
Il nazista e il barbiere è un romanzo arguto, grottesco e bizzarro il cui autore è Edgar Hilsenrath, un ebreo sopravvissuto all’Olocausto, nato a Lipsia nel 1926 e scomparso nel 2018. Scritto in tedesco negli anni Cinquanta, il libro, per il suo contenuto e per il tono satirico della narrazione, ha avuto una genesi piuttosto travagliata: pubblicato in molti Paesi nel’71, in Italia nel ‘73 da Mondadori, in Germania è uscito – dopo innumerevoli rifiuti e solo dopo il successo negli Stati Uniti – nel ‘77 con un piccolo editore. Infatti le grandi case editrici sia dell’Ovest che dell’Est temevano le reazioni del pubblico dei lettori, poco disposto a confrontarsi con una commedia a tratti umoristica e burlesca su una delle pagine più tragiche della propria Storia, peraltro narrata in prima persona da un feroce assassino tedesco.
Il romanzo racconta il corso della vita del barbiere Max Schulz, ariano sia per parte di madre che per la parte di uno dei suoi presumibili cinque padri, a partire dall’amicizia con un bambino ebreo suo coetaneo Itzig Finkelstein. Itzig è un ottimo studente e aiuta l’amico nei compiti scolastici; Max invece insegna a Itzig la sua unica abilità: catturare e torturare topi. La famiglia Finkelstein dà rifugio a Max, lo protegge dalle percosse e dagli abusi sessuali del patrigno e di fatto lo adotta. Così accade che Max si comporti come un ebreo: va in sinagoga, parla yiddish e sogna Gerusalemme come ogni ebreo al termine delle celebrazioni pasquali. Passa il tempo, in Germania comincia l’ascesa del nazismo col suo carico di antisemitismo, i compagni di giochi crescono e Max osserva che tra i due è lui a somigliare fisicamente ad un ebreo, laddove Itzig, l’ebreo, sembra di purissima razza ariana:
“Il mio amico Itzig era biondo e aveva gli occhi azzurri, il naso dritto, i denti bianchi e la bocca ben disegnata. Io invece, Max Schulz, figlio illegittimo ma ariano puro di Minna Schulz, avevo i capelli neri, gli occhi da rospo, il naso a becco, le labbra gonfie e bitorzolute e i denti guasti. Potrete ben capire che molto spesso ci confondessero.”
Con la definitiva presa del potere di Hitler, nonostante tutte le attenzioni, l’amicizia e l’aiuto ricevuti dai Finkelstein, Max, senza alcuna motivazione razionale, diventa membro del partito nazionalsocialista e si arruola nelle SS nelle cui fila commette crimini orribili sia nelle campagne militari che in un campo di concentramento polacco. È proprio lui, Max, il voltagabbana bugiardo e senza scrupoli a raccontarci le sue “imprese” in un tono colloquiale da romanzo picaresco.
A guerra finita, per sfuggire alla denazificazione e alla giustizia, il nostro “eroe” mette in atto un piano che è un capolavoro di ripugnante camaleontismo: si fa circoncidere e tatuare un numero di matricola come fosse un reduce da Auschwitz e assume l’identità dell’amico da lui stesso ucciso con tutta la famiglia. Decide quindi di emigrare in Palestina e, ulteriore colpo di scena, diventa un combattente per la costituzione e la difesa dello Stato ebraico prima contro gli inglesi e poi contro gli arabi.
Qui l’ironia di Hilsenrath è estremamente sottile nel mostrare al lettore quanto il linguaggio di Max e dei suoi fratelli sionisti nei discorsi entusiasti sullo sviluppo del nuovo stato ebraico sia somigliante alla retorica nazionalsocialista, quanto i loro slogan la evochino. Quando il suo amico Sigi Weinrauch scherza sul sionismo, Max, l’ex genocida ora perfetto sionista, lo chiama “nemico del popolo” e commenta tra l’adirato e lo scandalizzato:

“Sigi Weinrauch… è un nemico del popolo. Sbeffeggia il sionismo — da noi questo si chiamava ‛deformazione della verità’ — insulta i nostri condottieri — da noi si chiamava ‘diffamazione del Führer’ — e parla sempre di causa persa — da noi si chiamava ‘apologia di propaganda nemica’ e ‘disfattismo’ — ma la cosa peggiore di tutte è che Sigi Weinrauch ama la Germania! Ma ci pensate? Un ebreo che ama la Germania! Nonostante i sei milioni!”
Il romanzo prosegue sviluppando una trama ricca di ulteriori svolte improvvise per arrivare ad un bellissimo finale a sorpresa, l’ennesimo giro di valzer, l’ennesima piroetta, che ovviamente non racconto.
Aggiungo solo che anche al termine della sua vita rocambolesca, Max alias Itzig, antesignano dell’imputato Eichmann a Gerusalemme, non ha rimorsi, si autoassolve, giustifica il suo opportunismo, il suo andare dove gira il vento, attribuendo la responsabilità dei propri crimini ad altri e mai a se stesso, un po’ come hanno fatto alla fine del conflitto tanti gerarchi nazisti e molti cittadini tedeschi. Come Eichmann, Max dice in buona sostanza di aver “solo obbedito agli ordini” come se l’ obbedienza fosse una kantiana virtù morale. E, a tal proposito, nel finale del romanzo viene da pensare alla frase della Arendt per cui “nessun uomo per Kant ha il diritto di obbedire”, ovvero “ogni uomo deve in ogni azione riflettere se la massima che guida il suo agire possa diventare una legge universale”.
Hilsenrath è con ogni probabilità il primo scrittore a fare del tipico umorismo ebraico sulla tragedia dell’Olocausto; è moderno nel prendere in giro una Germania diventata subito dopo la guerra improvvisamente filosionista; ed è attualissimo e profetico nello smascherare posture, frasi e slogan nazisti dietro la propaganda e la politica del nascente Stato di Israele.
Gigi Agnano

