Massimo Villani, in arte Maestro Missile, opera da svariati anni nel campo dei Videosaggi sul Cinema e sull’Arte.
Ted Ed è una piattaforma che consente ai docenti di creare lezioni interattive a partire da un video, aggiungendo quiz, domande e argomenti di discussione; fa parte della “famiglia” più ampia di risorse dell’omonima organizzazione no profit, che ha come scopo quello di diffondere idee e cultura in ogni ambito attraverso discussione e conferenze.
Maestro Missile qui traduce la lezione relativa a Delitto e Castigo di Fëdor Dostoevskij.
A fine settembre ero, con gli amici con cui condivido una avventura teatrale sui Bronzi di Riace, a Bergamo. Reduci da una serata al Vittoriale degli Italiani (che emozione!) e in procinto di performare a Bergamo, ci siamo ritagliati uno scampolo di mattinata per andare su in montagna a Bratto, per una missione di alto valore amicale. Siamo, infatti, andati a trovare il mio collega ma soprattutto amico del cuore Vincenzo Mollica, che da quelle parti passa diversi mesi l’anno sempre in compagnia e in simbiosi con sua moglie, l’ineguagliabile Rosamaria. Io a Vincenzo voglio veramente bene. Perché abbiamo lavorato per 40 anni al Tg1 e perché è un uomo di raro spessore umano. Generoso, cortese, leale, buono. Per non farne un santo aggiungo anche – da buon calabrese – molto permaloso, ma appena un pochino meno di me. Con lui ho condiviso molte ore non solo in redazione ma anche fuori. Epiche cene con Enrico Mentana, Clemente Mimun, Giampiero Galeazzi e tanti altri amici e colleghi. Un po’ gelosi – devo ammetterlo – eravamo di Federico Fellini: spesso la sera, ma molto presto, Vincenzo andava a cena con lui. Poi, però, ci raggiungeva e non di rado qualche cosa ancora la mangiava. Facevamo le quattro del mattino a parlare di giornalismo, televisione, fatti nostri ma anche e molto di cinema, musica e cartoons. E qui gli altri tacevano perché parlava Mollica. Perché in questo lui è inimitabile, nel mescolare i generi, nel rilanciare tutto in una dimensione di creatività e fantasia ben riscontrabile in alcuni dei suoi libri. Tanto per citarne alcuni: Fellini, Pratt e Corto. Storie di disegni e Milo Manara. Dai Borgia ai pittori del Novecento.
Mi ha colpito di lui la simpatia e l’amicizia con cui i grandi del cinema e della musica lo hanno avvicinato. Non sto a ricordare Paolo Conte, Francesco De Gregori e Renato Zero. Oppure Roberto Benigni e Sophia Loren. D’altronde Vincenzo di loro ha scritto nel volume “L’Italia agli Oscar, racconto di un cronista”, che ha firmato con l’amico Steve Della Casa.
Altra sua caratteristica è la memoria: ricorda tutto, è impressionante. Negli ultimi tempi, quando gli occhi lo stavano abbandonando, riusciva a “sonorizzare” i servizi per il telegiornale basandosi non più sullo scritto ma sulla memoria. Oggi vede e segue il mondo con gli occhi dell’anima e con l’aiuto di Rosamaria.
E durante la mattinata di Bratto, Fulvio Cama, il nostro amico cantautore, gli ha dedicato una canzone tratta da “Caos” dei Fratelli Taviani. Vincenzo, naturalmente, la ricordava, sapeva che l’aveva musicata Nicola Piovani, suo grande amico, e sapeva che era stata eseguita anche nel corso di un concerto con la presenza di Vincenzo Cerami.
Vincenzo Mollica nei primi anni al Tg1 si occupava sì di cinema, affiancando il leggendario Lello Bersani, ma era incardinato alla Redazione Esteri, dov’ero anche io. Quando mi capitò di seguire la Seconda Guerra del Golfo rimasi sette mesi in Arabia Saudita. Avevo bisogno, tra l’altro, di sapere come quei fatti venivano raccontati dai giornali italiani. E lui, che al mattino arrivava prestissimo, con rara disponibilità mi faceva la rassegna stampa. Come non essergli grato?
Gli dico che è come una rockstar: lo cercano tutti. Lo scorso Natale, ci ha raccontato, lo ha passato con Vinicio Capossela. Ma poi è stato ospite di Fiorello per una puntata interamente dedicata a lui e il Corriere della Sera gli ha dedicato una pagina intera. Tutti sapranno che la Disney lo ha celebrato dedicandogli il personaggio di Vincenzo Paperica, naturalmente giornalista. Su questo Vincenzo, che è maestro di ironia e di autoironia, ha forgiato la sua battuta per me migliore. ”Quando vado al cimitero – raccontò anni fa – mi accorgo che nessuno degli interessati ha scelto la foto per la lapide. Allora, per dare un tocco di colore, voglio un primo piano di Paperica con questa dicitura: “Qui giace Vincenzo Paperica che tra gli umani fu Mollica”.
Ammettiamolo: c’è del genio…
Paolo Di Giannantonio
Paolo Di Giannantonio, che ringraziamo per il contributo, è uno dei volti più famosi della RAI, avendo condotto per molti anni il Tg1 e le trasmissioni Unomattina, Italia Sera, Ore 23 e Speciale Tg1.
Avvertenza: se fare i conti con la realtà vi provoca agitazione, non leggete questo articolo. E non leggete Nuovissimo Testamento di Giulio Cavalli.
Non è forse libertà essere scevri da ogni condizionamento e non avere pensieri laterali che irrompono durante la giornata?
Inutile prenderci in giro, la risposta è sì.
Un giorno Fausto Albini disegna un cerchio nella sabbia, viene assalito da una sensazione, si sente male e viene ricoverato nel reparto Disturbi Affettivi nello Stato di DF. A DF il governo non viene eletto ma imposto, e la carica di presidente si tramanda di generazione in generazione. Per rendere possibile la gestione di una nazione fatta di uomini, e dunque delle loro complessità ingestibili, si è trovato un modo per rendere piane le persone: cancellare il sentire.
Tutto è regolamentato e deciso dal governo: dai colori di abiti, edifici, oggetti che sono sempre più neutri perché possano passare inosservati fino ai mestieri di ogni singolo e alla collocazione dei cittadini in classi sociali, con la possibilità di essere promossi o regredire in base al comportamento e alla redditività; e “se c’è qualcuno che dice che qui a DF costringiamo le persone a intraprendere il mestiere che decidiamo noi come autorità di governo significa che non ha capito come va il mondo, non ha capito che l’economia è la summa della politica perché significa incastrare i numeri, le nascite, i morti, gli uomini, le donne e i talenti in un quadro che non si può permettere di cedere in nessuno dei suoi lati”. Sono bandite le arti che da sempre creano rivoluzione, il pensiero libero e il libero arbitrio. Il gusto non esiste, gli alimenti cambiano ogni settimana secondo tabelle che indicano per ognuno il giusto fabbisogno giornaliero per sopravvivere. Non esiste il senso della famiglia, le coppie vengono formate in base a classe sociale e caratteristiche personali per un periodo di tempo determinato, soltanto per riprodursi. I bambini nati vengono allevati dal governo. Gli anziani nascosti in strutture apposite sino alla fine dei loro giorni perché è di cattivo esempio vederli oziare. Il Paese deve solo produrre. Non esistono emozioni, non esistono domande. Non esistono bisogni.
Nel governo di DF avevano infatti studiato a lungo il fatto che la mancanza di empatia fosse la garanzia più solida e importante per il mantenimento del potere e del governo: se l’uomo non si riconosce tra simili non riesce a dare un nome ai propri bisogni. Un uomo che non riconosce i propri bisogni non possiede il vocabolario della democrazia. I cittadini diventano un gregge mansueto che non ha contezza di vivere una situazione di dittatura. Il governo riesce a far presa su di loro perché si propone come un liberatore dal dubbio e dalla sofferenza derivanti dalle scelte che dobbiamo compiere ogni giorno, anche le più semplici come il pranzo o la cena, e dalla trattativa continua nelle relazioni. Il governo riesce a imporsi perché si professa vicino al cittadino, un risolutore e un facilitatore della loro vita e, di conseguenza, qualcuno che lavora per la felicità e la riuscita di ognuno. Ma mentre in DF riesce a farlo con un sotterfugio, un vaccino che viene iniettato di nascosto ai bambini e che addormenta il sentire e l’empatia, nella nostra società l’arma utilizzata è quella della propaganda attraverso la televisione, della paura, dell’omologazione, dei continui stimoli immediati e passivi che portano a considerare l’arte come un vezzo borghese noioso e inutile. La letteratura non ha attrattiva, il tempo è sempre più veloce e bisogna inseguirlo.
Anche la nostra società punta a produrre: non decidono il nostro lavoro ma ci costringono fare delle scelte che seguano il mercato. Io me li ricordo gli articoli in cui si indicavano le professioni del futuro, le professionalità più ricercate e quelle umanistiche hanno sempre il numero in negativo. Possiamo aggiungere a tutto questo l’età pensionabile sempre più alta, la gavetta dei giovani sempre più lunga in attesa di qualcosa che non arriva e che neanche vogliamo ma ci troviamo a desiderare, l’odio di classe e le pubblicità sull’orologio biologico delle donne. Per fare solo qualche esempio banale. A DF anche il linguaggio è condizionato e la socialità è condizionata. Ridotta ai minimi termini, solo qualche convenevole e battute di spirito con conoscenti, colleghi e moglie/marito assegnato. A DF le televisioni sono tanto più grandi quanto più è alta la classe di appartenenza. Indicativo di come questo mezzo abbia inciso su di noi e sul nostro modo di parlare e di pensare, così come sul rapportarci agli altri: molto spesso, troppo spesso, gli scambi tra persone riguardano proprio programmi televisivi come soap opera, talk show e reality che entrano completamente nella nostra realtà. Creano una comunità. Superficiale. Tutto è viziato, qui e a DF, votato a rassicurare.
Ma in tutti gli Stati qualcuno sfugge alle regole. Nel romanzo le Brigate Sentimentali agiscono in segreto e spacciano di tutto: cibo, vestiti, musica e libri. Imporre delle novità che stridono con l’abitudine non sempre sortisce gli effetti sperati. A DF accade proprio questo perché “per costruire emozioni bisogna averne il vocabolario mentre i cittadini di DF sono analfabeti. Volete raccontare una bella storia a gente che non capisce la vostra lingua”. Anche se oggi l’arte non è scomparsa, viene comunque considerata come non necessaria, da istituzioni e cittadini. Bisogna educare le persone, educarle al bello. È facile, disse Fausto Albini, educare la gente al brutto, basta lasciarla cadere e poi farla strisciare e rassicurarla che è normale, educare alla bellezza significa aprire il cuore e farci entrare tutto dentro, come la bocca di un balena in fondo all’oceano, entra il bello certo e ci entrano certi pezzi di vetro ed entra l’aria ispida e entra tutto e non ci possono essere filtri nelle branchie di un popolo che ha disimparato a respirare. Permettetemi di dire che nelle arti non tutto rientra nel bello e, rimanendo nell’ambito letterario, banalmente, ci sono i libri belli e i libri brutti. Educare al bello significa certo educare a riconoscerlo, a goderne, a stupirsi come riescono solo i bambini e come succede a Fausto Albini la prima volta che legge un libro in ospedale, di nascosto, scoprendo altri mondi altre idee, un altro possibile. Che poi è questa la forza della letteratura no?
A DF però chi mostra uno scostamento dalla rotondità affettiva, senza spigoli da smussare per creare spiragli dall’intorpidimento, viene descritto come malato, o ancora diverso. Le Brigate Sentimentali, una volta uscite allo scoperto, fanno notizia e sui giornali, anzi il giornale, si spreca inchiostro. Le loro foto vengono modificate per sembrare più scure, e loro più sinistri. Diventano altro. Questo altro è pericoloso, un terrorista, il colpevole su cui riversare tutta la rabbia. Perché a un certo punto il governo, per combattere le Brigate Sentimentali, decide di riportare la paura nei cittadini. Una paura illogica che viene instillata dall’alto e che porta al sospetto e istiga alla vendetta. Una paura che viene utilizzata per accrescere il potere del governo, salvatore dei cittadini. Una paura quindi del diverso e di qualcuno che vuole espropriare loro beni e benefici. Lo scostamento va risolto, curato nel senso più invasivo. Anche nascosto. A me ricorda proprio la paura che fanno crescere in noi per chiunque non sia italiano o non sia bianco. Andando ad allargare la visuale, penso a come si nascondano le carceri, fuori dalla vista non esistono, non sono parte della città. Ma qui il discorso è ampio.
La scrittura di Giulio Cavalli è perfetta per un racconto così duro e lucido di una società che potrebbe diventare la nostra società se non ci diamo una svegliata. Estremizza situazioni esistenti con parole precise e mai strabordanti, enfatizza la ripetitività, l’aridità, la superficialità e l’inutilità di una vita volta alla produzione descrivendo minuziosamente le abitazioni tutte uguali o i colori bianchi e grigi segnalati da numeri per definire sfumature inesistenti. Sembra una scrittura pacata e piatta come la vita a DF e ma si avverte un movimento sotterraneo. È una linfa che scorre inarrestabile quella dell’individualità, della libertà, della curiosità e dell’amore, in continuo mutamento e ricambio. Però Giulio Cavalli ci frega. Ci parla di rivoluzioni ma anche di una società senza violenza e a cui tutti possono contribuire e in cui vivere con dignità. Siamo sicuri che, se ci fosse un referendum, voteremmo per l’arte, la violenza, la trattativa, la sofferenza e non per una calma piatta? Chissà che il Nuovissimo Testamento non indichi una nuova venuta.