
Il libro di David Leavitt “Ballo di Famiglia” compie quarant’anni: fu infatti pubblicato nel 1984 (in Italia nell’ 86 da Mondadori con la traduzione della compianta Delfina Vezzoli), quando l’autore aveva poco più di vent’anni e stava laureandosi a Yale in composizione creativa. Esordire così giovani oggi può sembrare un caso raro, soprattutto in Italia, ma a metà degli anni Ottanta negli Stati Uniti furono pubblicati con successo numerosi scrittori under 30, tra i quali autori del calibro di Jay McInerney, Bret Easton Ellis, Susan Minot e lo stesso Leavitt.
In questi quarant’anni di attività Leavitt ha pubblicato una ventina di opere tra romanzi e raccolte di racconti, ma fu proprio “Ballo di Famiglia”, il suo libro d’esordio, a consacrarlo tra i maggiori autori americani contemporanei.
Qui Leavitt racconta, in nove storie di normale quotidianità, l’ infelicità e le insoddisfazioni della middle class americana, il malessere e la malinconia dei microcosmi familiari tra tormentati rapporti genitori-figli, malattie, precarietà nelle relazioni, sessualità rivelate, offrendoci una prospettiva coinvolgente sulle dinamiche all’interno della famiglia e sulle sfide, le sconfitte, i fallimenti che i suoi personaggi si trovano ad affrontare.

La scrittura di Leavitt è raffinata e si presta a descrizioni dettagliate senza risultare prolissa; è impeccabile, ricca di dettagli e colma di emozioni. La narrazione è complessa e interessante e i dialoghi sono vividi e realistici, rendendo ogni personaggio estremamente credibile, ciascuno col proprio bagaglio emotivo.
L’autore riesce a trasmettere autenticità ai lettori grazie al modo di trattare temi delicati senza mai abusare con la tristezza da infondere alle sue storie. Semmai avvertiamo gioia di vivere quando ci lascia entrare in matrimoni infranti, in famiglie al limite della frantumazione, nelle contraddizioni delle persone open minded al momento della prova, nei sentimenti traditi, negli outing sofferti, nella prigione del rapporto madre-figlio, ma sempre segnando l’aspetto della relazione affettiva, dei sentimenti compressi o negati anziché dichiarati.
Leavitt rivela le ipocrisie e le manchevolezze delle famiglie apparentemente normali, i silenzi e le occasioni perdute, le assenze e le lacune, quasi volesse suggerire una strada, un percorso e una via di fuga che superi, come ad esempio nel caso del tema dell’omosessualità, l’apparente accettazione del contesto familiare per poterlo proiettare all’esterno senza ipocrisie.
Fernanda Pivano, da sempre innamorata della letteratura d’ oltreoceano, lo definì “postminimalista” in un articolo apparso il 5 febbraio 1986 sul “Corriere della Sera”: il termine venne ripreso e accorciato in “minimalista” e David Leavitt e altri giovani scrittori degli anni ’80 furono appunto etichettati come “minimalisti”: un gruppo eterogeneo ma che aveva una sorta di filo conduttore che li legava, ovvero la voglia di raccontare delle storie, magari anche minime, ma con un linguaggio che dava nuova linfa alla narrativa, con un rifiorito interesse per il racconto, la short story.

E a questo riguardo non si può non citare quello che possiamo considerare un padre nobile di questa scena letteraria, Raymond Carver (che ha però sempre preso le distanze da quegli scrittori), e in modo particolare un’altra raccolta di racconti del 1983 che diviene quasi un “manifesto” di un genere, “Cattedrale”, che insieme a “Ballo di Famiglia” diventa il punto di riferimento della scrittura minimalista.
Leavitt, attualmente docente di lettere inglesi alla University of Florida dove insegna nel programma di scrittura creativa, ha avuto un grande successo editoriale (in Italia, dove risiede per lunghi periodi, ha venduto moltissimo) e da due suoi libri,” Il voltapagine” e “La lingua perduta delle gru” sono stati tratti omonimi film.
L’editore italiano SEM ha ripubblicato le opere di Leavitt, tra cui nel 2021 Ballo di Famiglia per la traduzione di Fabio Cremonesi.
Amedeo Borzillo

