Le cattive di Camila Sosa Villada: un atto lirico di resistenza di Gigi Agnano

“Conflittuale, radicale, pieno di speranza, Le cattive fa una delle cose più importanti che un libro (o una vita) possa fare. Guarda tutte le macerie e la sporcizia e si chiede: “Possiamo ricavare qualcosa di bello da questo?”

Keiran Goddard

Non vorrei sbagliarmi, ma credo che Monica Acito sia stato lo “sponsor” più appassionato in Italia de Le cattive dell’attrice e scrittrice argentina Camila Sosa Villada, edito qui da noi da Sur circa due anni fa (il libro è del 2019 col titolo originale Las Malas). Così, anche per la stima immensa che provo per l’autrice di Uvaspina, sono andato in libreria per prenderne una copia. Ed è successo che mi sia innamorato anch’io di questa confraternita di trans che fa la ronda al Parco Sarmiento di Córdoba, la seconda città più grande dell’Argentina.

 “Il Parco Sarmiento si trova nel cuore della città. Un grande polmone verde, con uno zoo e un parco divertimenti. Di notte si fa selvaggio. […]. Ogni notte le trans riemergono da quell’inferno di cui nessuno scrive, per restituire la primavera al mondo. Insieme al gruppo di trans c’è una donna incinta, l’unica nata femmina fra tutte loro. Le altre, le trans, hanno trasformato sé stesse per diventarlo. Nel clan delle trans del Parco, quella diversa è lei, la donna incinta che ripete sempre lo stesso scherzo: toccare di sorpresa le trans in mezzo alle gambe. L’ha appena rifatto e tutte ridono a crepapelle.”

Il romanzo, che è nel contempo una favola e una testimonianza del dolore dei transessuali, si apre con una protagonista senza nome (che presto capiremo essere  Camila) che spia delle prostitute trans col desiderio di essere ammessa nella loro comunità. Dice che si muovono come un branco ed è proprio in quel branco che alla fine viene accolta con gentilezza da zia Encarna, la matriarca, vecchia di centosettantotto primavere, anni in cui ha in qualche modo imparato e insegnato a sopravvivere, madre putativa di tutti i travestiti del Parco, loro riparo e consolazione.

“Di botte La Zia Encarna ne ha prese tante, stivali di poliziotti e clienti hanno giocato a calcio con la sua testa e anche con i suoi reni. Al punto che le capita di pisciare sangue. Per questo nessuno si preoccupa quando se ne va, quando le lascia, quando risponde alla sirena del proprio destino. Si allontana un po’ confusa, martoriata dalle scarpe alte di plastica dura che ai suoi centosettantotto anni si fanno sentire come un letto di chiodi. Cammina con difficoltà sulla terra secca e le erbacce incolte, attraversa avenida Dante come un sibilo verso la zona del Parco dove ci sono rovi e scarpate e una grotta in cui i finocchi vanno a darsi baci e consolazione, e che hanno ribattezzato La Grotta dell’Orso. Qualche metro più in là c’è l’Hospital Rawson, l’ospedale che si occupa delle infezioni: la nostra seconda casa.”

Ora accade che, nella notte stessa in cui Camila entra nel gruppo, si avverta nel parco un suono insolito che assomiglia assai al gemito di un bimbo. Le trans si avvicinano con curiosità, sembrano “un’invasione di zombi” e scoprono un neonato ancora sporco di sangue abbandonato in un fosso. Zia Encarna lo salva e lo porta a casa (“In quella casa trans, la dolcezza può ancora impaurire la morte. In quella casa, perfino la morte può essere bella”). Nella “pensione più frocia del mondo, il posto che tante trans ha accolto, nascosto, protetto, ospitato nei momenti di disperazione”, il bimbo viene battezzato – lo chiamano “Lo Splendore degli Occhi” – e allevato con l’aiuto e l’amore della famiglia di travestiti. 

“Lo Splendore degli Occhi, battezzato in primavera, fu il preferito delle trans, il bambino che ricevette più doni dalle regine maghe, per le quali anche la cosa più semplice ed economica aveva un’aura sacra. Il bambino trovato in un fosso, figlio di tutte noi, le figlie di nessuno, le orfane come lui, le apprendiste del nulla, le sacerdotesse del piacere, le dimenticate, le complici. Battezzato da una puttana paraguayana vestita come una predatrice dalla testa ai piedi, che gli soffiò benedizioni in faccia, che raccolse con le sue unghie finte le lacrime versate da alcune di noi e con quelle lacrime benedisse la fronte del bambino.”

Il bambino cresce in fretta, ma col passare del tempo diventa sempre più difficile per Zia Encarna tenerlo lontano dallo sguardo della gente, che non permette a un travestito di prendersi cura di un bambino. Come previsto, il quartiere va in grande agitazione quando ha la conferma che la vecchia matrona sta crescendo un figlio e inizia a molestarla con graffiti sui muri di casa, pietre lanciate contro le finestre e minacciose lettere anonime.

“La polizia farà ruggire le sirene, sfodererà le armi contro le trans, strilleranno i telegiornali, prenderanno fuoco le redazioni, protesterà l’opinione pubblica, sempre propensa al linciaggio. L’infanzia non è compatibile con le donne trans. Per quella gentaglia, l’immagine di una trans con un bambino fra le braccia è un peccato capitale.”

Per poter portare Lo Splendore degli Occhi a scuola, Zia  Encarna si fa crescere i baffi e si veste da uomo, rinuncia così ad un’identità faticosamente conquistata, ma, nonostante ciò, gli attacchi e le umiliazioni continuano a diventare sempre più ricorrenti ed estremi anche contro il bambino. Risulta facile a questo punto intuire il tragico epilogo del romanzo che lascio scoprire al lettore. 

Camila Sosa  Villada, nata nel 1952, transgender, ex prostituta e ambulante, ha lavorato in radio, ha fatto teatro e ha cantato in alcuni bar prima di diventare scrittrice e attrice cinematografica e televisiva affermata. Si definisce una “miracolata” visto che in America Latina l’aspettativa di vita delle persone trans va dai trentacinque ai quarantuno anni (Non ho trovato il dato in Italia, ma da uno studio olandese condotto ad Amsterdam tra il 1972 e il 2018, emergeva un rischio molto più alto di mortalità prematura per le persone transgender “determinato in primo luogo dalla mancata accettazione sociale”. Sarebbe interessante conoscere il parere su questi temi dei neoeletti premier argentino e olandese – Javier Milei e Geert Wilders -, ma anche del Papa argentino o del nostro Presidente del Consiglio. Che ne sarà in Argentina della legislazione progressista, pionieristica per gli anni Duemila sui diritti dei trans, sui matrimoni tra persone dello stesso sesso, sulle unioni civili, sulle quote di lavoro per le persone transgender dopo l’elezione dell’”anarco-capitalista” Milei?). Camila Sosa Villada definisce “genocidio” il massacro dei trans perpetrato nelle società tradizionaliste latinoamericane per colpa di comportamenti intolleranti che hanno un elevato costo in termini di salute e integrità personale.

E sono proprio le discriminazioni e l’estrema violenza di cui sono vittime i travestiti quello che si racconta nel suo toccante romanzo d’esordio. I corpi, veri protagonisti della storia, sono mostruosi (ma il vero mostro è la società che quei corpi li mortifica, li brucia, li fa scomparire), considerati subalterni e, in quanto tali, suscettibili di qualsiasi violazione, sfregio, taglio, frattura, livido.

Eppure la presenza di quei corpi martoriati, di quelle esistenze marginali nel mondo dei “normali” non solo mette in discussione i fondamenti del sistema machista etero-patriarcale, ma riconfigura anche alcune delle istituzioni sacre di detto sistema, come la maternità o la famiglia (che nel racconto sono la tenera maternità di Zia Encarna, più madre della madre biologica che ha abbandonato il bambino, o la “vera” famiglia dei trans di parco Sarmiento che crescerà con amore il bambino: “il titolo di famiglia non bastava per loro. A unirli era un amore molto più grande, era tutta la comprensione di cui un essere umano è capace”).

Un romanzo in gran parte autobiografico: Camila di giorno studentessa universitaria e di notte prostituta, il ricordo dei primi travestimenti, gli eventi dell’adolescenza segnati dall’ incomprensione, la delusione della madre e le cinghiate del padre alcolizzato, la cosmesi, i primi trucchi, il rossetto rubato e nascosto, la prostituzione a partire dai 18 anni e i furti ai clienti per sbarcare il lunario, il distacco dalla famiglia e dalle convenzioni sociali, il contatto con gli altri trans e la scoperta di una comunità migliore, più solidale, ecc… La novità di questo libro è che le tematiche relative ad identità sessuali minoritarie e le relative manifestazioni di denuncia e di dissidenza non sono più narrate in maniera generalmente stereotipata da una prospettiva ovvero da un osservatore “esterni” (cosa piuttosto diffusa nella narrativa mondiale), ma documentate “dall’interno” perché Le cattive è un romanzo scritto da un travestito, da uno che racconta nei dettagli un mondo in gran parte sconosciuto e spesso distorto.

Le cattive – come va di moda dire – è “autofiction” (quale romanzo non lo è?) con sprazzi di realismo magico, di una magia seducente e delicata, di una tenerezza autentica che pervade anche le pagine più dure. Aldilà dei canoni letterari, Villada disegna personaggi fantastici come l’Uomo senza testa, il rifugiato somalo decapitato invaghito di Zia Encarna; o Maria la Muta, che si trasforma progressivamente in uccello, con le piume che le crescono lentamente sulla colonna vertebrale, sulle braccia, che finirà rinchiusa in gabbia (“la nostra sorella più libera, che poteva volare dove voleva”); o la Machi, l’indomita paraguayana che aveva strappato con un morso il pene ad un poliziottto, oracolo, strega e fata delle puttane,  che di notte diventa lupo. Questi personaggi servono alla Villada per dare al romanzo un tono mitico e fiabesco, per attenuare la crudeltà del reale e sorridere del dolore. Alle aggressioni di una società transfobica, Camila oppone la luce della poesia, il desiderio, la gioia di vivere, la solidarietà delle ragazze di Parco Sarmiento, per cui “il dolore di una è il dolore di tutte”. “Hai diritto di essere felice” è la lezione di Zia Encarna che Camila sente il dovere di raccontare come fosse un atto di resistenza. Un atto lirico di resistenza. E nel più generale pessimismo della trama, su uno sfondo terribile e crudele, alcune di queste donne in rarissimi casi (Camila ne è un esempio) riescono a crearsi spazi di vita e di futuro sostenibili. 

Brillante e acuto, lucido e delirante, umano e profondo, Le cattive è stato un successo editoriale con migliaia di copie vendute, traduzioni e premi anche internazionali. Non è solo un perfetto esempio di letteratura che dà visibilità e voce a coloro che non ne hanno, ma la sua qualità in termini letterari, nel mix ben equilibrato di reale ed immaginario, di epico ed elegiaco, è tale da trascendere il suo tema principale. Il fatto che si tocchino argomenti al tempo stesso così intimi e autobiografici ma anche “politici” non delegittima infatti il suo sguardo letterario. Alla fine di questo magnifico romanzo Camila Sosa Villada, grazie a una prosa delicata, forte e poetica, lascia al lettore l’emozione e l’inquietudine dei grandi romanzi latinoamericani. 

Gigi Agnano