Definito da Antonio D’Orrico “l’unico erede legittimo di Umberto Eco”, Marcello Simoni con Morte nel chiostro il suo secondo romanzo edito da La nave di Teseo, offre un altro scorcio della Ferrara di fine 1100, con un romanzo che indaga il secolo dentro un monastero femminile in cui “gravosi interrogano l’anima” della novizia Beatrice e della badessa dopo due crimini avvenuti nei pressi del chiostro. Come una sorta di delitto della camera chiusa, Simoni con grande maestria narrativa racconta le figure femminili di un secolo che regala ancora tanto da scoprire.

Marcello benvenuto su Il randagio.
“Morte nel chiostro” è il tuo secondo romanzo con La nave di Teseo. Quanto offre ancora il territorio di Ferrara a uno scrittore di gialli?
Tantissimo. Le terre del Ferrarese sono fatti di sogni e nebbia. Materiale effimero che si moltiplica all’infinito nella fantasia di un narratore. Soprattutto se parliamo di storia e di misteri.
Stupire e divertire sono i tuoi obiettivi? Il Medioevo è un’età che si presta?
Tutto si presta a suscitare lo stupore. L’importante è la prospettiva che si adotta nel raccontare. Ma il Medioevo, in special modo, è uno scrigno inesauribile di meraviglie. Da Oriente a Occidente, sul mare e lungo le città costiere dell’Italia, la Spagna, e l’Africa, per non parlare della Terrasanta, non esiste un solo istante di questo arco di mille anni in cui non si possa ambientare un’avventura. Almeno, se si guarda dal mio punto di vista.
La figura di Ildegarda di Bingen quanto è stata per l’epoca ed è tuttora un esempio di donna indipendente?
Ildegarda è stata molto di più di una donna indipendente. Ha dimostrato, con la sua vita, con le sue profezie e con le sue opere scritte, che una donna poteva gareggiare in sapienza con i grandi studiosi e teologi dell’Evo di Mezzo. È un esempio di libertà intellettuale che trascende l’epoca in cui è vissuta, restando tuttora attualissima.
Nei tuoi romanzi spesso ti soffermi su personaggi femminili ma in questo le donne sono protagoniste sia da vittime che da investigatrice. Com’è stato approcciarsi alla donna medievale e perché hai scelto di dedicare loro questa storia?
Desideravo da tempo scrivere un romanzo in cui i protagonisti principali fossero donne. L’ho cercato, progettato e inseguito finché non mi sono sentito pronto ad approcciarmi a questo complicatissimo e squisito universo. È stata, per la mia crescita di narratore, una boccata d’aria fresca. E un’esperienza che desidero al più presto ripetere.
Brevi capitoli e ritmo incalzante nonostante la scena narrativa sia chiusa dentro un convento. Hai usato uno stile cinematografico?
Ho usato uno stile alla Marcello Simoni. Quello che sono abituati a leggere i miei lettori dai tempi del primo Mercante. Una scrittura che si traduce facilmente in immagini.
Le due consorelle detective sono anche due generazioni a confronto?
Non le ho concepite come un confronto generazionale, ma come due punti di vista differenti a confronto: quello della badessa matura educata in uno scriptorium e quello della giovane vedova diventata novizia. Si tratta di “modelli” coesistenti nella maggior parte dei chiostri medievali. Realtà vive e pulsanti, capaci di suscitare curiosità e fascinazione.

Gli animali hanno ruoli simbolici nei tuoi romanzi?
Assolutamente sì. Del resto, ci troviamo nel Medioevo. Falchi, gufi, colombe e civette, ma anche cani, cavalli e pipistrelli appartengono non solo alla quotidinaità dell’uomo dell’Evo di Mezzo, ma anche al suo immaginario e alla sua cultura simbolica. Che per inciso, è molto più ricca e profonda di quella attuale, dove tutto viene omologato dalla IA. I tuoi disegni accompagnano la narrazione
Quanto ti senti uno scrittore randagio nella tua ricerca storica?
Un randagio apparente, perché ho sempre in tasca la mia bussola di ricercatore storico. Quando scrivo, so sempre come e dove muovermi. E per quanto possa vagabondare dentro la mia fiction, tengo sempre di vista una foresteria o una locanda in cui poter riposare.
Cristina Marra

