Riscoprire Martin Buber di Francesco Ferrari

Da alcuni mesi, la guerra è tornata, in Europa e alle porte dell’Europa. Riscoprire le riflessioni di un grande filosofo come Martin Buber (Vienna 1878 – Gerusalemme 1965), fermamente persuaso che la prima causa della guerra fosse l’umana incapacità di pensare la pace, è allora non solo stimolante intellettualmente, ma anche rilevante concretamente.

Il percorso umano e intellettuale di Buber ben si condensa nell’epiteto “costruttore di ponti”, tributatogli dall’allievo Ernst Simon. Egli rivolse infatti la propria vita e il proprio pensiero a riparare relazioni danneggiate tra individui e tra gruppi. Nei suoi scritti e nel suo agire, Buber si dedicò a superare l’estraniazione che separa singoli esseri umani, l’essere umano e Dio, la persona dal suo mondo sociale e culturale, popoli e stati, l’ebreo dall’ebraismo, ma anche dal cristiano, dall’arabo, dal tedesco. Gli scritti di Buber possono essere letti come una sfida alle condizioni anonime e alienanti della vita moderna, e, con il primato della relazionalità che essi affermano, ci insegnano a recuperare presenza, interezza e capacità di incontrare, in una parola: riconciliazione nelle nostre vite.

Buber era nato a Vienna l’otto febbraio 1878 da una facoltosa famiglia della borghesia ebraica di lingua tedesca dell’Impero Austro-ungarico. All’età di tre anni, sua madre Elise abbandonò il nucleo familiare: un evento traumatico, un “incontro mancato” che lo accompagnerà, come un’ombra, per tutta la vita. Il piccolo Martin venne affidato allora alle cure dei nonni paterni a Leopoli, all’estremo margine orientale della monarchia asburgica. Il nonno Salomon era un esperto editore di Midrash e di testi rabbinici; la nonna Adele, un’appassionata lettrice del classicismo e del romanticismo tedesco. In questo contesto, Buber fa conoscenza diretta del chassidismo, una corrente mistica dell’ebraismo esteuropeo che, in diversi suoi scritti, avrà modo di tematizzare nei termini di cabbalà divenuta ethos, santificazione del quotidiano e superamento dello iato tra sacro e profano. Alcune polarità peculiari del suo pensiero prendono già avvio in questi primissimi anni: germanicità ed ebraicità, ebraismo occidentale ed orientale, società e comunità, religione istituzionale e religiosità mistica.

Nel 1896 Buber torna a Vienna, per iscriversi all’università: sceglie come facoltà filosofia e storia dell’arte. Ha come maestri Georg Simmel e Wilhelm Dilthey, ed è un avido lettore di Nietzsche, Kant e Schopenhauer. Buber, però, non è affatto un intellettuale isolato in una torre d’avorio: in ogni stagione della sua vita entrerà in contatto con diversi movimenti letterari e politici. Chi vuole accostarsi allo studio del suo pensiero non può prescindere dall’analizzare i network di cui egli fu parte integrante. Una fonte particolarmente ricca a riguardo è l’epistolario del filosofo. Esso consta di oltre 40.000 lettere indirizzate a oltre 7.000 destinatari, ed è attualmente oggetto del grande progetto “Buber Korrespondenzen Digital” che, finanziato dall’Accademia di scienze e lettere di Magonza, si svolge presso le Università di Francoforte e di Jena, sotto la guida dei professori Christian Wiese e Martin Leiner.

La prima pubblicazione di Buber risale al 1897: è in lingua polacca, ed ha per oggetto scrittori viennesi come Arthur Schnitzler e Hugo von Hofmannsthal. Nei medesimi anni, la politica lo chiama, con una forza ancora maggiore: Incontri decisivi sono quelli con il pensatore e attivista anarchico Gustav Landauer e con il leader sionista Theodor Herzl. L’influsso di Landauer è rinvenibile fin da una conferenza buberiana del 1901, al cui centro sta la comunità, intesa come espressione genuina del legame tra uomo e uomo. Essa si contrappone tanto al monopolio della forza dello stato quanto all’anonimato della società: è una “comunità postsociale”. Da Herzl, Buber è invece nominato, nel medesimo anno, caporedattore del periodico Die Welt: nelle sue pagine, il giovane filosofo formula un sionismo culturale, che, incentrato sulla rinascita della creatività del popolo ebraico, contrasta apertamente la visione di uno stato ebraico propugnata dallo stesso Herzl – è il “rinascimento ebraico”. Quelli dell’università sono dunque anni indubbiamente intensi per Buber. Tra Vienna, Lipsia, Zurigo, Berlino e ancora Vienna, essi culminano nel conseguimento del dottorato nel 1904, con una tesi sul problema dell’individuazione in due filosofi cristiani: Nicolò Cusano e Jakob Böhme.

Buber trascorre un paio d’anni a Firenze, dove assiste ad alcuni spettacoli teatrali di Eleonora Duse che lo impressioneranno durevolmente, per poi stabilirsi in Germania: Dapprima nella capitale Berlino, e quindi, a partire dal 1916, a Heppenheim an der Bergstrasse, un piccolo centro non molto lontano da Francoforte. Negli anni che precedono la Prima guerra mondiale, Buber lavora come lettore per la casa editrice Rütten & Loening. Qui, diventa caporedattore della serie Die Gesellschaft (ovvero: la società), una pionieristica collana in 40 volumi a più autori, in cui è già presente il termine “interumano”, che diventerà peculiare del suo pensiero dialogico. Buber si volge quindi, con crescente intensità, a mito e mistica di diversi popoli e religioni: chassidismo, taoismo, cristianesimo medievale, induismo, islam – l’afflato della religiosità non conosce per lui limiti confessionali. La questione del senso dell’ebraismo in un mondo non-ebraico è comunque oggetto privilegiato della sua riflessione, tanto in termini religiosi quanto di identità di popolo: con i Tre discorsi sull’ebraismo di Praga egli assurge a punto di rifermento per un’intera generazione di giovani ebrei mitteleuropei. Il pensiero politico-religioso di Buber, fortemente intriso di superomismo nicciano e del culto dei popoli, ma anche di una concezione mistica-messianica dell’esperienza vissuta, fa sì che egli saluti con favore lo scoppio della Prima guerra mondiale.

A partire dalla primavera 1916, tuttavia, grazie anche alle critiche mossegli dall’amico Landauer, egli rivede le proprie posizioni lealiste e belliciste. Sulle colonne del periodico Der Jude, da lui fondato proprio nel 1916, Buber interpreta la guerra in corso come l’esito del monopolio della forza da parte di stati-nazione indifferenti alla sorte del popolo ebraico, che combatte al loro servizio in una sorta di atroce guerra civile. Buber si trova così a un crocevia: il suo distanziarsi dalla mistica e il suo congedarsi dal nazionalismo si accompagnano alla svolta dialogica del suo pensiero, che trova classica formulazione nel suo capolavoro Ich und Du (ovvero: Io e Tu), iniziato sempre nel 1916 e pubblicato nel 1923.

Con Io e Tu, Martin Buber entra nella storia della filosofia come uno dei maestri del “pensiero dialogico”. Buber definisce il dare e ricevere la parola come un evento fondamentale, tanto tra uomo e uomo quanto tra l’uomo e il divino (in particolare nella Bibbia). Il linguaggio mostra come l’Io e il Tu sono legati da un vincolo di originaria coappartenenza, per cui “in principio è la relazione”. La relazione non è tuttavia per Buber una proprietà che risiede nel soggetto, bensì è l’aprioridell’essere. Quanto chiamiamo “io” non è un punto di partenza, bensì di ritorno. “Non vi è alcun io in sé”, scrive allora il filosofo, bensì l’insuperabile differenza ontologica tra l’Io della relazione Io-Tu e l’Io della relazione Io-Esso. Nella relazione Io-Tu, l’Altro è incontrato nel pieno rispetto dell’ineffabilità del suo essere, nella sua presenza inoggettivabile, irriducibile a qualsivoglia articolazione, qualitativa o quantitativa. La relazione Io-Tu permette di rivolgersi all’Altro in un dialogo franco e senza riserve, che, in quanto tale, richiede ricettività, apertura, financo vulnerabilità. C’è dialogo dove a un appello segue una risposta. In termini etici, la relazione Io-Tu definisce allora il nostro agire come responsabilità. In termini politici, essa ha come luogo di realizzazione la comunità, la cui incarnazione concreta è localizzata da Buber nel socialismo dei kibbutz (in antitesi al comunismo dei soviet). Si tratta allora di porsi in ascolto del Tu, in antitesi a quel ripiegamento su di sé monologico che pare una modalità predefinita nella nostra media quotidianità.

La relazione Io-Tu sfida il pensiero occidentale, in cui il darsi del soggetto vuol dire separazioneda un oggetto – che ben presto diventa funzionalizzazione, strumentalizzazione, reificazione. Nei termini di Buber: una relazione Io-Esso.Il nostro essere in relazione con gli altri si compie allora in base a un’antitesi fondamentale: incontrare come un Tu oppure utilizzare come un Esso. Relazione significa in Buber dialogo, coappartenenza, ma anche differenza. Sarebbe infatti profondamente sbagliato leggere il pensiero dialogico buberiano in termini di unio mystica, di sussunzione fusionale di Io e Tu. Affinché un dialogo possa aver luogo, occorre che ognuno dispieghi la propria voce: dia-logos significa discorso di due. È nella insuperabile distinzione dell’Io e del Tu che risiede il fondamento del dialogo, cosicché chi dice dialogo dice anche diversità, e quindi dissenso. Buber stesso testimonia con la propria vita e con il proprio pensiero una concezione “agonistica” del dialogo, in qualità di ebreo di lingua tedesca, sempre e di nuovo pronto a impegnarsi in dibattiti con un Tu che di volta in volta assume le sembianze del teologo cristiano, dell’attivista palestinese, financo del membro del partito nazionalsocialista.

La critica allo stato-nazione inaugurata da Buber nel 1916 ha come esito anche una revisione del sionismo in senso teocratico: essa implica lo scioglimento del vincolo del potere temporale, contrapponendo a esso l’affermazione della sola legittimità della sovranità divina. Se Dio vige come unico legislatore, ogni Führer terreno è allora un usurpatore: non si deve pertanto confondere la teocrazia con una ierocrazia o con una teologia politica, di cui essa costituisce in vero l’opposto.Una simile prospettiva pone Buber in stretta continuità tanto con il pensiero anarchico e antipolitico di Landauer quanto con il socialismo religioso del teologo evangelico Leonhard Ragaz, da cui egli mutua la tesi per cui fede significa non obbedienza a una religione, quanto edificazione del regno di Dio qui e ora. Questo significa agire in nome di verità e giustizia, al pari dei profeti dell’Antico Israele. Per Buber, non vi è autonomia del politico dall’etico. Tale principio vale anche per la definizione delle relazioni tra arabi e ebrei nella Palestina mandataria inglese, come emerge dal suo impegno all’interno dell’associazione pacifista Brit Shalom, di cui è cofondatore nel 1925. Il messaggio della Bibbia ebraica diventa sempre più importante per Buber. Ancora nel 1925 egli dà avvio, insieme all’amico Franz Rosenzweig, a un’impresa colossale: una nuova traduzione della Scrittura in lingua tedesca, che Buber porterà a compimento nel 1961, dopo il tragico tramonto della simbiosi ebraico-tedesca.

La rilevanza delle questioni teologiche cresce progressivamente nel suo pensiero: nel 1926, Buber dà avvio a un periodico interreligioso, Die Kreatur, di cui condivide la redazione con un collega protestante e a uno cattolico. Aumenta nondimeno il suo impegno pedagogico, tanto in senso teoretico quanto con i corsi che egli tiene al Freies Jüdisches Lehrhaus, istituto per la formazione degli ebrei adulti diretto proprio da Rosenzweig. Nel 1930 Buber è quindi nominato professore di Scienza ed etica dell’ebraismo all’Università di Francoforte, senza che sia in possesso di una tesi di abilitazione: un riconoscimento, quindi, che gli viene tributato per meriti scientifici e chiara fama. Buber è in costante ascesa, una stella di prima grandezza nella cultura ebraico-tedesca della Repubblica di Weimar.

Le elezioni tedesche del 1933 cambiano tutto. In peggio, naturalmente, per Buber, che nel gennaio del medesimo anno aveva esposto il proprio sionismo teocratico al convegno “i fondamenti religiosi di un movimento völkisch”, anche in presenza di membri del partito nazionalsocialista. Con la presa del potere di Hitler, Buber è destituito dall’incarico di professore universitario fin dal 1933. Tuttavia, egli non si perde d’animo. Si batte con diverse iniziative pedagogiche in favore dell’ebraismo tedesco, che assumono i tratti di una vera e propria “resistenza spirituale”. Nel 1938 Buber migra a Gerusalemme, dove ricopre la prima cattedra di filosofia sociale presso quell’Università ebraica di cui è uno dei padri, avendo propugnato la causa della sua fondazione fin dai tempi della sua militanza sionista di inizio secolo. Ed è proprio insieme al presidente dell’Università ebraica di Gerusalemme Judas Magnes che, nel novembre 1938, Buber si fa promotore di una lettera a Gandhi, in cui pone una serie di aperti interrogativi sulla possibilità della nonviolenza in circostanze estreme come quelle della Notte dei cristalli. A pochi mesi di distanza, quasi presagendo lo scoppio della Seconda guerra mondiale, egli ci consegna quindi una riflessione importante: quella per cui la pace deve essere qualcosa di più di una mera assenza di guerra: occorre, nelle sue parole, una “grande pace”, pensata e praticata in maniera proattiva.

Buber è dunque tra i primi filosofi che interpretano lo sterminio degli ebrei come un evento epocale, che impone di rimettere radicalmente in discussione la relazione tra l’uomo e Dio, anticipando di diversi anni le cosiddette “teologie dell’Olocausto”. Negli anni del Secondo dopoguerra, quindi, Buber promuove dialogo, pace e riconciliazione, tanto tra ebrei e tedeschi, ricevendo importanti onorificenze come il Premio per la pace dei librai tedeschi, quanto tra arabi e israeliani, sostenendo la causa di un binazionalismo democratico e paritetico. Le sue parole, che esprimono una ferma condanna dello strapotere del principio politico e l’auspicio di una rinascita dell’interumano, lanciano quindi, in piena Guerra Fredda, un monito a riconoscersi entro una comune umanità, affermando la fratellanza universale come valore capace di impedire che libertà e uguaglianza degenerino, rispettivamente, in un individualismo di matrice statunitense e in un collettivismo di stampo sovietico.

Negli ultimi anni della sua vita, Buber esprime sempre più intensamente la propria solidarietà a favore di gruppi subalterni, oggetto di violazioni dei diritti umani, diventando, ad esempio, membro onorario del Comitato Americano per l’Africa nel 1957, dopo essere stato contattato da Martin Luther King e Eleanor Roosevelt. Un paio d’anno dopo, egli è quindi nominato Premio Nobel per la Pace da parte del segretario delle Nazioni Unite Dag Hammarskjöld. Nel 1960, infine, Buber manda un significativo messaggio in occasione della morte di Adriano Olivetti, così come, nel medesimo anno, è a Firenze, dove partecipa attivamente ai Colloqui Mediterranei fondati e organizzati da Giorgio La Pira.

C’è un sintagma che condensa il lungo e per certi versi tortuoso itinerario di vita e di pensiero di Martin Buber: “Umanesimo ebraico”. Umanesimo non significa in questo caso coltivare le belle lettere in una concezione erudita o salottiera del sapere: si tratta invece di imparare a distinguere e a difendere l’umano dall’inumano. Per Buber si tratta, nella fattispecie, di un umanesimo “ebraico”, ovvero, “biblico”, ispirato da quel libro dei libri che raccoglie e testimonia l’incontro tra l’umano e il divino come evento del dare e ricevere la parola. Nel 1953, in occasione del suo discorso per il conferimento del già ricordato Premio per la pace dei librai tedeschi, egli dava un volto metastorico al proprio “umanesimo ebraico”, profilando lo stagliarsi di un fronte trasversale con cui l’Homo Humanus si contrappone all’Homo Contrahumanus. Questo è, per lui, il vero luogo di uno scontro campale, il cui epicentro è stato invece additato, con fatale errore, di volta in volta, nella diversitàculturale, religiosa, ideologica. Tale conflitto non contrappone superuomini e subumani, come affermava l’ideologia nazionalsocialista, né americani e sovietici, né ancora un sedicente Occidente ebraico-cristiano contro un Oriente musulmano o sino-indiano: in esso si combattono invece, in ogni tempo e in ogni luogo, Umanesimo e Antiumanesimo. Dinnanzi al fronte trasversale dell’Homo Humanus, tutte le configurazioni politiche incarnate dallo stato-nazione si mostrano come vestigia transeunti. A queste, Buber contrappone la propria fede nella coappartenenza Io-Tu in una comune umanità. Sfidando cinismo e sfiducia, in un mondo segnato dalla montante tirannia dell’Io-Esso e dall’inestinguibile piaga della guerra, l’ultima parola di Martin Buber è allora quella della riparazione di relazioni danneggiate: quella della “riconciliazione”.

Francesco Ferrari

Francesco Ferrari (Genova 1986) è ricercatore e docente presso l’Università Friedrich Schiller di Jena e l’Università Goethe di Francoforte; collabora con l’Accademia di Scienze e Lettere di Magonza; è coordinatore dello Jena Center for Reconciliation Studies; è autore di tre monografie dedicate al pensiero di Martin Buber e di vari saggi su e traduzioni di autori della filosofia e della cultura ebraica del XX secolo (tra cui Arendt, Buber, Derrida, Landauer, Scholem, Zweig); svolge attività di ricerca sul concetto di riconciliazione dopo Auschwitz, ed è editore dell’epistolario di Martin Buber nel progetto Buber-Korrespondenzen Digital.

Mary Shelley pioniera della letteratura distopica femminile di Cristiana Buccarelli

Nel 1816 il cielo d’Europa è oscurato da un vulcano che ha eruttato un anno prima in Indonesia; per un anno non ci sarà estate e per due anni non ci saranno raccolti; c’è molto freddo, ci sono carestie e fame, inoltre è da poco finita l’avventura di Napoleone: ci sono veri e propri esodi di masse di gente in Occidente, spesso sotto la guida di qualcuno che annuncia la fine del mondo.

In quest’atmosfera apocalittica la giovanissima Mary Shelley si ritrova a Ginevra con il compagno e in seguito marito Percy Shelley, la sorellastra Claire e John Polidori a casa lord Byron. <<Fu un’estate piovosa e poco clemente>> affermò Mary dopo molti anni <<la pioggia incessante spesso ci costrinse in casa per giornate intere>>. E proprio una di quelle sere Lord Byron propose un gioco: ognuno avrebbe dovuto scrivere una storia di orrore e di fantasmi. Mary prese quel gioco molto sul serio, forse anche spinta dall’ambizione di dimostrare a Lord Byron il suo talento e in quella notte di tempesta la sua fantasia le donò un’idea visione che poi diventerà il suo primo romanzo Frankestein ovvero il moderno Prometeo, pubblicato anonimo nel 1818.

 <<Vedevo- a occhi chiusi ma con una percezione mentale acuta- il pallido studioso di arti profane inginocchiato accanto alla ‘’cosa’’ che aveva messo insieme. Vedevo l’orrenda sagoma di un uomo sdraiato, e poi, all’entrata in funzione di qualche potente macchinario, lo vedevo mostrare segni di vita e muoversi di un movimento impacciato, quasi vitale. Una cosa terrificante perché terrificante sarebbe stato qualsiasi tentativo umano di imitare lo stupendo meccanismo del Creatore del mondo>>.

Mary insieme al poeta Percy Shelley, condurrà in quegli anni un’esistenza libera da convenzioni sociali e girovaga, in quanto essi ebbero tutto un loro modo particolare di costruirsi la vita in maniera anticonformista, vivendo come se fossero usciti da un romanzo e circondati da amici a loro volta poeti e scrittori. Mary Shelley, che può considerarsi una sognatrice e una ribelle, uno spirito libero e rivoluzionario, soprattutto in ambito letterario, era la figlia di due progressisti intellettuali inglesi: il filosofo politico e scrittore William Godwin e la femminista antesignana Mary Wollstonecraft.

Mery sarà a sua volta una precorritrice dei tempi, destinata a rivoluzionare la storia della narrativa; infatti darà vita al filone letterario della fantascienza con Frankestein e con il racconto Valerius, il romano resuscitato al senso narrativo del viaggio nel tempo, attraverso il personaggio di un antico romano che si risveglia nella Roma contemporanea all’autrice. Inoltre la Shelley ha creato il filone letterario della fantascienza apocalittica con il romanzo The last man (1826), in cui narra di un’epidemia del 2076 che viaggia per via aerea (vi ricorda qualcosa?) e che provocherà l’estinzione dell’umanità; ad essa sopravviverà un unico uomo, che però sarà anche lui destinato alla dipartita. 

‘’Noi uomini abbiamo l’illusione di poter controllare la natura, in realtà alla natura basta fare così con il dito e può di nuovo distruggerci’’ dice l’autrice.

Mary Shelley può considerarsi una medium del suo tempo e al contempo una donna che pur non facendo dichiarazioni ideologiche femministe, tuttavia lotta per le donne attraverso gli argomenti letterari che propone. Ciò può ravvisarsi in particolare in Valperga, vita e avventure di Castruccio principe di Lucca’’ (1823), romanzo in cui l’autrice affronta in senso critico il tema di una civiltà patriarcale e guerriera in cui gli unici due personaggi femminili della narrazione sono invece la personificazione di una possibile società pacifista. 

Come è noto, dopo la morte in Italia del marito Percy Shelley, la scrittrice ritornerà in Inghilterra e si dedicherà totalmente alla scrittura, soprattutto per mantenere il suo unico figlio rimasto in vita, Percy Florence.

Si vogliono ricordare, oltre al racconto Valerius di cui si è già accennatoaltri racconti fantastici della grande autrice, ripubblicati da poco nella raccolta Metamorfosi e altre storie gotiche (Ed. La vita felice 2015) a cura di Franco Venturi. 

Nel primo racconto della raccolta, Tranformation, riportato per la prima volta sul The Keepsake nel 1831una pubblicazione annuale a cui la scrittrice contribuì con diversi racconti, si narra la storia fantastica di Guido che in preda all’orgoglio cede per qualche giorno le sue belle sembianze a un nano mostruoso in cambio di un forziere di tesori, rischiando così di perdere per sempre il suo aspetto e il suo amore. Il secondo racconto, The mortal immortal, scritto per The Keepsake nel 1833 narra di Winzy, che vive già da 323 anni ed è diventato immortale dopo aver bevuto l’elisir preparato dal suo mentore e alchimista Cornelio Agrippa, ma quest’ultimo morirà presto, in seguito anche la sua adorata moglie Bertha e il protagonista si sentirà condannato a una vita eterna e infernale.

Invece il terzo racconto, The Evil Eye, pubblicato anch’esso sul The Keepsake nel 1829, è la storia di Dmitri un albanese che subirà degli oltraggi dalla vita, diventerà un combattente feroce, ma alla fine si riconcilierà con l’esistenza.

Si tratta di una raccolta che rappresenta un piccolo capolavoro letterario in cui l’autrice realizza con un linguaggio aulico e attraverso la grande forza creativa che la caratterizza, una profonda indagine nell’animo umano: infatti la Shelley con questi piccoli racconti di letteratura gotica, attraverso il macabro e il soprannaturale, tratteggia le nostre paure più ancestrali e i nostri tormenti più inconsci.  

Cristiana Buccarelli

William Blake: guardiano delle porte della percezione di Lucia Matano

Prima di ogni altra cosa, per comprendere bene la complessa figura di William Blake del suo “Creato” linguistico, simbolico, filosofico e artistico tutto personale, bisogna delineare il contesto storico e culturale in cui visse.

Nato nel 1757 a Londra, da famiglia borghese, si trovò a vivere in un periodo di profonde rivoluzioni di tale forza rinnovatrice da cambiare gli assetti politici e sociali di un mondo che da allora in poi non sarebbe più stato lo stesso. Nel 1760 scoppiò la Prima Rivoluzione Industriale Inglese che determinò uno stravolgimento della concezione di un sistema che nasce come agricolo e commerciale per diventare industriale e imprenditoriale con l’unico scopo del profitto. Nel 1775 ha luogo la cosiddetta Rivoluzione Americana che portò le tredici colonie nordamericane all’indipendenza dalla Gran Bretagna e al riconoscimento degli Stati Uniti d’America. Altro grande evento fu la Rivoluzione Francese, esplosa in tutta la sua violenza nel luglio del 1789, che riuscì a cambiare non solo la storia politica e sociale francese, ma quella di tutta l’Europa. I nuovi assetti politici, economici e sociali dovuti ai suddetti avvenimenti posero la società inglese (nonché tutta la società europea) di fronte a nuove concezioni del vivere e del pensare. Termini moderni rispecchiano l’epoca ormai rinnovata: il Capitalismo che faceva guardare con occhi diversi il mondo dell’industria con i suoi oneri produttivi, insieme a politiche più democratiche e meno rigide, rinnovarono anche la posizione dell’Uomo; affrancato da vincoli quali la famiglia, la Chiesa, la morale o altre forme di collettività, adesso è completamente responsabile davanti a una vasta gamma di scelte che si allontanano dalla “tradizione”. Nasce l’Individualismo come atteggiamento comune a un’intera società, a differenza dei secoli precedenti in cui era peculiarità di qualche mente isolata e, spesso, sinonimo di egocentrismo.

È qui che si innesta la figura di William Blake: poeta, pittore, incisore e visionario. Innanzitutto è un visionario perché già all’età di otto anni ebbe la prima visione angelica che, riferita ai genitori, gli costò più di una sberla. Questo episodio gli lasciò l’amaro in bocca per molti anni, ma non riuscì ad arginare il fenomeno che lo accompagnò per il resto della sua vita. Oltre agli altri personaggi che si presentarono davanti ai suoi occhi, egli affermò di vedere periodicamente suo fratello minore, morto in giovane età. Altro motivo per cui possiamo affermare che è un visionario è la sua capacità di capire gli eventi storici e di intuirne, più che l’epilogo, le conseguenze. Il concetto di Visione, inteso come dono divino, è uno dei punti fermi dell’opera blackiana, è la stella polare a cui fa riferimento la sua stessa arte. È un dono a cui tutti gli uomini possono accedere appellandosi alla facoltà visiva a cui si può giungere solo se si vuole guardare con gli occhi della mente. La Visione blackiana non ha niente di sovrannaturale, fa parte delle potenzialità immaginative a disposizione di tutti gli uomini che, se correttamente coltivate, portano a una naturale resa artistica. Ciò che poi, da Visionario, lo innalza a Profeta è che tali intuizioni non restano fini a se stesse, esse si trasformano in moniti, in lezioni del vivere bene e in pace con la propria interiorità e con i propri simili nel mondo.

Blake analizza la storia, la società, la religione, il mondo ecclesiastico: insomma il reale, filtrandolo  attraverso la sua infinita capacità immaginativa che riesce a dare un volto, un carattere costruttivo o distruttivo ad ogni istanza che prende vita nei suoi scritti e, spesso, anche nelle sue incisioni. Imprescindibile è la sua critica al mondo Illuminista che si sviluppava e si diffonde proprio negli anni della sua giovinezza, grazie a figure come Locke, Bacone e Newton che Blake vide come acerrimi nemici dell’umanità e che contestò aspramente. Fu un antieroe del suo tempo e non potava essere altrimenti, ma col passare degli anni la sua voce non restò isolata, anzi, fu la base per un movimento che rivalutò tutto il pensiero Illuminista, prendendo in considerazione tutte le varianti che l’Illuminismo aveva escluso, per dare loro nuova linfa vitale: il Romanticismo. Blake non si preoccupa di conoscere le origini dell’universo, l’essenza di Dio o la natura dell’uomo; la sua volontà, divinamente ispirata, è quella di «salvare l’io intrappolato nei meandri del labirinto fenomenico».

Pensando a quanto sia stato amato, soprattutto dopo la sua morte, mi viene in mente Nietzsche quando afferma: “Sono nato postumo” e, se è vero che una cosa del genere accade solo ai grandi artisti e ai profeti, nessuno più di Blake poteva esserlo. Di certo l’hanno fatta da padrone tutta la carica iconica e simbolica che solo lui ha saputo partorire e la bellezza della sua arte che è rimasta immutata fino ai giorni nostri. Mi chiedo se, invece, non abbia giocato un ruolo importante anche il fatto che egli abbia avuto la capacità di condurre, chi realmente deciso a seguirlo, in “luoghi della mente” fatti di libertà, di verità e di purezza. “Luoghi” abbastanza inconsueti per il nostro quotidiano e che possono diventare rifugio necessario per chi non si accontenta di un reale effimero e materialista.

Effettivamente, alla luce di quello che siamo stati e di quello che siamo diventati, si dovrebbero rivalutare i moniti di menti geniali e lungimiranti che, con secoli di anticipo, ci hanno messi in guardia dai mostri che noi stessi avremmo generato. Mostri che avrebbero avuto le nostre sembianze, i nostri volti e che ci si sarebbero ritorti contro ad una tale velocità da non poterne essere mai veramente consapevoli. I lumi del 1700 avevano ragione di nascere come conseguenza a secoli di oscurantismo, repressione, paura, superstizioni che hanno mietuto vittime come vere e proprie guerre dichiarate. L’ottimismo illuminista ha peccato di presunzione o di ingenuità, oppure è stato semplicemente tradito. C’era fiducia nell’uomo e nelle sue potenzialità che meritavano di avere di nuovo la considerazione che gli era stata negata per troppo tempo, nella sua opera intelligente come fondamento per la sua crescita. Non è stata fatta, però, valutazione dei rischi a cui si andava incontro ponendo nelle mani della più pericolosa bestia vivente le sorti della sua specie e del suo habitat. L’Illuminismo pensava di restituire all’uomo la sua ragione, la sua intelligenza, il suo destino, tutta la sua potenza creatrice, ma gli ha affidato le armi sbagliate. Il progresso, il denaro, il potere e una condizione in cui egli può essere l’artefice della vita e della morte, del bene e del male, unico sole del suo stesso universo, hanno invece reso la bestia insaziabile, sempre più feroce ed avida di quei mezzi senza cui non può più fare a meno e che hanno alimentato solo la sua potenza distruttrice. La centralizzazione della sua posizione è stata fraintesa, se non abusata.

William Blake aveva intuito tutto questo, aveva capito che l’uomo andava “educato”, indirizzato verso una concezione della realtà che gli avrebbe concesso di vivere libero dalle catene di istanze che lo avrebbero imbarbarito e paralizzato. Forse è questo il motivo per cui Blake è ancora così attuale e così amato. Se potesse vederci oggi, credo che l’unica cosa che potrebbe dirci è: “Io ve l’avevo detto!”.

Lucia Matano