Cinque giorni fra trent’anni di Francesco Fiorentino (Marsilio) – Nostalgia, oblio, ignoranza. Riflessione a partire da due romanzi di Fulvia Palmentura

«Non si perde (ripeti vanamente) / che quanto non si ha e non si è avuto/ mai, ma non basta il coraggio/ per imparare l’arte dell’oblio.» Le parole di Borges, come orme sulla terra bagnata, fanno strada: si può perdere solo ciò che non è mai stato nostro. Cosa ne fa dunque il tempo di ciò che non siamo riusciti a possedere? In quale nobile bottega quest’artigiano sapiente nasconde le domande irrisolte, le promesse della giovinezza, le identità ancora gestanti? Occorre dimenticare a lungo. Solo una sensibile distanza da ciò che è stato permette di voltarsi a guardare indietro. Farlo subito potrebbe pietrificare il futuro. È da futuro che si guarda il presente e non viceversa. Così, nel romanzo di Francesco Fiorentino, Cinque giorni fra trent’anni (Marsilio 2023), il giovane Arturo lasciando andare Roberta, probabilmente sta lasciando andare l’occasione della vita. Torna da Parigi, dove ha vissuto qualche mese con lei, per discutere la sua tesi di laurea, con unico rammarico: Roberta non lo aspetterà, è puro presente; così inaccessibile, non ha progetti. È il personaggio femminile forse più insondabile del romanzo. A differenza delle altre protagoniste di questi quadri, dipinti dall’autore, che hanno aspirazioni professionali più borghesi, Roberta è una proletaria, priva di ogni velleità culturale; canta in un Night Club, si lascia ammirare, raggiunge chi la circonda, ma non è mai raggiunta del tutto. Con stupore del lettore, Fiorentino, che non cela la sua predilezione per questo personaggio, le intitola il primo racconto, sebbene conosciamo Roberta solo a metà di questo primo capitolo e solo a partire dallo sguardo di Arturo. Una scelta molto interessante quella dell’autore, per nulla prevedibile: non è lo spazio del racconto a decretare il protagonista, ma la forza del personaggio che vive e non si lascia vivere, che sceglie, non si lascia scegliere; Roberta ha ciò che manca ad Arturo: il coraggio di stare nel presente e di essere padrone della propria vita. «Potessi vivere cinque giorni fra trent’anni per sapere che sto pensando a tutto questo soltanto con un po’ di nostalgia.

Ma chi ti dice che non scoprirei invece d’avere perso l’occasione della mia vita?» confida Arturo al suo amico Guido. La nostalgia è lo stato d’animo di chi fa ritorno. Parafrasando Kundera (L’ignoranza, Adelphi 2003), che ragiona sui diversi esiti etimologici del termine nelle diverse culture, la nostalgia è il desiderio di ciò che è assente, di ciò che è stato o addirittura di ciò che non è mai stato, e in questo caso, non necessita l’idea di un ritorno. Ma è anche sofferenza dell’ignoranza. Vite che in un certo momento si sono tanto assomigliate, dunque, rischiano di non riconoscersi più. Ma cosa succede se l’eco della nostalgia giunge da molto più lontano di quello che immagineremmo? Cosa accade se sono i morti a non voler dimenticare e a farsi carico del ritorno?

Una telefonata da parte di uno studio notarile, all’incipit del romanzo, copre una distanza temporale di trent’anni, ma anche l’ignoranza affettiva di chi come Arturo ha scelto l’oblio: «Che può volere, dopo essere morto, Guido Clemente da lui?» pensa; «Dovrà di nuovo guardare a quella parte della vita che vorrebbe annegata nel tempo? Ce ne ha messo per diventare quello che è, non ha voglia di confrontarsi ancora con il sé stesso di allora». Guido ha nominato Arturo esecutore testamentario, sarà il supplente della sua volontà. L’espediente narrativo del ritorno dei personaggi dal carattere balzachiano, che dà vigore al racconto, concede e al tempo stesso nega loro l’oblio: ciascuno è nella propria narrazione ma anche in quella dell’altro.  La lontana giovinezza, condivisa da questi personaggi, sembra richiamarli al punto di origine per fare i conti con ciò che è rimasto irrisolto o, fino ad allora, volontariamente ignorato. «La vita che abbiamo alle spalle ha la pessima abitudine di uscire dall’ombra, di lamentarsi di noi, di metterci sotto processo» scrive ancora Kundera.

Quasi improvvisamente, il tempo trascorso sembra di nuovo secolarizzarsi. Quando si è giovani, le proprie solitudini possono rifugiarsi in stanze intimissime, o incontrare quelle altrui e organizzarsi in spazi di riflessione collettiva. Così, ci sembra di vederli Guido, Arturo, Elvira, Emilia, Ada, Lea e Carla, nei primi anni ’70, all’apice della loro giovinezza, mentre si riuniscono per il Collettivo o per i seminari dello stimato Professor Onofri, che sentono come un riferimento importante: «Gli incontri possono cambiare noi e il nostro futuro, alcuni si rivelano letali, altri si scoprono doni. Impersonare il destino per qualcuno dovrebbe sempre implicare un sentimento di responsabilità. Ma talvolta questo si rivela impossibile», scrive Fiorentino. In tutto il romanzo, ciascun personaggio sembra avere la responsabilità di ergersi a destino per un altro, può essere dono o pietra d’inciampo e tutti, in qualche modo, raccolgono un’eredità o un testamento anche da sé stessi: è così per Arturo, al quale Guido sembra lasciare la vita che avrebbe potuto vivere e di cui ora viene eletto supplente; è così per Emilia e Lea che vivono l’amarezza di desiderare ancora come si desidera a vent’anni, ma anche di fare i conti con la consapevolezza di una maturità che le ha cambiate; è così per Irina, che su richiesta del marito di Ada, che vuole fare ordine nell’armadio della moglie defunta, e forse nella sua vita, indossa ritualmente i suoi abiti, quasi fosse una liturgia del ricordo o del distacco. Ogni racconto è portato fino in fondo agli abissi, ma abbandonato alle soluzioni più imprevedibili o a domande che rimangono aperte. Si può scegliere di lasciare spazio al silenzio o di provare a colmarlo a tutti i costi con parole falsate. Così, l’ultima parola del romanzo non spetta ai vivi, ma ai morti che sentono

l’irrevocabilità della fine come una liberazione dalle aspettative ferite e dalle illusioni, ma anche come il limite oggettivo della propria narrazione: non potranno fare ritorno e saranno presto dimenticati. La mail lasciata da Carla ad Elvira vuole trattenere gli ultimi respiri concessi alla memoria, prima che si schiuda all’oblio: «voleva restare con quelli che l’amavano e per questo se li stava portando all’inferno con lei. […] Elvira sposta il cursore su ELIMINA e poi su RIMUOVI ELIMINATI». Nel romanzo di Fiorentino, la nostalgia come sofferenza dell’ignoranza, come si era detto prima, sembra essere il sentimento che lega i morti più dei vivi, che al contrario vogliono dimenticare.

Assetati di vista e di ricordo, i morti sono resistenti all’oblio, vorrebbero non andare mai via dallo sguardo altrui e faticano a perdonare ciò che fluisce, passa, cambia, nonostante la loro assenza. Se per Borges l’oblio è un’arte da imparare, a ragione Kundera scriveva: «Solo chi torna dopo tanto tempo può contemplare attonito e abbagliato la dea dell’ignoranza».

Fulvia Palmentura

Francesco Fiorentino, napoletano, ha studiato alla Federico II con Francesco Orlando. Dopo Venezia, ha insegnato letteratura francese all’Università di Bari, dove è professore emerito. Tra i suoi saggi pubblicati in Italia e in Francia, si segnalano le monografie su Balzac (Laterza), su Molière (Einaudi) e sul teatro del Seicento (Laterza). Ha curato l’edizione italiana del teatro di Molière (Bompiani) e sta preparando un’edizione di romanzi libertini (Bompiani). Per Marsilio ha diretto la collana di classici francesi «I fiori blu», e, insieme a Carlo Mastelloni, ha pubblicato due romanzi polizieschi: Il filo del male e Il sintomo. Nel 2021, sempre per Marsilio, è apparso il romanzo Futilità.

Fulvia Palmentura ha studiato Lettere e poi Scienze dello spettacolo presso l’Università degli Studi di Bari Aldo Moro. Attualmente frequenta il terzo anno del Corso di Dottorato in Lettere, Lingue e Arti a Bari, e lavora a un progetto di ricerca dal titolo “Il romanzo di formazione francese al femminile tra XIX e XX secolo”.