprattutto delle nostre radici.

Vincenzo Vacca