Ho accolto volentieri l’invito a recensire Una Rosa nel cuore, il libro di Giovanni Paonessa pubblicato la scorsa primavera da De Nigris Editori. L’opera racconta, dal particolare osservatorio autobiografico dell’io narrante, “un intenso periodo della storia politica e sociale italiana, dal 1969 al 1979, attraverso i ricordi, le letture, le lotte e le sconfitte di un giovane apprendista rivoluzionario, nato nel 1955”.

Il mio antico mestiere di insegnante appassionata di filologia mi spinge, innanzitutto, a recensire lo stile poiché, lo segnalo soprattutto a chi non abbia ancora letto il libro, Giovanni Paonessa scrive molto bene: direi che ha un vero e proprio dono di scrittura che ho avuto modo di apprezzare già nel corso degli anni trascorsi insieme al Comune di Napoli, e che consiste nel dosaggio quasi “scientifico” tra l’argomentare specchiato e lineare e l’ironia graffiante.
Lo scrittore sa narrare e argomentare al tempo stesso mantenendo un tono ironico che alleggerisce sistematicamente le tematiche: anzi, proprio quando il tema è particolarmente impegnativo, quando un passaggio ha necessità di essere rimarcato, ecco che arriva, fulminante, una battuta che immediatamente smorza i toni e, in certi momenti, lascia addirittura interdetti. Mi aiuto con una citazione tratta dal primo capitolo: “Si cantava a squarciagola e, se le divergenze rigorosamente in seno al popolo vertevano anche sulle parole delle canzoni, bisognava cantare più forte degli altri. Alla fine di Bandiera rossa, con l’ultimo filo di voce rimasto, si giocava la partita più importante, quella che avrebbe stabilito gerarchie ed egemonie, caratterizzando senza alcun dubbio il corteo. Naturalmente, in ognuno dei gruppi contrapposti si sarebbe confermata la sensazione di avere avuto la meglio sugli altri partecipanti alla manifestazione, avendo ascoltato prevalentemente, se non esclusivamente, la propria voce”.
E passiamo al genere letterario: per immergersi pienamente nel volume bisogna andare oltre quanto pure dichiarato nella quarta di copertina; perché se è vero che siamo di fronte ad un’autobiografia, che non si sottrae, già dal titolo e dall’immagine del frontespizio, all’esplicito richiamo al pensiero di Rosa Luxemburg, nel contempo ci si trova a confrontarsi con il percorso politico ed esistenziale di un’intera generazione. Il giovane Giovanni Paonessa racconta anni di impegno, di studio e ricerca, di “inchieste sul campo” promosse dalla Facoltà di Sociologia ed, in particolare, dal compianto professor Domenico De Masi. Un modo per approfondire e verificare teorie che – di questo il protagonista si mostra consapevole – andavano rielaborate e riportate nel contesto di una società in profonda trasformazione, che richiamava ad una scelta. La scelta di decidere da che parte stare, da che parte collocarsi, in difesa di quali interessi. Una Rosa nel cuore racconta il percorso politico e civile di un ragazzo che, pur a fronte di sconfitte e delusioni, quando si domanda «che ci faccio qui?», continua a rispondere «mi trovo dove ho scelto di stare». Ogni passo enfatizza la bellezza e la necessità fortemente sentita di impegnarsi in una “sistematica azione dal basso”: si tratti della difesa di una biblioteca di quartiere, del lavoro di sensibilizzazione sui temi del referendum sul divorzio oppure della partecipazione all’occupazione di una piccola fabbrica tessile che aveva licenziato le operaie.

Non mancano momenti dolorosi, come quelli dedicati al movimento del Settantasette e alle disillusioni che ne seguirono. Da quelle delusioni, e dalle riflessioni connesse, matura poi la scelta di occuparsi dei diritti dei lavoratori stagionali dell’industria conserviera, con una circolarità che è bene rimarcare: quei pomodori che lo avevano sempre attratto, sin dai tempi infantili in cui tutta la famiglia, grandi e bambini, preparava le conserve nel cortile familiare a Mercato San Severino, tornano nel destino dell’uomo adulto e ne definiscono una parte del tracciato.
Se poi dalla modalità di narrazione, caratterizzata dall’intreccio tra il filo della storia e il filo delle citazioni del pensiero di Rosa Luxemburg, ci spostiamo al “merito” del racconto, posso affermare senza alcun dubbio che ci troviamo di fronte ad un testo altamente istruttivo, che andrebbe consigliato ai più giovani per far capire come, purtroppo, a sinistra si sia abbandonato un metodo, quello che teneva insieme la ricerca e l’impegno politico. Non ci si impegnava politicamente se prima non si era fatto un accurato lavoro di analisi e conoscenza delle problematiche che si intendevano affrontare. In didattica definiremmo con il termine di “ricerca-azione”, questo saper tenere insieme teoria e pratica. Ancora, il racconto è istruttivo anche per comprendere in nuce i semi, potremmo dire l’eziogenesi, di una sconfitta, in buona parte addebitabile alla deriva, già presente negli anni Settanta, delle divisioni, delle incomprensioni reciproche, fino all’abbandono della tensione ideale.
Per ultimo, il lettore troverà il libro anche emozionante. Ciascuno che abbia vissuto quegli anni intensissimi o che abbia nutrito quegli ideali potrà ritrovarvi l’emozione che più gli appartiene. Ad esempio chi scrive, pur appartenendo ad una generazione di poco successiva, si è emozionata scoprendo di aver avuto con l’autore due maestri in comune, entrambi “eretici”: don Lorenzo Milani e Pier Paolo Pasolini, che con la loro opera sono stati entrambi capaci di operare nel pensiero dominante una rottura, uno scarto, che ci ha permesso di crescere. Ma ci si potrà anche commuovere passeggiando per le vie del mercato di Resìna, vero e proprio cult, ricordando la festa di Licola, i funerali di Berlinguer e di Guido Rossa oppure ripassando nella mente le canzoni citate, scoprendo gli scritti di Rosa Luxemburg sulla guerra, ancora di drammatica attualità. Al lettore risulterà evidente l’intreccio, il necessario intreccio, tra le istanze politiche e quelle esistenziali, e i percorsi a volte tortuosi, sofferti, ai quali l’autore non si è sottratto. Raccogliendo tutti gli indizi seminati durante il percorso, ci si svelerà quella che il narratore definisce “una scelta obbligata, all’apparenza una resa, l’unico modo per restare dalla parte degli sfruttati”.
Chiudiamo sulla postfazione: essa si apre con una sorta di omaggio dell’autore a Luisa Cavaliere, senza alcun dubbio tra le ispiratrici del volume, per concludersi con il dono di una lettera mai spedita, ritrovata sulla scrivania di Luisa e destinata alla “Cara Rosa”, che ha insegnato ad entrambi, a Giovanni e a Luisa stessa, come si possa lottare indomiti grazie alla forza delle idee anche in presenza di un nemico schiacciante. Ed è un insegnamento per il presente di ognuno di noi.
Annamaria Palmieri

